Boxe
L’Italia è grande: Patrizio Oliva, dall’oro olimpico di Mosca 1980 alla corona mondiale dei superleggeri
Chi è già intorno ai trent’anni di età potrebbe ricordare Patrizio Oliva spesso a bordo ring a supportare i pugili italiani nelle Olimpiadi a cavallo tra i due secoli. Prima di ricoprire quel ruolo, però, il pugile di Napoli, detto lo Sparviero, ha segnato un’epoca nei pesi superleggeri. Dall’oro olimpico alle vittoriose battaglie per il titolo WBA dei superleggeri, il suo nome ha tenuto a lungo in alto il nome dell’Italia pugilistica negli Anni ’80.
Partenopeo, Oliva nacque il 28 gennaio 1959 in una famiglia particolarmente numerosa, con quattro fratelli e due sorelle. E nacque a Poggioreale, di cui ha dato, qualche tempo fa, una descrizione molto semplice in relazione a casa sua: “Uscendo da una parte c’era il cimitero, dall’altra il carcere“.Proprio tramite uno dei fratelli, Mario (cui solo la sfortuna negò di combattere a Monaco 1972), che si avvicinò al mondo della boxe, iniziando a frequentare a 11 anni la palestra Fulgor, nei Quartieri Spagnoli. Primo insegnante: il fratello. Secondo maestro: Geppino Silvestri, che aveva fatto il tramviere in passato. Terzo modello: Muhammad Alì, il più grande di tutti.
Da lì, il passo verso le alte sfere del pugilato dilettantistico fu breve. Nel 1976 fu Campione d’Italia nei piuma, nel 1977 e 1978 lo fu nei leggeri. A Dublino, in quello stesso 1978, conquistò la vittoria agli Europei juniores, non ripetendosi l’anno dopo a Colonia solo per un giudizio piuttosto rivedibile nella finale contro il sovietico Serik Konakbayev. La disapprovazione generale fu tale che Max Schmeling, leggenda tedesca e Campione del Mondo dei massimi negli Anni ’30, lo pose sul gradino più alto del podio come vincitore morale.
A ridere per ultimo, però, fu il ragazzo venuto da Poggioreale. Le Olimpiadi di Mosca 1980, almeno sul fronte della boxe, sono ricordate in buona parte per l’ultimo oro di Teofilo Stevenson e per il generale dominio cubano. Eppure l’Italia un ruolo se lo ritagliò. E a portarla alla luce fu proprio lui, Patrizio Oliva. Nei primi due turni superò il beninese Aurélien Agnan e il siriano Farez Halabi, poi ai quarti rischiò non poco contro lo jugoslavo Ace Rusevski, sconfitto con verdetto non unanime per 3-2. In semifinale non lasciò spazio al britannico Anthony Willis, mentre in finale ritrovò Konakbayev. Questa volta c’era l’ulteriore elemento del pubblico interamente a favore del sovietico, ma Oliva riuscì a superare anche quell’ostacolo, con quella che passò alla storia come una sorta di “danza della guerra” nella terza ripresa, e a portare a casa la medaglia d’oro. Vent’anni dopo Alì, che a Roma 1960 era ancora Clay (e quella medaglia, per razzismo subito, l’avrebbe buttata). In più, ebbe anche la proclamazione quale migliore pugile di quei Giochi Olimpici, prendendosi quella Coppa Val Barker che vent’anni prima aveva avuto Nino Benvenuti.
Il passaggio tra i professionisti avvenne di lì a poco, con il primo combattimento datato 11 ottobre 1980, contro il brasiliano Nelson Gomes, a Napoli. Di lì una lunghissima scia di successi: il primo viaggio negli Stati Uniti (4 giugno 1981, contro George Burton, battuto per decisione unanime), la prima vittoria del titolo italiano dei superleggeri (4 novembre 1981, contro Giuseppe Russi, messo KO al secondo round), seguita da altre quattro difese, tra le meraviglie di Forio e la sua Napoli. E fu a Ischia che, il 5 gennaio 1983, Oliva combatté per la prima volta, al tredicesimo incontro, per il titolo europeo EBU dei superleggeri. L’avversario era il francese Robert Gambini, il risultato fu una vittoria ai punti in dodici riprese, con l’indimenticata voce di Paolo Rosi a narrare quanto stava accadendo ai microfoni della Rai.
