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Beatrice Del Pero, basket femminile: “NCAA? Ci sono stata vicina. A Torino fermate a mezz’ora da Lucca. Europei Under 20, volevamo finire bene per noi”

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Uno dei volti nuovi di quest’anno all’Iren Fixi Torino è quello di Beatrice Del Pero. Classe ’99, cresciuta prima alla Pool Comense e poi a Costa Masnaga, ha saputo imporsi come giocatrice di grande interesse nelle annate passate, tanto da meritarsi sempre la convocazione nelle Nazionali giovanili, con cui ha effettuato tutto il percorso che ha poi portato alla vittoria degli Europei Under 20 della scorsa estate. L’abbiamo raggiunta per un’intervista nella quale ha raccontato le proprie sensazioni, la propria carriera, le prospettive future e un’America a un certo punto molto vicina.

Come ti sei trovata in questa tua prima stagione a Torino e quanto è stata difficile terminarla in questo modo?

“A Torino mi sono trovata molto bene. Era il secondo anno di A1 e l’ho scelta perché sapevo che era una società dove avrei avuto spazio. Purtroppo abbiamo avuto un anno un po’ sfortunato, con i problemi con le giocatrici straniere: una è rimasta incinta, l’altra è andata verso metà campionato, quindi ne abbiamo dovute prendere due nuove. C’è stato questo problema: quando costruisci una squadra lavori tutta la prestagione per darle un’identità, mentre noi abbiamo dovuto continuamente adattarci a questi cambiamenti modificando anche proprio questa identità, quindi da questo punto di vista siamo state un po’ sfortunate. Poi ci sono stati vari infortuni, io ne ho avuto uno alla schiena e uno alla caviglia, quindi non ho trovato continuità nella stagione, ma mi sono trovata benissimo a livello di società, organizzativo e di entusiasmo. Per quel che riguarda la fine, fa male. Venivamo da una bella vittoria in casa contro Broni. Dovevamo andare a Lucca, ed eravamo in pullman, a mezz’ora dal PalaTagliate, quando ci hanno detto dello stop. Da lì è iniziato l’incubo che sta continuando e stoppando tutto. Fa male perché, al di là di come sarebbe andata la stagione, anche se io sono sicurissima che avremmo concluso al meglio in campionato, lasci qualcosa di incompiuto su cui hai lavorato sei mesi”.

Peraltro un tipo di interruzione quasi disorganizzata: voi siete state fermate sulla via di Lucca, ma ci sono state anche le squadre che dovevano giocare in Sicilia che sono rimaste incerte fino all’ultimo.

“Purtroppo c’è stata un po’ di confusione: al Sud all’inizio questa cosa era sottovalutata. C’era Costa Masnaga che andava a giocare in Sicilia, e poteva, ma se Ragusa avesse dovuto giocare a Costa Masnaga poi le ragazze avrebbero dovuto fare la quarantena. Era tutto un po’ confuso, fin quando la situazione, come purtroppo si vede adesso al di là dello sport, è peggiorata in Italia e tutto il mondo, e ha portato a questa decisione”.

Tu come l’hai vissuta?

“Io ci ho sperato fino alla fine. Sono rimasta a Torino fino al 18 marzo, nonostante gli allenamenti fossero fermi dal 6 o 7. Io sono rimasta a disposizione con alcune compagne, sperando, perché continuavano a parlare di riunioni ai primi di aprile, ci dicevano di restare disponibili. I contratti non erano ancora stati tagliati e questo faceva ben sperare, poi è arrivata la decisione della Lega che ha sospeso tutto. Ci speravamo tutte fino all’ultimo, poi ci sono cose più importanti nella vita“.

La situazione non permetteva la ripresa, e sempre più voci si levavano a favore dell’interruzione con il tempo.

“Credo che il basket abbia preso una decisione più matura, per esempio, del calcio. Anche se bisogna dire che lì c’è il discorso del professionismo, con stipendi diversi, ma stanno spingendo per ricominciare e progettano di ripartire il 31 maggio. Secondo me è anche rischioso: è meglio chiudere tutto con la speranza di poter ricominciare a settembre, non dico come niente fosse, visto che stanno girando voci di porte chiuse fino al 2021, però almeno ripartire con qualcosa di simile alla normalità”.

Il discorso delle porte chiuse diventa però un problema quando si va a guardare come si organizzano le società, per tanti problemi, non ultimi quelli legati al pubblico.

