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Andrea Pavan, golf: “Se non riaprono le frontiere sarà dura giocare. Credo che la Ryder Cup si farà, ma senza pubblico”

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Si è imposto come numero 2 d’Italia con due annate, quelle 2018 e 2019, di ottima fattura. Andrea Pavan, 31 anni, nato a Roma, ma che fa base in Texas da tantissimi anni, stava cercando di rimettere a fuoco le proprie sensazioni a causa di un inizio di stagione non semplice, dopo che aveva vissuto una bella seconda metà di quella passata, nella quale era riuscito anche a disputare il suo primo Open Championship. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per un’intervista, nella quale ci ha raccontato le sensazioni dello stop, la sua carriera, il suo futuro e ha espresso più di un concetto non banale.

Cosa pensi dell’interruzione e quali sarebbero stati i tuoi programmi senza?

“A questo punto avrei dovuto essere in Malesia o in Cina e poi in Spagna, quindi anche tornei abbastanza grandi prima di quelli estivi in Europa, dove si centra in generale la stagione del golf”.

Fra l’altro Maybank Championship e China Open furono tra i primi a essere rinviati perché già in gennaio lì il coronavirus aveva già attecchito.

“Già a fine gennaio si sapeva che non si sarebbe potuto giocare in Cina. Poi hanno iniziato ad essere cancellati o rinviati tutti gli altri tornei. Giocando in Paesi diversi e cambiandoli ogni settimana diventa poi difficile poter organizzare eventi simili. Bisogna aspettare che i Paesi riaprano le frontiere per poi potersi muovere, perché per adesso ci sono quarantene obbligatorie per chi viaggia, perciò diventa impossibile”.

Tu hai scelto poi di fermarti negli Stati Uniti.

“Sì, anche perché vivo qui da cinque anni, quindi sono tornato a casa quando era già previsto che lo facessi dopo il Qatar Open. Avrei giocato forse una gara o due qui, ci ho provato a livello locale, ma sul Korn Ferry, però alla fine hanno cancellato tutto. E qui i campi da golf sono aperti solo per i soci, quindi io, non essendolo, ma avendo diritto a giocare, non posso accedere”.

Soci che possono farlo, ma con tutte le restrizioni del caso.

“Qui le club house sono chiuse, alcuni campi vietano le golf car, altri un solo giocatore per golf car, buche in cui la palla non va giù, campi dove lasciano le buche alzate quindi la palla non va in buca, i rastrelli non ci sono. Non ci sono palle nel campo pratica, tutto per evitare il più possibile contatti. La verità è che questi campi privati non hanno tanti soci, quindi non creano un flusso di persone elevato rispetto ai campi pubblici, che sono chiusi proprio perché in questo periodo dove la gente o lavora meno o ha più tempo libero, i bambini sono senza le scuole, probabilmente verrebbero anche molte più persone. I campi pubblici sono tali per evitare che ci sia tanta gente, poi dipende da Stato a Stato. La Florida è ad esempio meno restrittiva rispetto al Texas, poi varia tutto. Adesso Trump ha rilasciato delle linee guida un po’ più rilassate per cercare di riaprire il tutto, poi alla fine l’ultima parola però rimane al Governatore di ogni Stato”.

Tu peraltro hai vissuto ancora prima del coronavirus delle situazioni particolari, perché anche l’Hong Kong Open fu rinviato, ma per le proteste durate per settimane.

“Quello è stato un caso completamente diverso. Io ci sono poi andato a giocare a gennaio, quando è stato rinviato (e rimosso dal calendario dell’European Tour, ma lasciato in quello dell’Asian, ndr). È andato tutto bene, alla fine. Le tensioni si erano un po’ alzate nelle settimane precedenti, e quindi diventava non una bella immagine per il tour avere una gara in un momento così difficile per Hong Kong. Verso gennaio si era un po’ calmata la situazione, poi a metà gennaio sono ricominciati i problemi. Adesso con questo virus purtroppo si parla di tutt’altro. Noi alla fine sappiamo che giochiamo in tanti Paesi, non è che andiamo a guardarne le politiche estere. Cerchiamo di pensare allo sport in generale, non alla politica“.

Hai avuto un inizio di anno con cinque tagli non superati, un 30° e un 73° posto. Perché è stato così complesso il via del 2020?

