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Massimo Riga, basket: “Femminile, rischio enorme nelle giovanili se a settembre non si torna in palestra. A Torino partivamo per fare i playoff, poi i problemi”

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Se si parla di nomi di grandissima importanza nel basket femminile, un posto di riguardo spetta a Massimo Riga, e non solo per la sua attività degli anni recenti. Sua, infatti, è una parte molto lunga e importante della storia delle Stelle Marine, storico club di Ostia dove ha allenato per oltre vent’anni fino al 1998. La stima dei club di primo livello, però, non è mai mancata, sia negli Anni ’80 con la chiamata del Partenio Avellino nei suoi migliori anni che più tardi, con la Reyer Venezia. Di questo, della stagione con Torino, della Nazionale e di tanto altro coach Riga ha parlato nell’intervista che ci ha concesso.

Per quel che è possibile, qual è il bilancio di questa stagione incompiuta con Torino?

“Il bilancio è chiaramente un po’ negativo, non tanto per i risultati, perché eravamo partiti con ambizioni differenti, ma certamente per tutto quello che è accaduto. Noi avevamo allestito, credo, una squadra, con quello che era il budget a disposizione, che poteva puntare a una delle posizioni a ridosso dei playoff, che poteva poi essere l’ottavo posto per entrarci e il nono per evitare i playout. Poi abbiamo perso il nostro centro titolare, Alexis Jennings, che aveva iniziato non malissimo, ma ha via via avuto un comportamento abbastanza dubbioso. Si è scoperto che era incinta e quindi l’abbiamo persa immediatamente, dopo la prima giornata, il che ha stravolto completamente la squadra oltre ad aver creato un po’ di problematiche alla società. Poi, con quello che erano le regole non ben chiare del regolamento federale sui visti, abbiamo sostituito la giocatrice a dicembre con la prima partita della nuova, che poi non era un centro puro. Praticamente abbiamo perso tre mesi. La squadra ne ha risentito, tutte hanno dovuto cambiare ruolo, ci sono state parecchie problematiche e invece di tutto quello che poteva essere un obiettivo che pensavo potessimo raggiungere, abbiamo dovuto lottare con tutte le armi che avevamo a disposizione per evitare i playout, ma per altre vicissitudini abbiamo dovuto un po’ cambiare il nostro obiettivo. Il campionato, in generale, ha dimostrato che i valori sono sempre gli stessi: ci sono squadre di altissima organizzazione societaria, economica e di struttura della squadra, che la faranno sempre da padrone. Parlo di Schio, Venezia, Ragusa e anche lo stesso Geas che pian piano si sta inserendo nell’alta classifica, così come San Martino di Lupari che mantiene sempre la sua ossatura. Era un campionato a tre fasce, che forse nella fase dei playoff avrebbe potuto dare qualche scossone perché vedevo molto interessante la crescita del Geas Sesto San Giovanni, che soprattutto in casa aveva già fatto vittime illustri e che nei playoff poteva creare qualche problema delle più blasonate”.

Fra l’altro in questo campionato di materiale ce n’era: oltre alla crescita del Geas e a San Martino di Lupari che è stata a lungo nella vera lotta di testa, c’erano anche squadre come Lucca, arrembante con le giovani.

“San Martino è sempre la stessa, poi aveva inserito la nuova americana che appena arrivata si è infortunata, ma la conosciamo e sappiamo quello che può fare: scherzi finali ne ha sempre fatti. Lucca è una squadra giovanissima che aveva avuto, strada facendo, tantissime problematiche di infortuni: sappiamo tutti di tre crociati rotti. Strada facendo stava avendo qualche problema, ma era partita benissimo. Però il Geas lo vedevo in crescita anche dal punto di vista della maturità delle giocatrici, una su tutte la mia ex Costanza Verona, che era in campo da play e aveva preso in mano la squadra con grande leadership, coadiuvata da tutte quelle che nel club rossonero la fanno da padrona come le tre straniere o il gruppo delle italiane. La vedevo convinta del fatto di star facendo il campionato italiano da protagonista. Ed era in crescita anche la Reyer Venezia: era noto che aspettava, nel mese di marzo, l’arrivo di un nuovo centro americano, Natasha Howard (due volte campionessa WNBA, N.d.R.), che avrebbe potuto dare qualcosa in più per il rush finale dei playoff. Peccato in generale che lo sport si sia fermato per questo problema così grave”.