“È una situazione con mille problemi. Per esempio si vuole ricominciare a porte chiuse, ma diventa un controsenso perché ci sono delle ragazze in campo e questo è uno sport di contatto. A quel punto perché non far entrare le persone, magari con mascherina? Sono delle cose cui la Federazione dovrà pensare, perché lo sport e la vita si sono fermati ed è giusto così, ma andando avanti col tempo lo sport non si potrà fermare, quindi una soluzione andrà trovata”.

Che tipo di rapporto si era creato con il gruppo al di là delle questioni Jennings e Kinard?

“Io ho trovato delle ragazze molto disponibili. Il fatto di cambiare di continuo squadra e schemi ha pesato soprattutto in allenamento, c’è stato un periodo in cui ci guardavamo ed era come se ogni giorno ce ne fosse una nuova o diversa. Quel gruppetto con Melisa Brcaninovic, Aleksandra Petrova, Giulia Togliani, Ilaria Milazzo, Beatrice Barberis, Clara Salvini e io si è unito moltissimo. Ci parlavamo anche fuori dagli allenamenti per parlare di questa situazione, di cosa fare per rendere di più in campo, adattarsi ai ruoli. Eravamo veramente unite, e nell’ultimo periodo uno poteva mollare e dire ‘ok, non ce la facciamo più’, e invece dopo la vittoria di Broni ho capito che insieme riuscivamo a fare bene nonostante le mille difficoltà. Ho trovato delle persone super, era una squadra molto giovane e ci siamo trovate veramente bene”.

Senza sottovalutare il problema sotto canestro, perché dopo Jennings (e prima di Walker) era arrivata Stejskalova che comunque non era un centro.

“Siamo state veramente brave. Tanta gente non capisce quello che c’è stato dietro, perché siamo partite a inizio anno per avere un centro, avere Brcaninovic come 4 che poteva fungere anche da 3, e siamo arrivate a metà anno con lei da 5, Barberis che era partita da 2 che giocava anche da 4. Tanti non capiscono tutto il lavoro che c’è stato dietro per cercare di ridare sempre nuova identità a questa squadra. Siamo sempre riuscite a uscire bene dai problemi, senza far vedere che eravate troppo in difficoltà”.

Non si pensa, per esempio, che se una giocatrice parte per giocare da guardia e poi si ritrova a essere ala grande cambiano tante cose.

“È del tutto diverso. Un conto è giocare guardia-ala piccola, che sono due ruoli che si alternano tranquillamente, in fondo è sempre giocare da esterni. Passare dal gioco esterno fatto di penetrazioni e pick&roll, all’ala grande dove porti i blocchi e giochi spalle a canestro, cambiano le cose. C’è gente che lavora anni per costruire l’identità di una giocatrice, e quest’anno ognuna di noi ha dovuto un po’ mischiare le carte e tirare fuori qualcosa che aveva dentro“.

O che nemmeno sapeva di avere.

“Anche. Per esempio Barberis si è reinventata molto bene da 4. Sono cose quasi assurde ma che fanno piacere”.

Tu cestisticamente sei figlia di Costa Masnaga.

“Io sono nata a Cantù, che è conosciutissima per la squadra maschile, ma la femminile non l’hanno creata, quindi ho avuto l’opportunità data dal presidente di Costa Masnaga di andare lì. Ho fatto tutte le giovanili, poi a 16-17 anni sono stata aggregata alla prima squadra, erano gli anni in cui ancora c’era la Serie A3, fino all’A2. Quello è stato il mio trampolino di lancio: nell’ultima annata in A2 (2017-2018, N.d.R.) avevo fatto un bellissimo campionato. Abbiamo perso contro Alpo per accedere alla finale playoff all’ultimo secondo, una cosa che mi ricorderò per tutta la vita. Sono cresciuta lì, è un po’ la mia famiglia cestistica, e anche averci giocato contro quest’anno, esser rientrata in quel palazzetto lì mi ha fatto un po’ senso”.

A Cantù non c’era la femminile, ma a Como, nella cui provincia Cantù si trova, c’era la Pool Comense.

“Io ho fatto un anno alla Comense, nella stagione 2011-2012, poi ci dovevo rimanere anche l’anno dopo, ma la Comense è fallita, quindi ho dovuto trovare altro. Era una bellissima realtà, parliamo di una società che è stata tra le più importanti del basket italiano”.

Come mai hai deciso di trasferirti a Battipaglia?

