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Sci Alpino

L’Italia è grande: Sarajevo 1984, l’impresa di Paoletta Magoni nella nebbia. Primo oro olimpico per lo sci femminile italiano

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Paoletta Magoni - La Presse

Chiusa definitivamente l’epopea della Valanga Azzurra con il ritiro di Pierino Gros a nemmeno 28 anni, nella primavera del 1982, e purtroppo con il talentuosissimo Leonardo David (vincitore della Coppa Europa nel 1978 e di uno slalom in Coppa del Mondo il 7 febbraio ‘79 davanti a Stenmark e Phil Mahre, a Oslo), in stato vegetativo dal 1979 per i postumi di una doppia caduta in discesa, tra Cortina e Lake Placid (morirà dopo sei anni di coma, nel 1985), lo sci alpino italiano cerca nuovi campioni guardando a Michael “Much” Mair, Oswald Tötsch, Robert Erlacher, Alex Giorgi (già ventiseienne, in realtà), tutti altoatesini; si sogna con il diciannovenne valdostano Richard Pramotton, non ancora pronto per le Olimpiadi (non le disputerà mai, ironia della sorte) e ci si aggrappa alle slalomiste di Dalmasso e Cimini, Daniela Zini e Maria Rosa Quario (Claudia Giordani ha detto basta nel 1981), entrambe vincitrici in stagione, addirittura prima e seconda a Limone Piemonte il 23 gennaio 1984, nell’ultima gara tra le porte strette pre-Olimpiade, prima storica doppietta femminile nella Coppa del Mondo di sci alpino, con la valtellinese che non primeggiava da quattro anni.

Sarajevo, venerdì 17 febbraio 1984. Mancano due giorni al termine di un’Olimpiade che alla fine ha conquistato i cuori di (quasi) ogni fortunato partecipante, non importa in quale ruolo. Senza Stenmark, Girardelli e Hanni Wenzel, con Zurbriggen a secco di medaglie, la ribalta nell’alpino se la prendono un ventiquattrenne californiano di Los Angeles dal passato turbolento, William Dean Johnson detto Bill (beve, fuma, tratta male giornalisti e compagni, ma quanto è scorrevole!), e una diciassettenne ticinese dall’immenso talento e nome e lingua italiana, ma ahinoi svizzera, Michela Figini: vinceranno entrambi l’oro in discesa. Le donne sciano a Jahorina, 1.660 metri sul livello del mare, fiore all’occhiello della Bosnia, una delle più valide stazioni sportive della fascia centrale jugoslava. Consta di tre piste omologate dalla Fis ed è già stata teatro di gare in Coppa del Mondo dal 1975. Nel giro di otto anni purtroppo si trasformerà in un presidio militare serbo. I giornali italiani celebrano l’oro del portabandiera azzurro Paul Hildgartner e qualcuno suggerisce di tenere d’occhio una diciannovenne bergamasca che arriva da Selvino, «la miglior neve a un soffio dalla Pianura Padana», scrive Paolo Marchi su Sport Invernali, rivista Fisi. Daniela e Ninna sono in effetti da oro, lo pensano in molti; ma lei, Paoletta, vale il podio, osserva qualche cronista nostrano. Ci credono in pochi, anche se Cimini mette tutti in guardia alla vigilia: «Attenti, questa ha ‘na grinta…». In pista Magoni effettivamente ha il fuoco dentro, dà l’anima pur di ottenere qualcosa di buono. La sua sciata non è delle più pulite, ma ha margini enormi di miglioramento. Ai suoi piedi gli sci preparati dallo skimen “Cocco”, di Limone Piemonte. Quando sogna a occhi aperti vede una Ferrari posteggiata sotto casa. «La velocità è esaltante e mi dà la carica», dice. In famiglia lo sci è una malattia: papà Franco, prima piastrellista poi muratore, ha chiamato la figlia più piccola Francesca Pröll Magoni, suscitando l’ira dell’impiegato comunale; il cane è… Gustav Thöni. Paoletta ha abbandonato gli studi dopo le medie inferiori per inseguire il suo sogno: ama scorrazzare in moto, andare in discoteca e commenta: «La Pröll sì che era una vera dura: stava in giro fino a notte fonda e il giorno dopo vinceva la gara», si legge nell’ultimo volume di 100 anni di sport in fotografia, collana della Gazzetta dello Sport. Ma anche la bergamasca è una promessa: ha vinto l’oro ai mondiali jr. in combinata, esordito sedicenne in Coppa del Mondo e conquistato due medaglie agli Europei giovanili, una persino in discesa. Magoni vive una vigilia tranquilla: Fulvia Stevenin, sua compagna di camera, la racconta così su Sciare: «Siamo andate a dormire alle 21,45. Maga era quasi cattiva. Diceva di voler fare un bel risultato, si caricava». Nessuna italiana è mai salita sul gradino più alto del podio nello sci alpino femminile in sessant’anni di romanzo invernale a cinque cerchi: la milanese nata a Roma Claudia Giordani è stata argento in slalom a Innsbruck ‘76, la vicentina cresciuta in Val d’Aosta Giuliana Chenal Minuzzo bronzo in discesa a Oslo ‘52 e in gigante a Squaw Valley ‘60. La bergamasca non è certo favorita, in stagione ha centrato la qualificazione olimpica in anticipo, ma il suo miglior risultato resta un sesto posto ottenuto a Limone Piemonte, nella famosa gara già citata, trionfale per Zini e Quario. Loro sono le azzurre più attese, con Erika Hess, Christin Cooper, Tamara McKinney, Perrine Pelen, Roswita Steiner, Małgorzata Tlałka. Falliranno tutte, tranne la francesina Pelen, già bronzo in gigante, che poi vincerà l’oro in slalom ai Mondiali di Bormio ‘85.