Dopo che Alexis Jennings è rimasta incinta ed è stata autorizzata a tornare negli Stati Uniti, si è avuta una complicata vicenda di giustizia sportiva per poterla sostituire.

Qui stiamo parlando di una maternità. Da una parte siamo stati sorpresi dall’accaduto, perché è successo in altre occasioni tanti anni fa. Erano altri momenti. Mi ricordo il caso, nel 2005, della giocatrice brasiliana Adrianinha, che giocava con Faenza (che aveva puntato tutto su di lei, così come noi in questa stagione con Alexis Jennings). Un po’ di sorpresa c’è all’inizio, poi c’è la felicità, del resto stiamo parlando di una maternità e quindi siamo stati felici per lei e il suo compagno. Chiaramente poi ci siamo trovati di fronte alla burocrazia. Noi avevamo utilizzato tutti e due i visti per le extracomunitarie, c’è un regolamento che non è ben chiaro e alcune squadre non li avevano utilizzati entrambi. Il dubbio era che non ci ridessero un ulteriore visto anche se il regolamento lo prevede perché dei 28 visti a disposizione per il settore femminile si andava, laddove lo avessimo sfruttato, a toglierlo a qualcuna che non lo aveva utilizzato, la qual cosa non esiste. Infatti tutti hanno un po’ storto il naso. La prima istanza al Consiglio Federale è stata bocciata, la seconda anche, e il mio presidente, Giovanni Garrone, voleva arrivare fino al CONI, quindi al terzo livello di giudizio. A quel punto, però, tutte le società si sono radunate e questo ha fatto un po’ giurisprudenza come caso, perché in assemblea, a Bologna, hanno stabilito che Torino (ma anche simili situazioni future, dovessero riaccadere) doveva avere a disposizione la sostituzione della giocatrice americana con un altro visto, perché alla fine questo era il regolamento scritto, ma mal interpretato. Siamo però arrivati a dicembre, e la nuova americana, Jade Walker, è arrivata il 29 dicembre in Italia e la prima partita l’ha giocata il 6 gennaio contro Vigarano. Ed era l’ultima giornata di andata. In pratica è come se in porta, nel calcio, si mettesse un terzino che fa anche il portiere invece del portiere di ruolo. Ho quindi dovuto sostituire un centro di 1 metro e 96 con un’esterna, che certo non aveva quel ruolo“.

Cos’è successo con Moesha Kinard, che è andata a Vigarano?