“Mi sentivo pronta per fare questo salto, dall’A2 all’A1, e quindi volevo una squadra che mi desse l’opportunità di giocare tanto. Battipaglia già la conoscevo perché avevo disputato delle finali nazionali giovanili, quindi conoscevo già il presidente e parlando con il mio procuratore abbiamo deciso che forse era il momento, a 18 anni, quindi ho trovato l’opportunità. Mi è sembrata quella migliore, perché lì ti danno tantissimo spazio. Il primo anno di A1 mi sono trovata a stare in campo 30-35 minuti, che mai mi sarei aspettata di giocare. Ho deciso di andare lontano da casa, ma non sono mai stata una che si è fatta problemi per la distanza. Sono legata alla mia famiglia, ma so che loro ci sono e sanno che è il mio sogno vivere di questo e perciò non mi hanno mai frenata. Mi sono ritrovata a mille km da casa, ma giocavo e prendevo le prime responsabilità nel campionato che sognavo fin da piccolina”.

La stagione scorsa è stata anche un po’ particolare perché c’è stata prima la vicenda di Napoli e poi il blocco delle retrocessioni. Che sensazione è stata?

“Sembra brutto da dire, ma siamo state salvate dal fallimento di Napoli. L’anno scorso ci giocavamo la salvezza con Torino. Eravamo noi davanti, nel caso sarebbe stata Torino a retrocedere, ci eravamo salvate, ma era abbastanza strano. Sembra che ogni anno ce ne sia una: l’anno scorso la storia della Dike, che aveva una delle squadre più forti di tutto il campionato, quest’anno il problema del coronavirus. Sono stati anni un po’ particolari per il basket. Mi auguro che si possa sistemare tutto in futuro”.

Suona quasi curioso il particolare per il quale quest’anno ti sei trovata proprio nella squadra contro la quale l’anno scorso lottavi per retrocedere.

Diciamo che i primi anni in A1 ci tengo più a fare esperienza che a stare in una squadra di alto livello per poi non giocare. Mi sento più umile, accetto di giocare in una squadra che non è Schio, Venezia o Ragusa, ma dove posso stare in campo, sbagliare, avere le mie responsabilità, poi magari tra qualche anno arrivare a quei livelli. Adoro allenarmi, ma la partita è la partita, tutta un’altra cosa”.

Passiamo al percorso che hai fatto con le Nazionali giovanili. Una parabola che si è conclusa con il successo di quest’estate agli Europei Under 20.

“Quest’estate è successa una bella cosa, diciamo!” (ride)

Ed era cominciata in modo complicato, con le due sconfitte.

“Sì, era iniziata malissimo ed eravamo in crisi come squadra. Era il nostro ultimo anno, siamo state una squadra sempre ambiziosa perché aveva già vinto due medaglie, di cui una è stata la prima iridata femminile in tutta la storia del basket italiano con il secondo posto dell’Under 17 nel 2016. C’era tanta pressione e all’inizio secondo me l’abbiamo sentita parecchio, perché la partita contro la Francia si poteva perdere perché comunque è una squadra molto forte. Quella con i Paesi Bassi andava vinta, eravamo più forti. Dopo questi due KO di fila ci siamo riprese un po’ con la Germania, ma eravamo terze nel girone, ci vedevamo davanti Repubblica Ceca, Spagna, Francia e Russia. Noi eravamo nelle camere e ci siamo guardate e dette ‘che facciamo?’ a questo punto. Era qualcosa di impossibile per noi. Poi ci siamo guardate negli occhi, abbiamo capito, abbiamo parlato delle cose che secondo noi non andavamo, ma la cosa che ci ha spinto di più, e che è stata il simbolo di quel momento, e tante persone l’hanno descritta così, è stata la sensazione di essere all’ultimo ballo insieme. Arrivavano mille messaggi del tenore: ‘Cosa c’è che non va?’ ‘Dai!’ ‘Forza’. E noi abbiamo cercato di estraniarci da tutto e dire ‘siamo noi 12 dal 2015 ormai, quando siamo arrivate terze a Matosinhos (Europei Under 16, N.d.R.), è il nostro ultimo anno insieme perché poi non si sa come saranno i nostri percorsi, quindi vediamo di finire in bellezza, non per gli altri ma per noi’. Poi, strada facendo, abbiamo trovato nelle vittorie delle cariche, una forza che forse mai avevo provato con un gruppo. Io sono affezionata a ognuna di loro come se fosse mia sorella”.

Hai citato l’argento dell’Under 17 ai Mondiali in Spagna. Uno dei soli tre podi iridati azzurri nella storia, con gli altri conquistati dalle Nazionali maschili Under 19 nel 1991 e 2017.

