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Edita Pucinskaite: “Il ciclismo dà un’opportunità per essere migliori. La solidarietà è un vaso che si riempie di bellezza”

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Edita Pucinskaite è senza ombra di dubbio la donna dei record della storia del ciclismo femminile. L’unica a poter vantare nel proprio palmarès: Giro d’Italia, Tour de France e Campionato del Mondo, e l’unica ad aver indossato la maglia gialla di leader della Grande Boucle dalla prima all’ultima tappa. Lituana di nascita, ma italiana d’adozione, la Pucinskaite è un simbolo delle due ruote, battagliera sia da professionista, attività terminata nel 2010, che fuori, dove, coniugando la bici alla solidarietà, ha incominciato una nuova vita ricca di tantissime soddisfazioni personali e non solo, con al centro sempre e comunque il bene del prossimo. Edita ci ha raccontato la sua nuova realtà, le sue sfide di oggi, lanciando anche un monito per un’attenzione in più nei confronti del ciclismo femminile, e sulla grande e inestimabile assenza, da ormai più di dieci anni, della Grande Boucle Féminine.

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Come sta vivendo, psicologicamente parlando, il mondo del ciclismo fuori dalle corse?

“Uscire dal mondo agonistico e integrarsi in quello “normale” è stato per me molto più semplice di quanto mi aspettassi. Il fatto è che, probabilmente, non avevo alcun motivo di entrare nella cosiddetta depressione post agonistica della quale tutti iniziarono a parlarmi al mio ultimo anno di attività. Ascoltavo la gente che mi diceva: ‘Vedrai che presto tutti si dimenticheranno di te e sarai una nessuno, un pesce fuor d’acqua, ti mancheranno le corse, l’adrenalina, girare il mondo, la bici non vorrai più vederla nemmeno da lontano, perché è quello che succede a tutti’. Mi dicevano questo e altro ma io ero molto serena, realizzata e matura per la svolta. Sono uscita dal ciclismo sapendo che non mi staccherò dalla bici. Mi vedevo già in versione cicloturistica a pedalare per pura passione, divertimento, salute e perché no, per qualche altra causa, magari più nobile. Restare “immortale” non era di certo lo scopo della mia carriera anzi, se devo essere sincera, mai mi sarei aspettata una marea di riconoscimenti e attestati di stima che ricevo continuamente, anche se, sarebbe da ipocriti negare, fa sicuramente piacere, soprattutto perché ogni volta che parlano di me e della mia carriera, è come se si parlasse del Ciclismo Femminile; un mondo che mi ha dato tanto e al quale ho dato tutto ciò che avevo dentro, senza risparmiarmi. Nel 2010, prima di appendere la bici al chiodo, sono stata invitata all’inaugurazione del Team Avis Bike Pistoia, società amatoriale nascente con scopi ben precisi: promuovere la filosofia della solidarietà nel mondo dello sport. Sembrava una società tagliata su misura per me; l’idea di dare un senso diverso e molto più profondo alle mie pedalate da ex, era come continuare a vincere. Non dovevo più vincere per il mio paese, per la mia famiglia, per la squadra, per amici o tifosi, per regalare l’emozione a chi crede in me. Dovevo continuare a pedalare sì, ma “solo” per regalare un sorriso, uno spicchio di vita e speranza. Il ciclismo oggi lo vivo così: come un’opportunità per essere migliori”.

Ha qualche rammarico in merito alla sua carriera?

