Rugby
Rugby, i segreti dell’ascesa esponenziale del Giappone. Gli spunti a cui anche l’Italia dovrebbe guardare
“Ma così piccoli, mica giocano a rugby”. Una frase che per anni è stata una battuta negli ambienti ovali quando l’Italia doveva incontrare il Giappone in un test match di rugby. Dal lontano 1976, quando gli azzurri affrontarono i nipponici a Padova, imponendosi con un netto 25-3. E per anni il refrain “giapponesi no buoni per rugby” aveva un suo perché. Tra il 1976 e il 2011 gli incontri tra Italia e Giappone sono stati 5, tutte vittorie per gli azzurri. Ma negli ultimi 3 match sono arrivate ben due vittorie per il Giappone. E i nipponici hanno smesso di essere la Cenerentola ovale.
“Ma così piccoli, mica giocano a rugby”. Una frase che devono aver pronunciato anche i giocatori del Sudafrica quattro anni fa. Erano i Mondiali in Inghilterra, Giappone e Sudafrica erano state inserite nello stesso girone e gli Springboks erano i favoriti d’obbligo. Senza dubbi. I bookmaker davano la vittoria dei nipponici a cifre esagerate. Ma quel giorno, era il 19 settembre, si scrisse una pagina clamorosa del rugby. I giapponesi entrano in campo senza voler essere le vittime sacrificali e fin da subito mettono sotto pressione il Sudafrica. E’ un botta e risposta incredibile per 70 minuti, quando le due squadre si ritrovano sul 29 pari. Al 73’ arriva il piazzato di Pollard che dà tre punti di vantaggio per il Sudafrica. Finita? No, anzi. Al 79’ fallo di Oosthuizen, cartellino giallo e il Giappone potrebbe pareggiare. Tra l’incredulità generale, invece, i nipponici vanno in touche, cercano la meta della vittoria. E’ un assedio a un metro dalla linea di meta, gli Springboks sono in ginocchio ma difendono con i denti. Il Giappone va avanti, assalto dopo assalto. Altro fallo, questa volta mischia. E a tempo scaduto, ecco che sbuca dal nulla Hesketh e va in meta. Il Giappone vince e mette a segno il colpaccio più incredibile della storia del rugby. Perché il Giappone nell’ultimo decennio è diventato una nuova Patria del rugby.
Merito degli sponsor, che negli ultimi 15 anni hanno scommesso sul rugby. Dal 2003, anno in cui nasce la Top League, il massimo campionato giapponese di rugby. E che nasce grazie ad alcuni marchi famosi in tutto il mondo, dalla Toyota a Nec, passando per la Canon e la Toshiba. Sono questi alcuni degli sponsor che danno il nome ad alcune delle squadre che partecipano al torneo. Un campionato che ha avuto sempre più successo e che, grazie ai soldi degli sponsor, negli ultimi anni ha saputo attirare alcune delle più importanti stelle del rugby mondiale. In Giappone hanno giocato, o giocano, campioni come Dan Carter (miglior marcatore della storia) o George Gregan, leggenda del rugby australiano. Ma anche Matt Giteau, Ma’a Nonu, o il gallese Shane Williams. Un successo sportivo e di pubblico. Basti pensare che nella stagione appena conclusa si ha avuto una media di 5.819 spettatori a partita, con il record di 31.332 spettatori nel match d’esordio tra Toyota Verblitz e Suntory Sungoliath. Pochi pensando ai nostri stadi di calcio? Certo, ma pensate che in Italia il massimo campionato non arriva a una media di 1.000 spettatori a partita e raramente supera i 2.000 spettatori nei match clou.
Se il rugby in Giappone non è forse il primo sport, sicuramente attorno alla palla ovale nel Paese del Sol Levante ci sono diverse curiosità che spiegano la passione per il rugby. A Osaka, per esempio, vicino alla stadio che ha ospitato Italia-Namibia c’è un tempio shinto-buddista, il tempio Kasuga jinja. Ebbene, la divinità ha il compito di proteggere i rugbisti della squadra di Osaka dei Kintetsu Liners militante in Top League e di tutti i rugbisti che passano di lì a rendere omaggio e chiedere protezione. Inoltre, tutti noi conosciamo l’anime giapponese “Holly&Benji”. Ebbene, nel 2012 è uscito un manga, che da due anni è anche un anime, intitolato “All Out” e che racconta la storia di una squadra studentesca di rugby. Casualmente di Osaka.
