Basket
Germano D’Arcangeli, basket: “Giovani e professionismo, serve certezza di programmazione. Oltre a Visintin occhio a Fabrizio Pugliatti”
Da trent’anni, Stella Azzurra fa rima con un nome: quello di Germano D’Arcangeli. Tantissimi i volti, tantissime le storie che sono passate dalle sue mani, dal parquet dell’Arena Altero Felici, sulla Via Flaminia a Roma. Su una parete dell’impianto ci sono tante maglie di numerosi giocatori che hanno trascorso un periodo della loro parabola giovanile con la maglia nerostellata. In Serie A, quest’anno, sono passati diversi prodotti di questa società che ha oltre ottant’anni di storia e una semifinale di Coppa Korac negli annali: Giampaolo Ricci, Amar Alibegovic, Paul Eboua, Tommaso Guariglia, Stefan Nikolic. Dalla Stella è transitato anche Andrea Bargnani, che sarebbe poi diventato prima scelta assoluta al draft NBA 2006. Abbiamo parlato con D’Arcangeli di numerose questioni: l’esperienza della Serie B per i giovani, il problema dei settori giovanili e la necessità di costruire le storie intorno al basket.
Come nasce, si evolve e prosegue la storia di Germano D’Arcangeli alla Stella Azzurra?
“Lavoro qui da 31 anni. Ho cominciato come istruttore del minibasket, poi ho fatto l’allenatore, quindi sono diventato responsabile nel 1996 e da allora sono il tuttologo. Alleno, decido, cerco insieme agli altri di portare un marchio che ha una storia di ottant’anni abbondanti. Anche perché sono un ex alunno del Collegio San Giuseppe, scuola dove la Stella Azzurra è nata”.
La cosa interessante della Stella Azzurra, che per certi versi ricorda i college negli Stati Uniti, è la foresteria per far crescere e vivere insieme i giocatori.
“Abbiamo scelto l’idea di un’Academy di grande importanza per una crescita a tutto tondo del giocatore, che prevede quindi anche la parte accademica, lo studio, l’ospitalità, l’alloggio, la cura del giocatore come un vero e proprio cliente a 360 gradi”.
La Stella Azzurra negli ultimi 10 anni ha spesso cercato degli sbocchi per far giocare i suoi ragazzi in A2, cosa che si è poi realizzata con Roseto nelle ultime due stagioni.
“Il nostro obiettivo è quello di cercare dei contenitori. La Stella Azzurra stessa, come contenitore, fa il campionato di Serie B e i giovanili dove i ragazzi, alla fine, ottengono settimanalmente, mensilmente, annualmente quelli che sono gli obiettivi a medio-lungo termine. Senza certi campionati noi non possiamo completarne la formazione. Alcuni sono troppo più forti dei campionati che abbiamo noi a disposizione, quindi, come nel caso di Matteo Spagnolo, dobbiamo condividere con qualcun altro un pezzo di strada”.
Spagnolo che ha debuttato in B a 14 anni e già aveva la personalità per prendersi determinati tiri, decidere le partite. E la B è un campionato complesso.
“Noi a un certo punto non potevamo più regalargli niente”.
E infatti ha debuttato in Nazionale, è andato al Real Madrid e ha anche giocato qualche secondo in Liga ACB.
“Credo che lui sia destinato a un luminoso futuro”.
Matteo Visintin diceva una cosa particolarmente interessante: gli altri giocatori della B con la Stella si ritrovano per certi versi spiazzati. Pensano magari di poter battere quelli che a loro sembrano ragazzini con facilità, e invece no, perché loro sono forti, uniti e con tanta voglia di emergere.
“Altrimenti non potrebbero competere con gente che fa questo per professione, che è più smaliziata, esperta. Ed è anche il motivo per cui li facciamo giocare in questi campionati: sono dei test che li aiutano progressivamente ad arrivare a formarsi come giovani uomini e come giocatori di basket di un certo livello”.
Matteo Spagnolo non è l’unico talento formato alla Stella Azzurra, ma in questo non serve neppure arrivare al picco di Bargnani perché non c’è solo lui di arrivato in alto.
“Nel nostro caso no. Abbiamo avuto il piacere di avere tanti giocatori, gli esempi più recenti sono Giampaolo Ricci e Amar Alibegovic, gente che ha giocato o sta cominciando a giocare ad altissimi livelli. Di ragazzi ne sono passati tanti, e si è sviluppato un legame profondo con tutti. È un torto nominarne solo uno”.