“Anche l’anno scorso, in fin dei conti, avevo giocato bene da metà anno per molti mesi, poi nel finale stavo perdendo un filo di forma e poi nello stop invernale ho cercato di lavorare su alcune cose. In generale, non so perché, faccio sempre fatica a giocare i primi tornei a inizio anno. Non ho mai cominciato l’anno in maniera eccellente, quindi i risultati a inizio anno sono sempre un po’ quelli che sono. Non so se sia perché faccio fatica a riprendere dopo una pausa, o perché quei tipi di campo non mi si addicono più di tanto. Quando inizia un nuovo anno spesso si cerca di cambiare dei materiali, anche perché spinti dalle case costruttrici, si cerca di testare. Ci sono tante variabili per le quali tendenzialmente faccio un po’ di fatica ad assecondare”.

A proposito della bella seconda metà di 2019, l’anno scorso avevi vinto il BMW International Open, che è stato cancellato.

“Purtroppo la questione è che il PGA Tour è uscito con un calendario che prevede la ripartenza a metà giugno, però la fortuna del PGA Tour è che si gioca in un solo Paese, negli Stati uniti. Adesso stanno spingendo per questi eventi sportivi, che se riescono a far ripartire in maniera sicura, ma sono cose che stanno anche cercando di spingere a livello politico. In Europa la situazione è un po’ più critica, si parla di Paese in Paese, il tour europeo deve negoziare con ognuno di essi. Se si decide che in Italia tra due mesi possiamo riaprire le frontiere, avere alcuni eventi a porte chiuse, la differenza è che poi si va in Francia o in Germania e dicono di no. Finché tutti non si mettono d’accordo a livello globale, o perlomeno europeo, per muoversi, o comunque avere dei tipi di test rapidi e quasi sicuri, non si possono organizzare questi grandi eventi. Per adesso dobbiamo aspettare e vedere quando si riprende. Non è un fatto di se, ma di quando: bisogna aspettare, mantenersi in forma. Poi alla fine si parla di sicurezza in generale per tutto il pubblico e l’organizzazione. Non vale la pena mettere tutto a rischio per spingere e iniziare troppo presto”.

Stiamo anche parlando di una stagione in cui le Olimpiadi sono state rinviate, l’Open Championship è stato cancellato, gli altri tre Major sono stati rinviati. Una situazione che nessuno di voi ha mai vissuto. Sarà sicuramente molto particolare ricominciare sapendo che ci sono queste situazioni totalmente diverse dal normale.

“Esattamente. Ci sono tutti gli sport che hanno risentito molto, come il business, di questa crisi. Sarà una stagione da ricordare per tanti anni, speriamo però di mettercela alle spalle e riprendere non dico una vita normale, perché ci vorrà molto tempo, ma almeno a giocare certi sport, quelli all’aria aperta. Staremo a vedere”.

Secondo te quanto è realmente concreto il pericolo di rinvio della Ryder Cup?

Si parla di un evento che sarà tra sei mesi, credo che sia molto tempo. Se guardiamo alla Cina, che in due mesi è riuscita a riaprire piano piano, penso e spero che si giocherà. La questione è anche dei criteri di qualificazione, perché se non si giocheranno molte gare, tutti i criteri arrivano fino a fine febbraio e da lì in poi non si giocherà più fino a tra alcuni mesi. Diventa anche difficile. Ovviamente i più forti si sono qualificati, ma stando così le cose ce ne sono altri per cui sarebbe la prima Ryder Cup, e comunque hanno giocato solo nemmeno metà dei tornei rispetto a una qualificazione normale. Quindi, probabilmente penso si giocherà, però il pubblico non sono così convinto che sarà autorizzato a esserci”.

E in quel caso potrebbe essere una Ryder strana, difficile, incomprensibile: senza pubblico è anche difficile da immaginare.

“Comunque si parla di tante persone in generale, perché non è solo il pubblico, ma anche organizzazione, giocatori, caddie, capitani, vicecapitani. Certo, il pubblico la rende l’evento speciale che è, quindi sarebbe diversa, però siamo anche in un mondo diverso in questo momento. Penso che anche al pubblico in generale farebbe piacere seguirla, se si potesse fare in maniera sicura. Un evento così grosso, farlo in maniera sicura per giocatori e organizzazione, senza pubblico sarebbe diverso, ma tutti quelli che sono a casa la guarderebbero volentieri”.

Cosa ti ha spinto ad andare negli Stati Uniti e perché proprio Texas A&M?