PAOLA MAGONI IN FESTA DOPO IL BRONZO IN SLALOM AI MONDIALI DI BORMIO ’85

Venerdì 17 febbraio. Cielo cupo, freddo (-10°), nevicata fissa, mattinata senza colori con la nebbia ad avvolgere il monte Jahorina. In parte l’atmosfera ricorda quella del 14 febbraio 1976, il giorno di Pierino Gros a Innsbruck, ultimo oro olimpico dello sci alpino italiano. L’attesa per le azzurre è enorme: gareggiano in quattro; a parte Fulvia Stevenin, le altre tre sono tutte nel primo gruppo, Magoni vi entra grazie all’assenza di Hanni Wenzel. Via alle 10,00, dislivello di 170 metri, tracciato piuttosto ripido, lungo, prima manche dal buon ritmo disegnata dal tecnico statunitense McMurtry per Tamara McKinney, in testa alla graduatoria di specialità in Coppa, e Christin Cooper, fresco argento olimpico in gigante dietro la sorpresa Armstrong, statunitense pure lei. Usciranno presto entrambe, Tamara con il miglior intermedio… Tensione. In pista si vedono solo due porte per volta, la nebbia non perdona. Ninna Quario, numero 1 nelle liste Fis in slalom a inizio stagione, scende per prima, fa da “apripista” a tutte. A Lake Placid ‘80 ha perso il bronzo per 3 centesimi nella stessa specialità a vantaggio della Hess. È reduce da tre giorni di febbre, “scotta” ancora: a metà manche è svuotata, «anche psicologicamente», dirà Cimini. Chiude in 49”68, in dodici faranno meglio. Si scatenerà poi nella seconda, per rimontare sei posizioni e finire settima. I nervi tesi frenano tutte le altre favorite: Hess, tre ori mondiali a Schladming ‘82, si becca quasi un secondo dalle migliori. Paoletta ha il pettorale numero 5. È la più giovane del primo gruppo. Decisa, aggressiva, una sola esitazione all’ultimo cambio di pendenza. Finisce un centesimo dietro l’austriaca Kronbichler, in testa fin lì, in 48”85, stesso tempo di Perrine Pelen, unica campionessa attesa a non tradire. Sta per chiudersi il primo gruppo di merito: Daniela Zini, numero 12, frenesia d’attaccare, qualche tenuta di spigolo in più del dovuto, «sciata a strappi», commentano i tecnici, chiude ottava, a neanche mezzo secondo dal vertice. Può andare bene, per ora. Finita? Macché. Ursula Konzett, dal Liechtenstein – una che ha vinto due slalom in Coppa, ma non sale sul podio da quasi due anni e non lo farà più (nel giro di una stagione terminerà la carriera) – pettorale 13, passa in testa. Sorpresissima finale, Christelle Guignard: 21 anni, da Les Deux Alpes; pettorale 17, di venerdì 17, alla prima stagione da protagonista nel circuito, fulmina tutte in 48”71. Stevenin finisce fuori, come Dorota Tlalka, Oertli e in totale 19 atlete su 45. Morale: Guignard al comando, Magoni quarta a 14 centesimi, Zini ottava, Quario tredicesima, ma tutte in poco meno di un secondo. Giochi aperti. Si sogna. Papà Franco incrocia Paoletta tra una manche e l’altra: « Abbiamo già fatto molto. Ma adesso vai su e spari tutto. Qui si viene per la medaglia». Vorrebbe dire per vincere, ma è uomo troppo semplice per azzardare. Cimini rincara la dose, come riporta Sciare: « Emoziònati ancora di più, cerca di essere cattiva e di restare in tensione, non devi mollare». Spiegherà poi: « Mica si può andare da un’atleta che può vincere un’Olimpiade per dirle di stare tranquilla, di restare calma. Ci vuole rabbia, rabbia». Lei mangia prosciutto e marmellata tra una run e l’altra. Poi si prepara.