Ogni tanto si realizzano delle belle annate, come quella 2017-2018 con lo stesso Spagnolo, Abramo Canka, Lorenzo Donadio, Denis Alibegovic (fratello di Amar, oggi al Bayern Monaco, N.d.R.). Tanti che poi stanno facendo bei percorsi.
“Come quelle che arriveranno, vedi la 2004 non solo di Matteo Visintin, ma anche di Fabrizio Pugliatti, Alessandro Scarponi, Emmanuel Innocenti. Ci sono una serie di giocatori del 2004 dei quali credo che gli appassionati di basket sentiranno parlare molto presto. Fabrizio Pugliatti è un fenomeno”.
Negli ultimi tempi è stata costruita anche la sezione femminile, di cui Roma ha in qualche modo bisogno, perché ci sono tante realtà femminili nella Capitale e per la situazione particolare del settore.
“La mia idea di approccio al lavoro l’abbiamo cominciata ad attuare, a trasmettere anche sul livello femminile e ci piacerebbe ottenere gli stessi risultati del maschile. È un po’ più complicato perché le ragazze sono un po’ più difficili da convincere a fare un certo tipo di lavoro, però l’obiettivo è quello: ottenere gli stessi risultati a Roma e in Italia che abbiamo ottenuto con i maschi”.
Quali sono i passi da fare in Italia per migliorare il passaggio dal settore giovanile a quello professionistico?
“La questione è veramente complicata. Una risposta ha diverse sfaccettature e avrebbe bisogno di ore di conversazione. Una ricetta applicata la quale si ottiene questo genere di risultato secondo me non esiste. Bisognerebbe adottare tante cose insieme, una sorta di piano Marshall, un New Deal del basket, soprattutto dei giovani. Bisognerebbe semplificare un po’ le regole, perché forse adesso ce ne sono troppe. Bisognerebbe trovare il modo di avere una certezza di programmazione nel tempo che consenta un po’ più di fantasia, di sperimentazione a chi lavora dentro al basket, per cui la grammatica della fantasia si sviluppa soltanto se ci sono dei confini certi entro i quali muoversi, e non un tavolo da gioco che cambia sempre. Nel momento in cui cominci a studiare le regole del burraco e tutto si trasforma in scopone scientifico quasi ti passa la voglia. Poi ci dovrebbe essere una professionalità espressa con figure che vengono anche tutelate giuslavoristicamente, perché oggi è tutto un po’ affidato all’entusiasmo e all’eroismo di certe persone, ma per ottenere dei risultati serve una filiera, anche la più corta possibile,che abbia concetti aziendali, bisogna che le persone che ci lavorano dentro vengono trattate come se effettivamente svolgessero, perché poi lo è, un lavoro delicato e quindi retribuite, protette, tranquillizzate da cose che, comunque, nel basket non ci sono. Ci vorrebbe un piano di comunicazione, fare storytelling sul basket che non diventi legato a un fatto di cronaca, ma far sì che la cronaca diventi costume, che ci siano delle storie da raccontare, a cui la gente possa appassionarsi, che possa seguire, che possa far capire che dietro a un giocatore, una giocata, un club, c’è sempre una storia, che sempre di meno raccontiamo e sempre di meno interessa. Si parla solamente di una partita, di diritti televisivi, ma quella è la storia agonistica del basket. Ci sono tante altre cose che si possono dire, vendere per arrivare a ottenere proselitismo, entusiasmo rispetto a questa cosa. Poi bisogna trovare un giusto equilibrio tra entità che il campanile, la città, il club più di altre parti del mondo in Italia rappresenta, per cui il basket a Bologna è un basket che si racconta meglio di quello che si può raccontare a Roma, perché ci sono Fortitudo e Virtus, perché c’è un’identità, una lotta di affermazione che spesso diventa una prigione e come dicono quelli saggi la coniugazione nasce con la libertà di poter sperimentare, arrivare ad avere seconde squadre, idee di gioco che possano essere anche legate più all’entertainment che allo sport. Potremmo parlare per ore per provare a individuare una cosa fatta la quale vinceremmo”.
Ci sono due problemi particolari spesso indicati: la preferenza dell’americano a basso costo rispetto all’italiano da sviluppare, sul quale spendere qualche ora in più,permettendogli di sbagliare, ma di giocare, e l’ideazione di un campionato di sviluppo che serva ai giovani proprio per questo, ed è un’idea spesso caldeggiata da Valerio Bianchini.