“La mia è stata una lunga carriera costellata non solo da successi, ma da tantissime sconfitte e momenti amari. Per fare qualche esempio, ho perso Il Giro d’Italia nel 2003 all’ultima cronometro, dopo aver difeso la Maglia Rosa per quasi tutta la corsa. Sono arrivata seconda ai Mondiali di Lisbona 2001 in una volata a tre, e tra me e la vittoria c’era mezzo centimetro. Ai Mondiali di Hamilton 2004 sono rimasta giù dal podio al fotofinish, senza parlare delle varie cadute che mi hanno tagliato dai giochi o impedito di essere competitiva. Poi momenti clamorosi e inammissibili, come le transenne volate via per il vento ai Mondiali di Stoccarda 2007, e che hanno travolto me e altre concorrenti proprio quando la prova iridata stava entrando nel vivo. Oltre alla sfortuna (essere al posto sbagliato nel momento sbagliato) e alle botte (spaccata bici, casco e costole) mi sarei aspettata almeno le scuse da parte di chi avrebbe dovuto prevedere ogni dettaglio, e invece nulla, anzi, mi dissero che c’era troppo vento. Però il giorno dopo, per la prova degli uomini, l’organizzazione della transenne fu ben diversa. In quell’occasione poteva andare molto peggio. Ma il ciclismo è anche questo, vincere, perdere, riscattarsi, erano i verbi fissi nel mio vocabolario ciclistico insieme ad altri come restare con i piedi per terra, non perdere l’umiltà nel durare fatica e smettere senza rimpianti”.

Lei si sta battendo molto nel sostegno nei confronti dei bambini meno fortunati. Che soddisfazioni prova nel poter regalare anche solo un secondo di felicità?

“La soddisfazione interiore in seguito ad un gesto di altruismo, credo sia una questione di sensibilità che uno ha o non ha. Potrei dire che già regalare un sorriso ti riscalda l’anima e ti ripaga degli sforzi fatti, come anche regalare la speranza o un sostegno concreto ai più bisognosi ti fa sentire migliore; ma mi rendo conto che non tutti la pensano come me, altrimenti fare solidarietà sarebbe per tutti semplice e naturale. Il bello del donare è proprio questo: lo fai perché lo senti dentro senza nessuna aspettativa, ma poi ricevi tanto, tantissimo. Sei come un vaso che si riempie di bellezza. Quest’anno ho indossato per la decima volta i panni della Befana della Solidarietà, esperienza unica che ogni anno mi arricchisce dentro e mi ricorda quanto siamo fortunati. Con l’Avis Bike Pistoia, oltre a diffondere la filosofia della donazione del sangue, organizziamo la Gran Fondo intitolata a me (www.gfeditapucinskaite.com), che promuove i valori della solidarietà e le bellezze del  territorio pistoiese, la terra in cui vivo e che mi ha accolto così bene. Tolte le spese organizzative, devolviamo tutto in beneficenza”.

Cosa significa per lei l’Italia? Cos’ha lasciato, ciclisticamente parlando, al suo Paese?

“Sono nata e cresciuta in Lituania e ovunque vado porto con me il silenzio dei nostri laghi, lo splendore dell’ambra, pietra preziosa del nostro Mar Baltico, e  tante altre cose intime e semplici legate alla mia infanzia e adolescenza. In Lituania ho fatto i miei primi passi da ciclista, difendendo successivamente i colori della nostra bandiera in 18 Campionati del Mondo e 3 Giochi Olimpici. L’ho fatto con tanto orgoglio, come avrebbe fatto chiunque al posto mio. Lasciare una traccia di sé, e notare come spuntino delle nuove leve che si ispirano ai tuoi risultati, è una grande gratificazione. Anche se, purtroppo,  le generazioni successive del ciclismo lituano, eccezion fatta per la pista, oggi fanno una grande fatica a competere ai massimi livelli del ciclismo mondiale. L’Italia è un paese che adoro, per la sua storia da brividi, per la cultura e la natura, per il cibo, e ovviamente per l’amore verso il ciclismo. Nel ‘96 ho firmato il mio primo contratto da professionista con la Acca Due O-Lorena, società trevigiana dove ho militato quattro anni, per poi correre per altri cinque team italiani, oltre che per una formazione tedesca e una di San Marino. In Italia ho la mia famiglia, i miei affetti più importanti”.                   

Come si è evoluto il ciclismo femminile dai suoi tempi ad oggi? 