Seconda manche, ore 13,00. Ancora nebbia e vento. Il tracciatore è l’austriaco Wolf. Paoletta parte per prima (c’è l’inversione delle migliori cinque) e mette in pratica i consigli dei suoi tecnici, senza paura. Trova il ritmo fin dalle porte iniziali, sembra una navetta impazzita, ma con azione controllata e inappuntabile. Sicura del fatto suo. A metà gara la tv inquadra solo la nebbia, ma il cronometro scorre impietoso (per le altre); la bergamasca non ha esitazioni, affronta al meglio anche l’ultimo cambio di pendenza. In pochi la vedono tagliare il traguardo al monitor, lei corre via veloce: 1’36”47, parziale di 47”62. Nessuna avversaria si avvicinerà neanche lontanamente a quei tempi. Ma bisogna aspettare le altre. Daniele Cimini fuma nervosamente coprendo occhiali e occhi già lucidi, al parterre. Paoletta ride e piange disperata a ogni discesa successiva, alza gli sci, li riabbassa. Pelen è brava, ma seconda, a 91 centesimi. Kronbichler si perde, Konzett salva almeno il bronzo. Poi tocca a Guignard: occasione della vita, ma il vantaggio è minimo, soli 14 centesimi sull’azzurra. Tesa in volto. Parte decisa. Magoni non vuole vedere niente, gli sci tra la testa, lo sguardo abbassato. Sono le ore 13,30 in punto. Alla sedicesima porta, Christelle inforca. Addio sogni di gloria. Nel dicembre ‘84 vincerà la sua prima gara in Coppa del Mondo, a febbraio ‘85 sarà argento in slalom ai Mondiali di Bormio proprio davanti alla bergamasca. Ma il 17 febbraio 1984 è un’altra storia. È festa grande, a Sarajevo. E soprattutto a Selvino, neanche duemila anime che si riversano in piazza a suonare le campane. «Avevamo promesso una festa gigante anche se fosse andata male, figuratevi dopo questo trionfo… Com’è la Magoni? Una bergamasca. E come sono i bergamaschi? Dei crapù », scrive Livio Forma in Paul e Paoletta, gli ori di Sarajevo. Si salvi chi può. Steiner chiude quarta, Hess, in forma, ma schiacciata dal pronostico, quinta, Quario settima, Zini nona.

Paoletta Magoni, 154 centimetri di grinta, è la prima sciatrice italiana a conquistare una medaglia d’oro alle Olimpiadi invernali. «Arrivare quarta non serviva a niente. Dovevo tirare al massimo: per questo ho preso il via per la seconda prova decisissima a rischiare tutto. Ero emozionatissima, ma altrettanto sicura di poter fare bene», ricorda. Qualcuno l’aveva anche predetto, dopo il quinto posto alle World Series di Sestriere (sorta di prologo della Coppa), il 26 novembre 1983, dietro Steiner, Wenzel, Hess e Tlalka. Ma chi se lo ricorda più, a Jahorina? Lei, “maga” Magoni, non riesce nemmeno a proferire parola, lo fanno gli occhi pieni di lacrime. Sparisce il suo tesserino di riconoscimento quando è ancora all’anti-doping: senza, chiunque a Sarajevo è perduto. Panico: «Ecco, adesso mi squalificheranno, mi porteranno via la medaglia. Lo sapevo, non poteva essere così bello». E giù pianti. Poi, viene ritrovato in tasca a una giacca a vento italiana, al parterre. Che intanto è diventato un pandemonio; gli approcci della Milicija locale sono durissimi, se non finisce a cazzotti poco ci manca. Crollano barriere e poliziotti, il giornalista Tucci nella bagarre ci rimette una spalla. Bandiere tricolori spuntano ovunque. Dopo l’anti-doping, Paoletta riappare di nuovo tra risse, botte e spintoni. Un grido: «Voglio il mio papà», arrivato a Sarajevo con il presidente dello Sci Club Selvino, Angelo Bertocchi, e un amico.

Oggi Paola Magoni è una signora timida e discreta che lavora in un negozio di articoli sportivi a Lissone e si occupa ancora di sci, ma solo a livello commerciale: «Ricordo tutto di quel giorno magico – dice a L’Eco di Bergamo trent’anni dopo il suo trionfo, nel 2014 –. Tensione dopo la prima manche ? Sono sempre stata una persona determinata: in quel momento non ho pensato al podio, ma alla vittoria. Ero quarta, ma a 14 centesimi dalla prima, un’inezia: ho pensato che un’occasione così non mi sarebbe capitata mai più”.

Amen.

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gianmario.bonzi@gmail.com

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FOTO: La Presse

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