Era la guardia titolare. Avevo preso due rookie: Moesha era arrivata qui con un curriculum straordinario, giocatrice di grande precisione da tre punti, veniva dal college di Lamar, attualmente non enorme. Ho visionato le partite intere (non guardo mai highlights). Lei poteva essere una guardia forte fisicamente, esplosiva, la mia freccia all’arco nel contropiede, che giocava sia a livello longitudinale che in verticale, ma che ha avuto grandissime difficoltà a cambiare il suo modo di giocare tra college (dove ha anche fatto 58 punti in una partita) e Italia, in un campionato già difficile di suo, dove ci sono tante senior. Ha avuto difficoltà nel capire il gioco e i giochi per lei, faceva fatica nelle letture. Andava dentro perché aveva la sicurezza nella sua fisicità. Faceva partite con tanti tiri, ma anche con tanti errori dal campo. Ha finito il percorso qui a Torino con 6/40 da tre punti. Noi, nello stesso momento in cui il pivot titolare non ce l’avevamo più, abbiamo avuto anche la guardia americana che non rispondeva alle nostre aspettative. Avere un problema può capitare, averne due o tre non va benissimo. Detto ciò, Vigarano aveva perso Breanna Bolden perché non era ritornata dalla pausa per le Nazionali, per scelte sue, e quindi il regolamento parla chiaro: si può sostituire una giocatrice con visto con un’altra con visto, purché arrivi dallo stesso campionato. Loro potevano dunque ritesserare Kinard, perché era già qui in Italia, e non hanno avuto problemi a prenderla. Poi lei ha fatto una grandissima partita quando il 6 gennaio lei ha giocato contro Torino, con 24 punti, anche se poi l’abbiamo vinta noi. Lei segnava da tutte le parti, le motivazioni erano tante per far vedere quello che lei avrebbe potuto fare. Sono rimasto comunque contento, perché siccome l’ho scelta io, vederla così mi ha dato soddisfazione, al netto del fatto che qui aveva perso motivazioni ed è esplosa proprio contro Torino. Il suo prosieguo del campionato ha dimostrato che era tornata sui propri livelli. Ha fatto fatica, ma è una bravissima persona, ha semplicemente avuto difficoltà per l’impatto dell’arrivo dal college“.

In questi anni il progetto di Torino si è dovuto scontrare a volte con problemi economici. La squadra ha anche rischiato di non iscriversi un paio di stagioni fa.

Ho terminato il terzo anno qui, ho contratto fino al giugno del 2021. Il primo anno (stagione 2017-2018, N.d.R.) è andato molto bene, una squadra con una bella ossatura che aveva fatto i playoff uscendo contro la Reyer, ma che comunque aveva un’identità, coperta in tutti i ruoli. C’era stato il divorzio con la PMS Moncalieri, a seguito del quale ci siamo spostati al PalaRuffini, oggi intitolato a Gianni Asti. Finita quell’estate, sono crollati gli obiettivi perché la squadra si è iscritta al campionato 5 minuti prima della chiusura delle iscrizioni, perché aveva perso gran parte delle sponsorizzazioni e si era trovata in grandi difficoltà. Invece poi l’Iren, l’azienda dell’energia elettrica e smaltimento rifiuti del Piemonte, di mezza Lombardia e della Liguria, è intervenuta tramite anche i buoni rapporti con il Comune e la sindaca Chiara Appendino, ed è riuscita a smistare una buona parte di sponsorizzazione per la Pallacanestro Torino, che ha confermato poi anche quest’anno. Con quelli che erano i tempi a disposizione abbiamo allestito una squadra che l’anno scorso ha fatto moltissima fatica. Soldi ce n’erano pochi, siamo riusciti a metter su qualcosa che desse l’idea di una squadra, che aveva anche fatto bene date le circostanze. Forse ci saremmo salvati sul campo, ma l’abbiamo fatto anche e soprattutto perché la Dike Napoli è fallita, e poi sono state bloccate le retrocessioni con le sole promozioni. La formula era strana: avremmo dovuto fare lo spareggio, in caso di penultimo posto, con la perdente della finale promozione di A2. Quello è comunque stato un anno sofferto, che però ha dato la possibilità di rifare le cose con più calma questa stagione. Adesso però è venuta fuori questa problematica, che ne creerà tante altre. Il futuro, e non solo qui, lo vedo molto pericoloso“.

Nella bozza di decreto circolata recentemente uno dei punti riguardava il fatto che si potesse giocare a porte chiuse fino al 2021.

