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Calcio, i tifosi non vogliono la ripresa del campionato? Il ‘Pallone’ deve fermarsi per non essere privilegiato

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Il calcio deve fermarsi, non ha senso giocare quando ci sono ancora tanti morti ogni giorno“: è questo il messaggio che arriva da alcuni membri del Governo (il ministro della Sanità Roberto Speranza), ma è anche questo il messaggio che arrivata dai tifosi, molto colpiti dalle notizie che arrivano sui contati e le vittime della pandemia.

Non ci può essere il “Pallone” senza il pubblico, non ci può essere il “Pallone” senza la passione. Che calcio sarebbe, con il rispetto di un protocollo e il pericolo di contagiarsi o di farsi male in un altro modo? Che calcio sarebbe con le conseguenze penali di una positività sulla società? Gli interrogativi sono un po’ questi e quel che emerge è il fatto che lo sport più diffuso al mondo e il principale in Italia abbia perso quella nomea di “invulnerabilità”.

Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio“, era una frase di Winston Churchill, a rappresentare quella capacità di attrazione nei confronti di quella palla che rotola su un rettangolo verde. Questa forza di attrazione, con l’emergenza sanitaria in corso, si è trasformata in forza di repulsione, anche per quello che il resto degli sport in Italia ha deciso: lo stop. I calciatori vengono visti come dei privilegiati viziati e il loro mondo incapace di capire quali siano le priorità. Priorità di quarantena, di rispetto per chi non c’è più e di chi è in lotta in una struttura ospedaliera per salvarsi o salvare la vita altrui, non avendo i tamponi che una squadra potrebbe permettersi.

Il presidente della Figc rivendica con forza gli interessi economici e sociali del “Pallone”. Solo la Serie A produce direttamente ogni anno circa 3 miliardi di euro di ricavi totali e genera un indotto di 8 miliardi a beneficio dell’intera piramide calcistica, oltre a una contribuzione fiscale e previdenziale di 1 miliardo di euro. Questi i numeri di cui usufruiscono tutti gli operatori che orbitano intorno a questa pratica, con una percentuale che non percepisce stipendi faraonici come spesso si pensa.

Le loro ragioni però ora contano meno agli occhi di chi iconizza questa pratica come quella del “poco di buono”. Il calcio, in questi giorni di lockdown, sembra aver perso la sua partita più importante, cioè quella dell’amore, trasformatosi un po’ in “odio”.

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giandomenico.tiseo@oasport.it

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Foto: LaPresse 

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