“Ho fatto la scuola francese, dalle elementari al liceo, quindi trovandomi un anno avanti anche rispetto alla scuola francese ho finito a 17 anni. Non mi sentivo pronto per il professionismo, e già da qualche anno insieme a mio padre e mia madre parlavamo della possibilità di andare in America. Rimanere in Italia diventava difficile, le possibilità di gioco erano inferiori anche se la strada che hanno fatto i fratelli Molinari mi è sempre piaciuta, e li ammiro molto per essere rimasti in Italia, perché è molto più complesso. Per me andare negli States rendeva le cose un po’ più semplici in termini di far combaciare studio e attività sportive. Diventava la soluzione ideale. A me gli USA sono sempre piaciuti. È arrivata una borsa di studio per Texas A&M e sono andato lì. Mi son detto che ero giovane, di andare lì e vedere come andava. Mi sono trovato bene, e finita l’università non sono riuscito a guadagnarmi una categoria in America, quindi sono andato in Europa e ho iniziato la mia carriera dal Challenge Tour”.

Nella prima stagione sul tour europeo, nel 2012, non riuscisti a ingranare particolarmente. Cosa successe?

Voltandomi indietro, nel 2012 penso di aver guardato un po’ troppo intorno. Non mi sentivo troppo a mio agio, cercavo di spingere un po’ il mio gioco invece di giocare con quello che avevo di settimana in settimana. Nel bene e nel male, alla fine, è stato un miglioramento graduale, ma non è stato l’inizio carriera che speravo. Pian piano ho capito quello che dovevo fare, come e su cosa”.

Poi nel 2014 ti sei ripreso l’European Tour e hai disputato il tuo primo Major, lo US Open.

“Anche quello però è stato un anno difficile, perché venivo da un’ottima stagione sul Challenge Tour, con risultati e gioco che avevo ripreso, e poi l’inizio di 2014 è stato complicato, perché mi sono un pochino perso a livello di gioco, di swing, e poi è stato tutto un recupero fino alla fine di tenere la carta e ci sono andato molto vicino. Mi sono qualificato per lo US Open, ed è stata una bellissima esperienza. Verso fine anno sono quasi riuscito a tenere la carta, poi alla Qualifying School sono riuscito a riprenderla. L’anno successivo pensavo di giocare un po’ di gare, purtroppo giocandone di meno sono partito di nuovo male e non sono poi riuscito a recuperare. Quindi sono tornato sul Challenge Tour. Stranamente nel 2016 avevo iniziato l’anno bene e a fine anno è stato un po’ il contrario. Quel finale di anno difficile me lo sono poi portato dietro nell’inizio di 2017. La mia carriera è un po’ altalenante, fatta di alti e bassi, che è un po’ come il golf: si impara da tutti questi alti e bassi e si cerca di non scavarsi una fossa quando le cose non vanno bene e capire che quando tutto fila liscio c’è da cavalcare l’onda il più possibile”.

Dopo tutti questi saliscendi sono arrivate le soddisfazioni e un po’ di stabilità. Nel 2018 per te dev’essere stata una bella sensazione battere Padraig Harrington, un uomo da tre Major sulle spalle.

“Arrivavo in Repubblica Ceca con una buona forma, riposato dopo tre o quattro settimane di riposo, quindi ero abbastanza carico a livello di gioco. C’erano poche cose su cui dovevo lavorare tecnicamente, era abbastanza chiaro quello che dovevo fare. Non c’erano dubbi su se sbagliavo un colpo. L’ultimo giro me lo ricordo come una settimana lunga, ma alla fine piena di soddisfazioni. Non ero mai stato in quella posizione nell’ultimo giro sul tour europeo. In altre situazioni sì, sapevo come reagire, ma ovviamente era tutto un po’ diverso. Sono stato bravo a gestire le emozioni e poi sono riuscito a rimanere vicino a Harrington quando le prime nove non erano andate come speravo, perché ero indietro di tre colpi, giocando benino ma non imbucando molto. Lui pensava quasi di averla in tasca quella vittoria, poi probabilmente ripensando a quelle seconde nove sono riuscito a rimanere aggressivo e concentrato, con il solo obiettivo in testa di recuperare e non dargliela vinta. Mi ha aperto un po’ una porta alla 15, quando ha fatto bogey, lì ci siamo trovati pari e alla fine alle ultime mi sono sentito lanciato, mentre lui si trovava in una situazione che era passata dall’essere sotto controllo a quella in cui doveva fare qualcosa. Io però ero in un momento di lancio e sono riuscito a fare due birdie, peraltro in due buche difficili. Forse sono state le mie migliori nove buche in carriera in una situazione simile“.