Queste cose le vedo abbastanza impossibili. Qui ci troviamo di fronte al recuperare risorse con delle sponsorizzazioni e aziende che, in particolare se piccole, stanno soffrendo davvero tanto per i propri lavoratori e quindi pensare di investire in sponsorizzazioni ad ora è l’ultima cosa. Spero in una defiscalizzazione diversa degli sponsor nello sport, dove si dovrebbero creare degli incentivi ancora più forti per queste aziende, perché se investono in questa sponsorizzazione non solo devono dichiarare tutto, ma devono proprio defiscalizzare tutto, se non portare a credito qualcosa. Incentivare le aziende per investire sulle sponsorizzazioni. Sul discorso del contatto fisico, sarà problematico per le società perché bisognerà avere un medico sempre presente agli allenamenti, la misurazione della temperatura corporea, il lavaggio delle mani, tutti i sanitari con mascherine e guanti soprattutto all’inizio. E parlo degli allenamenti. Poi che facciamo, difendiamo a un metro e mezzo di distanza per non avere contatti? Questo è uno sport di contatto. Noi dobbiamo ripartire in campo con tranquillità e serenità, però in questa situazione finché non ci sarà un vaccino dobbiamo andare avanti così. Sulle porte chiuse non sono molto d’accordo. Io in tribuna posso stare a contatto con gli altri, anche con distanziamento territoriale, dove magari non venderemo tutti gli abbonamenti possibili, ma si farà in modo che si possa assistere a una partita: poi, ci sono impianti in cui si può fare e in cui è più difficile. Io però sono più preoccupato per i settori giovanili: le palestre scolastiche, i giovani del minibasket. Le mamme e le nonne accompagnano i bambini, ma poi non devono entrare? Ricordiamoci che assistere non è solo alle partite, ma anche agli allenamenti. Che facciamo, il nonno lo portiamo in macchina, o la mamma, o la zia, o la badante, o quel che sia? Queste cose saranno problematiche. Sto sentendo che il Comune dice alle società sportive: “Siete voi che dovete disinfettare, sterilizzare le palestre”. Sarebbe il Comune a doverlo fare per le scuole e tutto il resto! È al Comune che si paga l’affitto, e il Comune dice che le società sportive devono anche occuparsi di questo? Le società sportive rischiano di sparire tutte. Noi pensiamo solo a porte aperte o chiuse per lo sport a livello superiore. Qui però il problema è grandissimo, a livello giovanile. Se a settembre non ritorneranno in palestra, e parlo del settore femminile, con tutte quelle poche ragazze che fanno quest’attività, rischiamo la morte del settore. Andremo incontro a tante cose, almeno all’inizio. Io credo che ci troviamo di fronte al fatto di ripartire, con tutte le precauzioni del caso, ma ripartire. Stanno dicendo che le classe andranno dimezzate metà a casa e metà a scuola, ma qui tocca scrollarsi le paure di dosso. Io vado a fare la spesa una volta a settimana, vedo le corsie del supermercato in cui quando incontri qualcuno sembra il Far West, perché ognuno ha paura del contagio. Vedo tanti timori e tante paure. Se non ci fanno capire che qualcosa possiamo fare, vedo grandi problemi in arrivo. E cambieranno tante cose”.

Un passo indietro. Lei ha fatto la storia del basket a Ostia, con una storia lunghissima, più che ventennale.

