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Come è cambiato il rugby negli ultimi 10 anni e perché l’Italia è rimasta la stessa

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Se c’è uno sport che è cambiato di più e velocemente negli ultimi anni questo è sicuramente il rugby. World Rugby, il governo della palla ovale mondiale, cerca di adattarsi ai tempi, prova nuove soluzioni, regole che garantiscano la sicurezza dei giocatori, che rendano il gioco più spettacolare. Cambiare, a volte snaturare, è stato il leitmotiv del rugby nell’ultimo decennio. Dalla mischia ai punti d’incontro, il rugby cambia e i rugbisti devono adattarsi.

Ma non solo. Perché il rugby è cambiato anche fuori dal campo. Il professionismo, arrivato solo a fine anni ’90, ha avuto un’accelerata nell’ultimo decennio, con soprattutto i club francesi (ma anche il Giappone) a innescare una corsa al campione, investendo cifre fino a pochi anni fa impensabili. E una maggior professionalizzazione significa anche staff più ampi, tecnologie sempre più avanzate, allenamenti sempre più estremi e, di conseguenza, anche fisici che cambiano.

E l’Italia? Come spesso capita – non solo nel rugby – è rimasta indietro. Invece di cambiare marcia, invece di adattarsi subito ai tempi che mutano, il rugby italiano si è impantanato in lunghe ed estenuanti discussioni filosofiche e ideologiche, dove il tema non sembrava essere la crescita del rugby, ma la dicotomia tra il “rugby pane e salame” e il rugby d’alto livello. Chi provava a seguire questa seconda strada è stato spesso additato come un traditore del vero rugby e, così, il movimento è andato avanti non unito, ma seguendo velocità diverse.

A ciò si aggiunga ciò che è successo poco più di 10 anni fa. Dopo il boom mediatico degli anni 2007 (prima volta che l’Italia vinceva due partite nel Sei Nazioni a pochi mesi da Calciopoli) e 2009 (San Siro pieno per la sfida con gli All Blacks), la Federazione ha perso il treno della visibilità. La scelta di Giancarlo Dondi di abbandonare RCS per l’organizzazione dei test match, il ritorno implacabile prima alle sconfitte onorevoli, poi alle semplici sconfitte; l’incapacità da parte della Fir (ma anche dei singoli club) di creare uno storytelling ovale che andasse oltre allo stantio racconto dei valori del rugby ha riportato la palla ovale nell’oblio. E, con esso, non sono arrivati più gli sponsor e, di conseguenza, i soldi.

Proprio nel momento in cui, come abbiamo detto, il professionismo subiva in tutto il mondo una forte accelerata, ecco che in Italia veniva a mancare il primo elemento fondante del professionismo. I soldi. Così i paragoni tra i budget tra i team di Top 14, Premiership e quelli di Benetton Treviso e Zebre diventano imbarazzanti e diventa scontato che in Italia si debba competere nell’alto livello senza le armi che hanno i nostri avversari. Così da noi si sono spesso (con rare eccezioni) scelti stranieri di secondo o terzo livello che non hanno aiutato a far crescere né i giovani né l’interesse verso il rugby, mentre nelle sfide dirette le italiane hanno sempre affrontato corazzate ben più forti e strutturate.

Si potrebbe continuare elencando gli errori strategici fatti dal movimento ovale italiano in questo decennio, a partire dallo svuotamento economico, sportivo e d’interesse per i vari campionati nazionali, si potrebbe disquisire su come il ricco budget federale (seconda Federazione italiana più ricca dopo il calcio) sia stato mal speso, al punto da ritrovarsi un paio di anni fa con i conti in rosso e dovendo, gioco forza, tagliare quei progetti (giusti o sbagliati che fossero) messi in piedi proprio per ridurre il gap con le nazioni migliori.

Così come si potrebbero analizzare le scelte tecniche, che vedono a capo del settore Franco Ascione, uomo intoccabile della Federazione, mai messo in discussione nonostante i fallimenti conclamati della gestione tecnica del movimento ovale degli ultimi 20 anni. Il rugby si è evoluto, i ruoli sono cambiati nella struttura fisica dei giocatori e in ciò che viene richiesto al rugbista in un determinato ruolo, eppure in Italia la “didattica” è rimasta ferma agli anni ’80 e ’90. Così il rugby italiano è rimasto fermo, mentre gli altri correvano.

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duccio.fumero@oasport.it

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Foto: LaPresse

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