Con circa 125mila giocatori tesserati il Giappone è la sesta nazionale al mondo come rugbisti e, ancora una volta, è la prima dietro alle Patrie del rugby, avendone il doppio rispetto all’Italia e più anche dell’Australia. Insomma, un mercato potenzialmente attratto dal rugby (anche se la palla ovale è solo il quinto sport di squadra più amato nel Paese), sponsor globali di prima scelta, stadi rinnovati dopo i Mondiali di calcio del 2002 e con infrastrutture pronte per i Giochi Olimpici del 2020. Insomma, la scelta del Giappone per ospitare la Rugby World Cup 2019 ha avuto tante motivazioni sportive ed economiche. Ma anche politiche.
Sì, perché fino a pochi anni fa a capo della federazione c’era l’ex Primo Ministro Yoshiro Mori, un passato in gioventù da rugbista. E la sua spinta è stata fondamentale per far uscire il rugby dai soliti Paesi. Ci aveva provato già per i Mondiali del 2011, proprio con lo slogan “Rendiamo il rugby più inclusivo”, ma venne sconfitto, con il governo mondiale della palla ovale che scelse la Nuova Zelanda come sede dei Mondiali. Ma, come sempre, ogni successo ha il suo rovescio della medaglia. Perché il successo del rugby in Giappone è sicuramente incredibile, ma ha scatenato forti polemiche.
Si parte dal 2016, quando il Super Rugby (il torneo che coinvolgeva squadre di Sudafrica, Nuova Zelanda e Australia) venne allargato a una franchigia argentina e una giapponese. L’Argentina è una nazione rugbistica e già era stata inserita nell’allora Tri Nations e nessuno batté ciglio. Ma i Sunwolves giapponesi non vennero accolti con altrettanto entusiasmo. E i risultati parlavano da soli. Nella prima stagione i giapponesi persero 13 partite su 15, strappando una vittoria e un pareggio. Va poco meglio un anno dopo, con 13 sconfitte e due vittorie. Insomma, i Sunwolves non ha portato certo qualità al torneo. Perché inserirla? I detrattori, ovviamente, parlano di un semplice interesse economico dietro la scelta, una scelta che non piaceva anche per le lunghe trasferte che le franchigie sudafricane dovevano affrontare per arrivare in Giappone a giocare. E, infatti, il flop è stato tale che dal 2021 la franchigia giapponese non farà più parte del torneo.
Le polemiche, però, sono anche sportive. E, qui, torniamo alla battuta iniziale, quella sui giapponesi troppo piccoli per giocare a rugby. E, dunque, ecco che il Giappone da anni ha promosso una politica molto forte di equiparazione. Cioè ha preso giocatori provenienti rugbisticamente da altre nazioni (Nuova Zelanda, Fiji, Tonga e Samoa principalmente) e li hanno fatti giocare tre anni in Giappone in modo da poterli schierare in nazionale. Insomma, il rugby in Giappone è esploso anche perché una larga fetta di nazionali giapponesi… non sono giapponesi. Per la precisione, nel novembre 2018, durante i test match autunnali il Giappone schierava il 37,1% di giocatori non giapponesi. Attenzione, però, perché i nipponici non sono certo gli unici, anzi. Nell’autunno 2018, infatti, la Scozia aveva ben il 46,3% di ‘stranieri’, mentre l’Italia seguiva con il 29,7%. Va detto che sia Scozia sia Italia in buona parte schieravano giocatori nati all’estero, ma con discendenze italiane (i cosiddetti oriundi), mentre la stragrande maggioranza degli stranieri nel Giappone non hanno alcun legame di sangue con il Sol Levante. Ma, polemiche o meno, quel che è certo è che il Giappone ha saputo cambiare marcia nel rugby, a differenza dell’Italia.
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Foto: LaPresse