“Possiamo accontentarci e parlare del ciclismo femminile odierno, super tecnologico e estremamente social, dell’UCI Women’s World Tour, ben organizzato, decisamente un ottimo veicolo promozionale per tutto il movimento, ma attenzione, c’è una cosa fondamentale che manca al ciclismo femminile (oltre ad altre cose, ma per me questa è la più importante) senza la quale non potrà mai diventare completamente evoluto: la mancanza del Tour de France. Manca una grande corsa faro sulla quale tutte le big incentrino la stagione. Mancano le imprese epiche sui passi gloriosi che accendono l’attenzione e fanno esplodere l’amore nel cuore degli appassionati, mancano i chilometri e le ore in bicicletta. Proviamo a togliere i tre giri monumento al ciclismo maschile: Tour-Giro-Vuelta. É inimmaginabile. Giustamente il ciclismo perderebbe il suo equilibrio. Nel femminile il Giro Rosa c’è, è bello ed importante, ma spesso con tappe troppo brevi e con poca montagna. Oggi le scalatrici hanno spazio limitato. Fabiana Luperini  sarebbe stata un’atleta incompiuta di fronte ad un calendario incentrato sulle classiche e su gare a tappe troppo brevi, per lo più adatte a passiste veloci o passiste scalatrici. È un po’ venuto a mancare il gusto della sfida epica. La mia generazione aveva un Tour credibile, corsa che durava due settimane, infiammava il pubblico, divideva i tifosi, portava la carovana gialla sui passi alpini e dei pirenei più belli come l’Alpe-d’Huez, Col de la Madeleine, Col du Glandon, Tourmalet, Mont Ventoux ed altri. Per me trionfare sul traguardo del Tourmalet nel 2000, o a Courchevel nel 2002, non era certo come vincere un’altra pur prestigiosa corsa. Quindi, paradossalmente, il ciclismo femminile odierno lo vedo più evoluto e contemporaneamente più povero, più svantaggiato; perché alla fine, per fortuna, nel ciclismo conta sì vincere, ma anche come si vince e dove si vince. Posso fare una domanda io? Secondo voi, i primi cinque più grandi ciclisti maschili di ogni epoca, per quali vittorie sono ricordati? Quali imprese li hanno fatti entrare nella storia?”

Un suo parere sulla questione del #Metoo.

“Lo sport non è certo un’isola felice, gli abusi sessuali esistono in molti ambiti lavorativi, così come esiste la violenza domestica, il femminicidio, il mobbing, lo stalking e la pedofilia. I responsabili di pratiche inopportune e criminali devono sparire per sempre dai ranghi dei tecnici, le vittime non devono più subire e chiudersi in silenzio, gli imbarazzi creano omertà dalla quale il mondo dello sport si sta pian piano liberando. Ma qui la solidarietà non basta, le ragazze devono denunciare subito, le leggi ci sono. Parlare e lottare contro questo mostro, e altri simili della nostra società, è dovere di tutti”.

Chi è il futuro del ciclismo femminile internazionale? E la speranza per l’Italia?

“Sarà molto difficile lottare contro la sua maestà Nazionale olandese, nazione dominatrice ormai da diversi anni, che continua a vincere con le affermate Marianne Vos, Annemiek Van Vleuten, Amy Pieters, e lanciare nuovi talenti come Lorena Wiebes, grande rivelazione della stagione 2019 capace di chiudere la stagione da numero uno della classifica mondiale dell’UCI. Tra le italiane mi piacciono tanto Soraya Paladin e Letizia Paternoster, due grandi talenti che stanno confermando il loro valore atletico. Ma sarò fuori moda, io non amo parlare tanto del futuro, l’elenco di future promesse mai sbocciate è lunghissimo; ecco perché adoro quella categoria, maschile o femminile che sia, che, nonostante  la maturità sportiva, vince e convince da anni, e se non vince qualcosa di buono regala sempre emozioni, spettacolo e coraggio”.

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lisa.guadagnini@oasport.it

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Foto: Edita Pucinskaite

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