“Il punto è che vai a vedere un film se gli attori sono bravi, non se sono della tua nazione, o se della tua città, o formati in una bella accademia. A un certo livello il professionismo dev’essere rappresentato da quelli forti, e non da quelli che hanno un passaporto, un’identità. Non dico che debbano essere italiani o stranieri, devono essere forti perché le storie da raccontare passano attraverso questi gesti eroici dei giocatori in campo. Per il campionato di sviluppo, io sono più per l’idea che in Italia ci debba essere un campionato professionistico, lo si chiami Serie A, SuperLega, o quello che è, e tutti gli altri no. Per tutti gli altri intendo tutti. Adesso l’A2, la B, sono campionati dove tutti gli altri giocatori svolgono un lavoro retribuito da lavoratori autonomi. Secondo me la differenza tra l’Italia e altri posti in Europa è che questo mondo di mezzo che ogni tanto vogliamo mascherare come campionato di sviluppo non sviluppa un accidenti di niente“.
Questo è anche un problema che si riflette anche proprio sull’esposizione televisiva, perché nel momento in cui su Rai2, il 29 dicembre, mandi Virtus Bologna-Olimpia Milano e non arriva al mezzo milione, qualcosa non va.
“Il problema è quello, che mancano le storie da raccontare. I giocatori forse, per quanto i nomi siano altisonanti, sono anche un po’ “scarsi” da vedere, e oltretutto in questi anni altre discipline sportive sono state più aggressive sul piano del marketing, della storia che hanno raccontato. Oggi un americano non guarda solo la NBA, ma anche il baseball, il cinema, Netflix. Secondo me un italiano fa la stessa cosa. Anche un italiano che ha una grande passione, o viene da una tradizione sportiva con cultura anche legata al basket magari sceglie di sentire un concerto, fare un’altra cosa, dovendo scegliere”.
Un altro problema della pallacanestro è legato al discorso della Nazionali. La Nazionale rimane il traino del movimento. Una Nazionale che dal 2004 non arriva alle Olimpiadi in qualche modo si riflette sulla base, perché altri sport crescono proprio anche grazie a quell’esposizione.
“Però bisogna anche dire che al torneo olimpico vanno solo un certo numero di squadre. Vuol dire che ne rimangono fuori tante altre. L’Italia rimane fuori come rimane fuori la Germania, la Croazia. Non è che siccome abbiamo giocatori NBA, non li hanno gli altri. Il frazionamento geopolitico di alcuni blocchi, che prima erano solo la Jugoslavia e l’Unione Sovietica, fa sì che adesso invece che contro due nazioni si giochi contro altre cinque, sei, sette che hanno dignità e lignaggio. L’Italia sta facendo tantissimo, non è ancora arrivata a ottenere il risultato di prestigio, ma ci sta arrivando. È vero che siamo legati a doppio filo anche al successo della nostra Nazionale, ma la si può vedere anche in un altro modo: il rugby da quando è entrato nel Sei Nazioni ha preso più cucchiai di legno che vittorie, non vanta nessun risultato prestigioso, ancora fa buonissimi riscontri di pubblico all’Olimpico eppure sembra che abbiano successo. Magari hanno raccontato meglio questa cosa. In Spagna non credo che si sentano più bravi di noi perché vincono e sono alle Olimpiadi, o perché hanno così tanti più giocatori di noi. Hanno lavorato bene, adesso vedremo come proseguiranno. Sono fiducioso nel fatto che se continuiamo a lavorare in un certo modo prima o poi otterremo gli stessi risultati“.
Si parlava di storie. Alla Stella Azzurra ne sono passate tante. Ce ne fu una, nel settembre del 2010, in cui venne il giorno in cui Andrea Bargnani e Kobe Bryant furono insieme nell’impianto e, poche ore dopo, per Kobe ci fu Via del Corso che finì bloccata, tanta era la gente che voleva vederlo da vicino. E in termini di racconto, di storytelling, vale ricordare la figura di Franco Lauro, purtroppo recentemente scomparso, che per tanti anni ha svolto proprio questa funzione in Rai, di narratore di storie.