“Io sono nato da lì, ho mosso lì i primi passi da allenatore e chiaramente non dimentico che sono stati anni bellissimi, che mi hanno formato. Forse anche troppo presto: a 22 anni non compiuti ho fatto l’esordio sulla panchina del Partenio Avellino, e dico sempre che è stato un bel treno che ho preso al volo, ma che è forse arrivato un po’ troppo presto. Non avevo ancora tutta quell’esperienza per poter essere subito in grado di far bene, in un campionato importante come quello dell’A1. Quella società aveva budget importanti, giocatrici importanti, ma soprattutto le altre squadre avevano fior di talenti. Non dimenticherò mai Avellino, ma nemmeno da dove son partito. Ostia, il settore giovanile, tutto quel che potevamo fare. Allora si lavorava con una supremazia dell’allora Algida Roma, e non si riusciva mai a fare esperienze fuori perché loro la facevano da padrone, erano le più forte e già prendevano giocatrici importanti da fuori. A Ostia si lavorava con prodotti locali, poi uscì l’annata delle ’66-’67-’68 che, pian piano, venivano fuori. In particolare l’annata ’68 fu quella della prima finale nazionale, battendo l’Algida dove l’allenatore era mio fratello, e da lì sono esplose tutte le altre attività con Silvana Santagata, Maurizio Martinoia, e in generale l’esplosione del settore femminile delle Stelle Marine dove siamo poi tutti andati in altri palcoscenici. Io ho preso questa decisione di lasciare Ostia per ritornarci per alcuni anni, ma perché ho avuto la fortuna di farlo fuori casa. Ricorderò sempre quegli anni, così come quelli all’Alfa Omega dove sono nato come cestista. Continuo a essere amico di tutte e due le società di Ostia, che vedo con grande piacere che adesso hanno fatto una bellissima cosa a livello femminile, dove hanno finalmente unito le forze e così non si disperdono prodotti importanti. Hanno creato questa struttura con Talea Basket, che è un po’ l’unione tra le due società, affidando il progetto anche a tecnici interessanti e importanti come Massimo Corradini, Bruna Bonetti, Chiara Perfetti. Sono tutte persone che fanno bene: per me vedere che a Ostia c’è un bel lavoro mi fa molto contento”.

Quali sono le giocatrici più importanti che sono partite da quel settore giovanile?

“Su tutte, c’erano le sorelle Stazzonelli (oggi Monica vive a Bergamo, allena ed è diventata una collega), ma ce n’erano veramente tante. Penso a Silvia Prizia, che fece il suo percorso in Serie A1, poi Roberta Postiglione, le sorelle Diamanti, e non vorrei non elencarne qualcuna anche a causa dell’età (mia). Ricordo, quando allenai a Ferrara, che avevo Maria Giovanna Picchio, che veniva dalle Stelle Marine. Tante hanno fatto bene e si sono espresse ad altissimi livelli. Poi c’è stata un po’ di crisi, prodotti non ne uscivano più. C’era nel settore maschile Federico Antinori, che ha finito la carriera in Sicilia. Pur se non Stelle Marine, uscì fuori da Ostia anche Federica Tognalini, che è stata sfortunatissima, mille infortuni. Lei è nata dalla mia società, l’Acilia Basket: iniziò da noi, con me e mio fratello, poi fu ceduta alla Reyer Venezia quando ci sono andato anch’io, e poi lei ha fatto tanto, ha vinto, ha fatto bene, ha avuto tantissimi problemi. Oggi ha smesso, sta lavorando nel settore tecnico. Non va però dimenticato che sono tutti prodotti usciti da Ostia. E questa è una città che poteva tranquillamente avere una Serie A1 per struttura del palazzetto, dello staff. C’è tanta gente che a livello giovanile ha fatto il settore giovanile da noi, avevamo anni con 60-70 persone e 250 bambini di minibasket, ci sono state annate molto interessanti. Il bacino d’utenza era grande. Meriterebbe Roma di avere una squadra di altissimo livello, ma si fa sempre tanta fatica ad avere una squadra nelle grandi città. Lo vedo qui a Torino, dove si fatica a emergere anche a causa della padronanza del calcio”.

A Roma, peraltro, nel femminile si fa spesso fatica anche con l’A2 ultimamente: il San Raffaele dopo un anno di A2 ha continuato il suo progetto in B, l’Elite è stata promossa, ma non ha mantenuto la categoria, e l’Athena si è ritrovata invece in una situazione drammatica che l’ha portata a ritirarsi a stagione in corso.