Un anno dopo è arrivato anche l’altro successo al BMW International Open al playoff con Fitzpatrick.

“L’anno scorso è stato un anno con un inizio strano, con pochi risultati, con un po’ di incertezze sul gioco sempre un po’ altalenante. Però arrivavo da un paio di buoni fine settimana, dove facevo fatica a partire nel primo giro e mi trovavo sempre un po’ indietro, poi facevo dei risultati decenti, ma è chiaro che se nel primo giro chiudi in una posizione fuori dal taglio diventa anche più difficile, è quasi tutta una gara al recupero. Lì in Germania sono partito forte nel primo giro, ritrovandomi subito già lì. Poi non avevo avuto un secondo giro fantastico, il terzo fu buono, ma non eccellente, ed ero intorno alla decima posizione. Mi ricordo che non pensavo alla vittoria, ma a pensare di fare la miglior gara possibile. Per me l’obiettivo era avere una buona settimana, riprendere il ritmo, avendo poi quattro settimane grosse davanti. Era importante arrivare lì in forma e giocare nel miglior modo possibile. Poi sono partito forte nelle prime nove, i primi non avevano iniziato molto bene, quindi mi sono ritrovato lì a ridosso e sono riuscito poi a fare una spinta nel finale per un playoff che poi è arrivato. Poi nel playoff ci vuole anche un pizzico di fortuna, e sono riuscito a battere Fitzpatrick, che generalmente in queste situazioni è sempre stato molto difficile da battere. Sicuramente due vittorie molto diverse, però molto importanti per la mia carriera, per come hanno cambiato il mio 2019: mi ha permesso di giocare l’Open Championship, un torneo in America, poi sono riuscito di nuovo a qualificarmi per il WGC in Cina, e in generale a giocare grandi eventi con i migliori giocatori al mondo. Fa sempre piacere arrivare lì, giocare il più possibile in quegli eventi, ti mette a tuo agio in futuro e fai più esperienza possibile”.

Fitzpatrick che aveva in effetti vinto i due playoff precedenti, sempre all’Omega European Masters. Tu sei stato il primo a batterlo.

“Tendenzialmente non penso che molti mi dessero come favorito”.

Al di là del risultato, che emozione è stata giocare l’Open Championship al Royal Portrush?

“Ci avevo già giocato un torneo da amateur, poi hanno cambiato leggermente il campo, però non ci sono gare simili ai Major, soprattutto per noi che giochiamo sul tour europeo. Sì, alcune volte ci sono premi molto grandi, ma questi sono organizzati in maniera diversa, eccezionali. L’Open poi è diverso, è tutto più grande. Avrei potuto anche ottenere un buon risultato, perché in fin dei conti non avevo nemmeno giocato male dal tee, che era un po’ il mio tallone d’Achille. Sono arrivato però lì con un putt che non ha funzionato per niente, quindi è stato difficile darmi molte chance per il birdie e limitare gli errori. Quindi è diventato un po’ difficile sotto quel punto di vista. Per come poi ho reagito dopo quel taglio mancato ho avuto un’ottima stagione da lì in poi, senza piazzamenti altissimi, ma sempre solidi, con molti tagli passati. Il golf è così, un po’ altalenante. Il 2020 è iniziato con il piede sbagliato, ma prendo anche questa pausa come un bene per vedere come evolve in generale la carriera di un golfista, o la mia”.

Anche se poi nel 2019 sei arrivato svariate volte nei primi 16.

“Però non sono mai riuscito a lottare veramente per il titolo o ad avere una chance nelle ultime buche. La fine dell’estate e l’autunno sono stati ottimi anche a livello di gioco, non solo come risultati. Purtroppo manca ancora quel pezzo del puzzle, cercare di mantenere quella forma il più possibile e non avere questi cali di risultati che poi a inizio anno o dopo dei momenti di forma negativi. Manca ancora quel pezzo sul quale stiamo lavorando con il mio coach per cercare di rimanere più in alto possibile e scalare il ranking mondiale”.

Avevi parlato dell’esperienza in America. Quanto è grande la differenza tra PGA Tour ed European Tour, non soltanto a livello di field?