“Abbiamo avuto la fortuna di vivere, essendo un club che ha avuto i natali tanto tempo fa, tante di queste storie. Quelle di Kobe e Andrea sono storie felicissime, hanno lasciato un imprinting fortissimo nella testa di quella generazione di giocatori, i ’97, i ’98, che credo non se la scorderanno mai più nella loro vita. Franco Lauro l’avevo incontrato recentemente, era nato e cresciuto al Collegio San Giuseppe, ma secondo me ci sono anche altre storie, come quelle di Antonio Costanzo, Altero Felici, gli uomini del passato più glorioso della Stella, ma anche nomi più recenti come appunto Giampaolo Ricci che è anche laureando in matematica, Dut Mabor, che è un ragazzo del 2001 che viene dalla guerra tra Sudan e Sud Sudan, 215 cm, meraviglioso, destinato a giocare nella NBA. Storie per fortuna non ce le siamo fatte mai mancare”.
Come quella romana, e bellissima, di Enrico Gilardi.
“Enrico è un altro degli alfieri italiani che ha questo sangue nerostellato che gli scorre nelle vene”.
Tra quelli che furono suoi compagni, Stefano Sbarra, ora general manager, alla Stella ha costruito una parte importante della sua vita.
“Stefano è stato mio compagno di viaggio per tantissimi anni nel ripristinare la chiesa al centro del villaggio. L’idea di lavorare sui giovani, di far crescere l’impianto, la foresteria. Stefano non era nato alla Stella, ma sembrava esserci stato, nato e cresciuto da sempre”.
Si è letto che il rapporto con Roseto potrebbe non proseguire. Com’è la situazione e, nel caso, come andrebbe avanti il percorso della Stella Azzurra?
“Con Roseto noi non abbiamo ancora parlato, quindi non sappiamo a oggi se questo matrimonio continuerà. Non può continuare a dispetto dei Santi, ci sono dei ragionevoli motivi economici, sanitari e logistici per cui magari questa cosa non potrà andare avanti. Ci vedremo a breve, e vedremo se si potrà continuare o abbracciarci forte e darci appuntamento a un’altra pagina della nostra storia insieme. Questo mi porta a dire che la Stella Azzurra, in genere, concerta il proprio futuro e le proprie stelle attraverso gli uomini che ci lavorano, e trovano soluzioni durante l’estate. Ci avvieremo in questa stagione a decidere un po’ prima, visto che siamo bloccati in casa e quindi abbiamo tanto tempo per pensare, ma di fatto la nostra missione di far giocare i ragazzi, di trovare le occasioni per farli esprimere al meglio è la nostra idea da sempre. Se lo faremo con Roseto ben venga, se dovessimo cambiare strada troveremo una soluzione”.
Si diceva che i ragazzi avevano bisogno dei confronti con i grandi, ma hanno anche bisogno delle esperienze lontano da casa, dal proprio Paese. In questo senso per loro è strano vedersi cancellate le manifestazioni continentali giovanili.
“Per noi è il danno più rilevante, perché l’idea di viaggiare, di giocare contro altre scuole, di vedere altri posti, altri Paesi, è la cosa più importante che abbiamo qui alla Stella perché ci ha contaminato positivamente dal punto di vista culturale ed emotivo. I ragazzi hanno un approccio fisico, una conoscenza del tempo, un approccio anche più laico a tutta una serie di problemi rispetto a uno che abita in Italia pensa di avere. Non poter giocare in Spagna, o la tournée che dovevamo fare negli Stati Uniti, adesso, non ci porterà felicità, ma credo che i ragazzi siano più tristi per questo che per la chiusura dei campionati giovanili o della prima squadra. Ci sarebbe stata una serie di accadimenti che avrebbe dovuto portare i ragazzi a confrontarsi, e per loro questo era molto più importante. Vedremo, ci penseremo, vediamo cosa possiamo fare”.
I ragazzi devono sia giocare che studiare. In questo senso è interessante il fatto che ci sia, con la Stella, un programma di istruzione che coinvolge una buona fetta di istituti di Roma.
“Noi abbiamo questo progetto Dual Career e nella testa di ognuno di noi c’è l’intenzione di preparare questi ragazzi ‘bruciando le navi’ perché diventino professionisti nel basket, però, come ama dire anche Bianchini, in realtà con la mazza da generale hanno anche la bisaccia da caporale, quindi studiano, vanno avanti, aprono la loro testa in un certo modo. Oggettivamente riducendosi certe strutture, certi costi, certe occasioni, è giusto che continuino a studiare, a pensare al dopo rispetto al basket, al durante in un certo modo. Però lo si sentirebbe dire da tutti”.
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Credit: Ciamillo