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La meteora Gianluigi Quinzi: da Messia del tennis italiano ad una carriera arenata nelle paludi dei Challenger
Poche ore prima che, il 7 luglio 2013, Andy Murray restituisse a Wimbledon una vittoria di un giocatore britannico come non accadeva da 77 anni, sul Court 1 era accaduta una cosa che non solo aveva fatto un enorme piacere al tennis italiano, ma che si era anche conquistata i titoli dei telegiornali nazionali. Gianluigi Quinzi, nel torneo juniores maschile, aveva battuto il sudcoreano Hyeon Chung per 7-5 7-6 (2), risultando così il primo giocatore azzurro a riportare tale successo da quando lo aveva fatto Diego Nargiso nel 1987 (contro l’australiano Jason Stoltenberg).
In generale, i vincitori di Slam a livello junior italiani sono stati quattro: Quinzi, Nargiso, Andrea Gaudenzi, che ne vinse due nello stesso anno (Roland Garros e US Open 1990), Corrado Barazzutti (Roland Garros 1971) e Lorenzo Musetti (Australian Open 2019). Ma se per quest’ultimo la storia è ancora tutta da scrivere, dei tre ormai ritirati è invece ben nota. Il napoletano non riuscì mai ad avere una grande carriera in singolare (al massimo numero 67 nel 1998), ma se la cavò meglio in doppio dove fu spesso decisivo in Coppa Davis. Il faentino, invece, fu giocatore più che valido, vincitore di tre tornei, numero 18 del mondo e riuscì spesso a battere giocatori di altissima fascia (Jim Courier, Goran Ivanisevic, Thomas Muster, Yevgeny Kafelnikov, Michael Stich, per finire con Roger Federer e Pete Sampras), ed oggi è presidente ATP. Il friulano si spinse anche più in alto: fu numero 7 del mondo e semifinalista sia agli US Open nel 1977 (perse da Jimmy Connors) che al Roland Garros del 1978 (fu travolto da Bjorn Borg).
Il caso di Gianluigi Quinzi, invece, almeno per il momento rientra purtroppo tra i casi di giocatori che, una volta vinto uno Slam junior, non si sono poi riusciti a confermare al livello superiore. Eppure i primi segnali sembravano buoni: il Trofeo Bonfiglio, Wimbledon, l’avvicinamento ai primi 300 del mondo e varie partite di buon livello anche nei Challenger, anche se nei tabelloni fu spesso sfortunato, pescando al primo turno ora il portoghese Frederico Gil (che oggi si fa chiamare Fred), ex top 100, ora Filippo Volandri, ora Paolo Lorenzi. Eppure spesso impressionava, strappando il più delle volte set a gente più esperta, e trovando alla fine una buona semifinale a Guayaquil, in Ecuador, e tenendo testa all’argentino Leonardo Mayer, non uno degli ultimi arrivati.
Nel 2014, però, non fu fortunato. Dopo aver ripreso tornei Futures per vincere partite (quindici di fila, per tre eventi vinti), proprio mentre era vicino a superare la quota del numero 300, si infortunò al polso destro. Quattro mesi di stop e stagione non esattamente da ricordare, a quel punto. Nel 2015 ci fu un tentativo di riprendere la marcia, e la gente non lo aveva abbandonato: nelle qualificazioni al Foro Italico, contro il francese Benoit Paire, il campo intitolato a Nicola Pietrangeli era pieno. Le prestazioni, però, non riuscirono a essere delle migliori. Tra un coach cambiato e l’altro (sei in un anno e mezzo), il ranking è rimasto intorno al numero 330, ma a preoccupare era il gioco, con ancora vari difetti da sistemare, in particolare sul dritto. Ammise, a fine anno, di esser rimasto bloccato dalla pressione che in tantissimi gli hanno messo addosso, con tutti gli effetti (e le decisioni) del caso.
Eppure, nel 2016 in qualche modo la risalita era cominciata, ricominciando dai Futures per ricostruire la classifica (arrivata al numero 292), e nel 2017 si vide una discreta costanza di rendimento soprattutto nella prima metà dell’anno per arrivare non lontano dai primi 200. La seconda metà della stagione, però, non fu all’altezza della prima e oltretutto con pochi tornei, e per questo stupì il suo approdo alle Next Gen Finals, nella prima edizione, dove comunque non riuscì a vincere partite pur lottando. Il 2018 pareva offrire di meglio, con un bel picco rappresentato dalla vittoria al Challenger di Francavilla con il norvegese Casper Ruud, allora già in rampa di lancio. Da aprile a maggio, altro Challenger, a Mestre, e altra vittoria, con molti italiani di classifica simile superati e Gian Marco Moroni battuto in finale. Di buon risultato in buon risultato, arrivò la miglior classifica: numero 146 nel finale di anno, e pareva più che probabile un balzo in avanti, magari non da top player, ma sicuramente da buonissimo giocatore, che è quello che poteva, e può ancora, diventare.
Il 2019 sembrava proseguire sulla giusta via: qualche quarto Challenger (perso con il brasiliano Thiago Monteiro e con Jannik Sinner, che a Bergamo stava dandosi il via), ed è arrivato il numero 146 del ranking ATP, in un modo o nell’altro, anche giocando delle qualificazioni sul circuito maggiore. Tuttavia, a maggio è quasi del tutto rimasto fermo e ha perso punti e posizioni, uscendo dai primi 200, e poi ha continuato a perdere presto, salutando anche i 300, incagliandosi nei tornei ITF e, nel 2020, finendo fuori anche dai 400 nonostante una vittoria a Weston. L’ultima partita prima del blocco dei circuiti è stata quella persa al primo turno a Murcia (25.000 dollari) contro lo spagnolo Pablo Llamas Ruiz in tre set.
Gianluigi Quinzi ha 24 anni, e ha ancora tempo per riuscire a rimettere in carreggiata la sua carriera per farla diventare di buon livello. Certo, magari non sarà quella di Nick Kyrgios, Cristian Garin e Borna Coric, i tre vincitori degli altri Slam junior in quel 2013. L’australiano, il cileno e il croato, attraverso differenti percorsi, hanno già raggiunto vette significative: sono tutti entrati nei primi 20, hanno vinto tornei, si sono fatti strada in eventi importanti. Però ancora può esserci del buono. Ci sono diversi giocatori che, una volta vinto Wimbledon junior, o anche altri Slam, poi non hanno combinato molto a livello professionistico. I nomi sono tanti: il sudafricano-neozelandese Wesley Whitehouse (1997), noto quasi solo per aver battuto Marat Safin in un’occasione a Indianapolis, lo svizzero Roman Valent (2001), al massimo numero 300 e con un solo match ATP in carriera. Ma anche l’australiano Luke Saville (2011), la cui parabola è simile a quella di Quinzi per certi versi: al massimo numero 152 e mai diventato protagonista. L’augurio è che, quantomeno, il marchigiano alla fine possa distanziarsi da una buona fetta di questi casi.
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federico.rossini@oasport.it
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Foto: LaPresse / Olycom