Le difese del titolo europeo furono ben otto, e fu la quarta di esse a diventare estremamente popolare per le circostanze che la contraddistinsero. Al Palazzone di San Siro, che poco più di un anno dopo avrebbe subito il colpo di grazia a causa della neve, Oliva dovette vedersela, il 14 ottobre 1983, con Juan José Gimenez, veterano argentino naturalizzato italiano che aveva sfidato l’americano Leroy Haley un anno prima per il titolo WBC, arrivando fino alla fine anche se sconfitto. In quel combattimento, le prime sette riprese videro Gimenez avere un vantaggio, rapidamente esaurito nel momento in cui il napoletano iniziò a salire di ritmo e a rincorrere forse non per mare e per terra, ma di sicuro su tutto il ring, il suo avversario per colpirlo a ripetizione. Tanto bastò a girare la situazione e a consegnare il titolo ancora nelle mani di Oliva.
Alla fine, tutte queste difese della corona EBU furono il preludio a qualcosa di più grande. Prima un viaggio in Canada, battendo l’americano Mark Lassein a fine 1985, poi venne il 15 marzo 1986. Altro argentino, altro pezzo d’Italia nel sangue, stavolta per origini: Ubaldo Nestor Sacco, che aveva radici in Calabria. In palio il titolo mondiale WBA dei superleggeri. Tutto il combattimento allo Stade Louis II di Montecarlo ruotò su una chiave: Sacco costantemente sull’offensiva, Oliva sulla difensiva, ma con grande capacità di rispondere con precisione. I tre giudici non videro le cose in maniera unanime: due giudici furono favorevoli all’italiano (147-144 e 145-141), un terzo all’argentino (140-145). La sostanza, però, era sempre quella: Patrizio Oliva Campione del Mondo WBA, e per di più da imbattuto.
Per due volte l’uomo venuto da Napoli difese la corona iridata, e in particolare fu il secondo di questi combattimenti, con il messicano Rodolfo Gonzalez, a rivelarsi particolarmente insidioso, anche se Oliva vinse ai punti. Non fu così, invece, contro l’argentino Juan Martin Coggi. 4 luglio 1987: una data importante per il pugile azzurro, e non nel senso giusto, perché dopo quasi sette anni di imbattibilità, nel finale di terzo round, a Coggi bastarono tre micidiali sinistri per chiudere un regno e aprirne un altro. Peraltro, Oliva, cadendo dopo il terzo colpo da KO ricevuto si sublussò una spalla, e fu questa una delle ragioni per cui rimase fermo due anni.
Tornò, ma non nei superleggeri, bensì nei welter. Tre incontri, e nel 1991, il 14 novembre, arrivò la sfida europea contro il britannico Kirkland Laing. Fu una battaglia violenta, dura, sfibrante, ma vinta da Oliva con decisione unanime. Vennero poi Errol McDonald, anche lui britannico, che fu squalificato per uso pericoloso della testa, e il francese Antoine Fernandez, sconfitto ai punti. L’ultima difesa, vana, corrispose anche all’ultima volta in cui Oliva salì sul ring: il 25 giugno 1992 il passaggio di consegne all’americano James McGirt significò l’addio, dopo tante soddisfazioni.
Patrizio Oliva, come detto, la boxe non l’ha abbandonata. Allenatore azzurro, poi istruttore per l’AIBA, si è reinventato anche come commentatore televisivo a Rio 2016 per la Rai, e sulla propria parabola ha pubblicato un libro, “Sparviero – La mia storia“, edito nel 2014 da Sperling&Kupfer, da cui è stato tratto lo spettacolo teatrale “Patrizio vs Oliva“, ideato dal nipote Fabio Rocco. Nel febbraio 1988, inoltre, quando era fermo decise di incidere 12 canzoni per un proprio LP, “Resterò qui“, con alcuni pezzi firmati, tra gli altri, da Luigi Albertelli e Cristiano Malgioglio.
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federico.rossini@oasport.it
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Foto: LaPresse / Olycom