“Non ho giocato così tanti tornei, però vedo tanti giocatori anche qui. La differenza è probabilmente legata ai numeri: sono più alti, la base è un po’ più grande e la differenza tra il 50° e il 125° della FedEx Cup non è così diversa da quella tra il 50° e il 125° della Race to Dubai. Però in generale è un livello molto vicino. Si parla di poco. Se uno gioca bene su un circuito è probabile che possa giocar bene anche su un altro, soprattutto se riesce a vivere determinati tornei. Le gare sul PGA Tour sono un po’ più grandi, c’è un po’ più un evento grande, con pubblico, quindi un giocatore dev’essere bravo ad assecondare tutte le distrazioni che ci possono essere in eventi più grandi rispetto ad eventi più piccoli dell’European Tour. Alla fine è quella la vera differenza, perché quando uno sta giocando il gioco è quello, quando uno gioca per vincere, che sia una gara da un milione o sette è quasi superflua la differenza. È più quello che uno ricrea nella propria mente”.

Quali sono i tuoi obiettivi futuri appena si uscirà da questa situazione?

Intanto di riprendere a giocare, poi cercare di non perdere troppo le sensazioni del gioco e rimanere fisicamente attivo. Ne approfitto, sto molto tempo con la famiglia, sono fortunato di avere la casa abbastanza grande con un bel giardino, quindi ne approfittiamo e stiamo molto all’aria aperta. Poi ora qui arriva l’estate. Di cose fuori dal golf ne trovo tante, in generale a me piace stare a casa quando non sono alle gare, quindi non mi trovo a disagio in questa quarantena. Però si parla di tanto tempo, l’unica cosa che posso fare è cercare di arrivare il più preparato possibile per quando si riprenderà. Forse per fortuna qui i campi da golf vengono riaperti un po’ prima rispetto all’Europa, quindi potrebbe essere un piccolo vantaggio. Staremo a vedere”.

Cosa pensi di voler mettere più a punto a livello di difetti da sistemare nel tuo gioco?

“Il tallone d’Achille per me è il drive, i colpi da tee. Voglio migliorare la tecnica, trovare più ripetitività da quel punto di vista e più tranquillità in certi colpi. Per il resto, non penso di avere grandi cose su cui lavorare più ormai. Vorrei migliorare piano piano piccole cose, piccole percentuali sul putt, sul gioco corto e sui ferri, ma si parla di cose minime. Tolto quello cerco di migliorare un po’ la tecnica sul gioco lungo e, per il resto, poco”.

Quali sono le persone che sono state per te più significative sia nell’avvicinamento al golf che nella tua carriera in generale?

I miei genitori, che mi hanno portato al golf da piccolo. Mio padre è sempre stato un appassionato di golf, mi ha sempre assecondato in qualsiasi cosa che volessi fare. Il mio primo maestro, Filippo Del Piano, che lo è stato fino a circa cinque anni fa, con cui ho ottenuto tantissimi successi e mi ha insegnato molto soprattutto a livello di tecnica, dandomi un’ottima base. Poi questo nuovo coach, Corey Lundberg, che ho da fine 2016, quindi tre anni e mezzo, mi ha aiutato a capire mettere un po’ tutti i pezzi insieme e a capire un po’ come performare al mio meglio, a non parlare solo di tecnica, swing. Nel golf ci sono tantissime variabili, mi ha aiutato a livello mentale su come prepararmi, allenarmi, spingermi in piccoli miglioramenti, non solo in cose grosse. Penso a come mi ha spinto a cambiare un po’ il mio approccio alle gare, a come mi alleno dal lunedì al mercoledì, a cercare di arrivare il più possibile preparato sotto tutti gli aspetti. Un coach un po’ più completo”.

Quali sono i giocatori che ti hanno impressionato di più tra quelli che hai potuto vedere con i tuoi occhi?

“Con Jon Rahm ho giocato una prova campo all’Open Championship l’anno scorso. Ha una semplicità nel suo swing, nel suo gioco, una fluidità, una qualità del colpo eccezionali. Mi ha sempre affascinato la semplicità con cui riesce a giocare Francesco Molinari sin da quando sono passato professionista, da quando giocavamo le prove campo nel 2012, 2014, quando ancora giocava principalmente in Europa. Ho fatto un giro assieme a Phil Mickelson, e mi ha impressionato molto la facilità con cui riesce a fare score, non tirando la palla proprio in maniera normale. È un giocatore quasi opposto rispetto a Francesco. Sono questi i giocatori che mi hanno impressionato di più”.

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federico.rossini@oasport.it

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Foto: LaPresse

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