“Io ora ricordo meglio la vittoria degli Europei, perché salire sul gradino più alto del podio è qualcosa di bellissimo. Puoi dire ‘sono Campione d’Europa’. Però a volte non ci si accorge del fatto che siamo arrivate seconde, in quel 2016, in tutto il mondo. Non è tanto il ‘seconde’, quanto che lo siamo state ‘in tutto il mondo’ che fa effetto. È una medaglia che secondo me rimarrà nella storia ancora di più di quella europea di quest’estate”.

Fra l’altro nel girone eravate riuscite a tenere testa agli Stati Uniti, in finale ci fu l’Australia che aveva giocatrici poi entrate nel giro maggiore.

“Quella partita con gli Stati Uniti la affrontammo dicendo, come di solito quando si gioca contro queste squadre, “non abbiamo nulla da perdere, ce la giochiamo, siamo arrivate fin qua fino al loro livello”. Giocarsela con gli Stati Uniti è stato forse anche più bello del fatto di battere la Cina. E in quella Cina giocava Han Xu, una 2.02 che poi è approdata in WNBA alle New York Liberty, e devo dire che l’ho vista nell’ultimo periodo al Preolimpico ed è migliorata davvero tantissimo. Aveva giocato contro delle giocatrici che ora sono già in Nazionale senior e fa un certo effetto”.

Si può dire che queste siano le tue più grandi soddisfazioni fino a questo momento.

“Sì, è corretto”.

Quali sono i tuoi obiettivi futuri?

“Intanto continuare a migliorare, arrivare ai livelli più alti possibili di A1. Poi tanta gente dice “America, America”. Sinceramente è un mondo che mi piace perché è di spettacolo e tante altre cose, e se dovesse arrivare sarei felicissima, ma ora sono molto più felice di arrivare a giocare nella Nazionale senior, con la scritta Italia davanti. Quello è uno dei miei desideri più grandi, giocare un Europeo in azzurro”.

E sei andata molto vicina ad entrare nel giro già nello scorso novembre.

“Sì, sono stata inserita nelle riserve. Quella è stata un’emozione grandissima perché a 20 anni mi rende felice essere a questi livelli, ma so che ho ancora tantissimo da lavorare, tanti margini di miglioramento, è quello che amo fare, quindi sono sicura che lavorerò anche i prossimi anni”.

Hai accennato al confronto tra Italia e Stati Uniti. Ci sono alcune giocatrici, come possono essere Elisa Penna, Francesca Pan e Lorela Cubaj, che hanno fatto la scelta di andare all’università invece di continuare nel nostro Paese, giocando e studiando insieme in un modello completamente diverso.

Anche io ho avuto la possibilità di andare ed ero molto vicina a scegliere, poi ho parlato con il mio agente e mi sono resa conto che secondo il mio parere è molto più utile restare in Italia a 19, 20, 21 anni in un campo di Serie A1 invece di andare lì. Però è una scelta di vita, perché negli States si va per giocare e per studiare. Si va lì per fare l’università, non per fare un campionato. Si studia e poi c’è anche il basket. Però se vai in alcuni college, come Georgia Tech di Lorela Cubaj e Francesca Pan, o Wake Forest dove giocava Elisa Penna, lì lavorano tanto sulle giocatrici e ne costruiscono di veramente buone. Guarda Penna dopo quattro anni di college come è tornata in A1″.

Quale università ti aveva cercato?

Ne avevo un po’ che mi cercavano. Mi voleva Toledo, dove giocava Mariella Santucci, e c’erano altre 6-7 possibilità perché avevo avuto una mano da una mia ex compagna di squadra che lavorava in un’agenzia che mi aveva aiutato. Lei mi ha detto ‘se tu vuoi andare ed è il tuo sogno, noi ti facciamo andare’, intendendo con questo la realizzazione di video appositi e tutte le cose che fanno loro. Alla fine ho preferito rimanere in Italia e sono contenta della scelta che ho fatto”.

Poi lì negli States c’è stato anche il caso di Antonia Peresson, che è andata dall’altra parte dell’Oceano per giocare, era a Georgia Tech con Pan e Cubaj, e poi è rimasta lì diventando assistente.

“Lei l’ho vista qualche volta sui campi quando giocava a Pordenone, non la conosco personalmente, però la sua storia è bellissima. Questo vuol dire quanto ti puoi affezionare alle persone e quanto ti puoi fidare tanto da voler rimanere lì per costruire il futuro”.

Quali sono gli allenatori più importanti e le giocatrici più forti contro cui hai giocato?

“Parlando di allenatori, parto da Costa Masnaga e dico Gabriele Pirola, che è stato il mio primo coach per tre-quattro anni, ha sempre creduto in me mettendomi in campo a 16-17 anni in A2 e dandomi tantissime responsabilità. Io negli ultimi tempi giocavo con Valentina Baldelli e Giulia Rulli, che poi con Costa sono anche andate in A1. Per quanto riguarda altri, ho un bellissimo rapporto con Sandro Orlando, con il quale ho vinto l’oro europeo, ma con cui in realtà sono stata due anni in azzurro, anche quando siamo arrivate quarte in Ungheria, e l’ho avuto anche a Battipaglia. Lo stimo tantissimo come allenatore, è una bellissima persona e ogni volta che lo incontro ci scambiamo battute perché c’è sempre stato questo bel rapporto scherzoso. Di lui ho tantissima stima sia come persona che come allenatore, è uno di quelli che mi ha fatto un po’ scattare qualcosa. Per le giocatrici, nel campionato italiano sarebbe abbastanza banale: una delle più forti che abbia mai visto, soprattutto per l’età che ha e per quanto ancora domina, è Chicca Macchi. Lei ha un’eleganza nel giocare tale che bisogna anche solo sperare di arrivare a questo livello. A livello europeo ho giocato contro una ragazza francese, Tima Pouye, che sta facendo un’annata molto bella. Direi tantissimi nomi, perché giochi contro Francia, Spagna ed è difficile che trovi delle ragazze scarse”.

Fra l’altro la scuola francese è anche molto valida.

“Sì, e come in Spagna il basket femminile è più coltivato rispetto all’Italia, quindi tirano fuori giocatrici niente male”.

Ed è anche professionistico.

“Infatti quello che auspichiamo è che questo possa succedere anche in Italia. Speriamo ci si possa lavorare negli anni”.

Ed appare ingiusto che ci siano quattro sport maschili considerati professionistici, mentre le donne sono fermate da una legge del 1981 solo recentemente oggetto di aggiornamento e che comunque ancora non è una via definitiva per il professionismo femminile.

“C’è bisogno secondo me di qualcuno che abbia un po’ di coraggio e dica che tra uomini e donne non c’è differenza. E sono fiduciosa, perché il basket femminile sta crescendo, stiamo facendo vedere che anche noi ci siamo e possiamo fare delle belle cose”.

E lo state facendo vedere nonostante magari i numeri non siano enormi, però il lavoro che viene fatto nel femminile è molto buono.

“Questo è vero soprattutto con le Nazionali, almeno parlando delle annate dal 1999 al 2002, che stanno portando a casa delle medaglie che la gente vede. Non sono dei pensieri, sono dei fatti. Portare a casa due ori consecutivi, parlando delle 2002, vuol dire che loro ci sono, che non è fortuna, che loro sono forti e che potrebbero essere il futuro del basket. Mi auguro che possiamo diventare anche noi atlete professionisti”.

A proposito delle 2002, vale la pena ricordare che gli Europei Under 18 li hanno vinti giocando in maggioranza un anno sotto al limite di età. E il gap tra i 17 anni e i 18, anche se a volte non ci si rende conto, c’è.

“Infatti spero, ma ne sono sicura che succederà, che la gente capisca che noi donne ci siamo e possiamo fare belle cose”.

Tu sei riuscita a concludere con l’oro la tua parabola delle giovanili, ma quest’anno tante altre non avranno l’opportunità di giocarle queste competizioni.

“Mi ricollego qui a questa cosa del virus, che purtroppo ha fermato tutto in Italia, in Europa e nel mondo. Fa male, è vero che per me quest’estate era la prima senza le Nazionali giovanili, ma mi suona comunque strano, figuriamoci per chi doveva fare l’ultimo anno. Di solito a maggio-giugno c’era la preparazione per andare al raduno, dire ‘non ci devo andare perché non si fa niente’ è strano. Però sono tutte cose che bisogna fare per ritornare alla normalità, perché in questo momento lo sport viene dopo, quindi è molto meglio cominciare a poter uscire di casa e tornare alla nostra vita normale”.

Si pone anche un problema di organizzazione da parte della FIBA, perché per esempio l’idea di far scalare un anno a tutte le generazioni per il 2021 si sarebbe scontrato con problemi di natura pratica.

“Sono situazioni complicate, non vorrei essere nei panni della FIBA. Si tratta di cose per cui devono prendere in considerazione mille aspetti. Ci vuole pazienza, ma ritorneremo presto a giocare”.

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Credit: Ciamillo

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