“Mi ricordo anche il San Raffaele in A1 a metà Anni 2000 con il mio amico Amedeo D’Antoni (anima del San Raffaele, N.d.R.). Ma dopo averla conquistata fai fatica a decidere se puoi farla o no. La fai, ma come l’anno scorso è successo qui a Torino, con grande fatica, con poche risposte sia della città, perché in una metropoli come Roma devi farti spazio ed è difficilissimo, senza dimenticare le risposte di pubblico, di abbonamenti, di giornali e via dicendo. A quel tempo non c’erano nemmeno tutti questi social che ti danno anche una possibilità di farti seguire e vedere. Una delle grandi problematiche del futuro sarà proprio questa: ne parlavo con il mio presidente. Noi dobbiamo strutturare il nostro settore femminile creando dei fortissimi miglioramenti dal punto di vista delle televisioni, perché se io la partita della femminile non posso vederla in tv perché non c’è nessuna emittente nazionale che la trasmette bene, ma devo vederla in abbonamento, sullo streaming di LBF TV, dove i telecronisti sono per forza di cose quelli locali, allora se vogliamo diventare professionali, facciamolo, ma cambiamo le cose, altrimenti siamo morti. Ritornando al discorso romano, ai tempi del San Raffaele in A1 si fece un po’ fatica, poi c’è stato un momento in cui a fare la Serie A1 è stata Marino (stagione 1993-1994, N.d.R.), ma essendo un piccolo Comune poi è saltato tutto. Vorrei invece vedere qualcosa di solido, una società che ha magari un bel settore giovanile e che poi con i propri prodotti riesce a venirne fuori, ma oggi si fa fatica. Qui a Torino è solo calcio, ma è normale: abbiamo la Juventus e il Torino. Io abito in un quartiere, quello di Filadelfia, dove in qualsiasi bar e ristorante, di quelli oggi chiusi, c’è sempre la stessa scena: si entra e ci sono maglie del Torino, o con i colori del Torino. Qui è cultura. Penso a Roma, con il budget per le discipline minori che non esiste. Mi dispiace aver visto questa fine ingloriosa dell’Athena. Non abbiamo bisogno di questi personaggi che, probabilmente, non danno garanzie. Non giudico perché sono lontano, ma mi dispiace per questa società del mio amico Mauro Casadio che comunque ha avuto queste problematiche. Leggo con piacere quello che sta facendo il San Raffaele e anche l’altra situazione che è venuta fuori con l’Elite. Credo che gli sforzi di qualcuno che vuole provare a fare ci sono, ma in qualche maniera salta sempre tutto. Roma meriterebbe qualcosa di importante“.

Ostia, Venezia, Battipaglia: tre esperienze allo stesso modo grandi. Stelle Marine per il tempo trascorso, Reyer per le vette raggiunte, PB63 per i quasi cinque anni.

Sono tutte fondamentali, importanti e ognuna col proprio valore. Non posso dimenticare la prima finale nazionale con le Stelle Marine. Sono quei momenti che si rivivono, anche se a essere coinvolta era pure la squadra di mio fratello. Ricordo tre partite stupende, quando decretarono la vittoria della nostra annata ’68. Squadra allora fortissima, ma che fece un exploit straordinario battendo l’Algida Roma con tre risultati uguali, se non sbaglio 69-67, 67-69 e 69-67. Sono ricordi, ma al di là del punteggio ci fu un’apoteosi clamorosa e da lì poi son venute fuori tantissime altre situazioni, ma quello rimane indimenticabile. Poi ti accorgi che quello che doveva essere un divertimento per me è diventato un lavoro, uno molto bello, con cui ho costruito la mia famiglia, il mio futuro. Poi alla Reyer Venezia ho toccato con mano una grande città, una cosa immensa. Vivere a Venezia è qualcosa di straordinario, vincere a Venezia una Coppa Italia, una Supercoppa, aver fatto l’Eurolega, una finale scudetto seppur persa contro Taranto in gara4 (vincemmo gara1 e perdemmo di due punti gara2), comunque ti da un’emozione. Tante volte i critici dicono “ah, ma sei arrivato secondo”. Solo chi gioca le finali arriva secondo! Vincere in Campania è diverso perché la promozione con Battipaglia dall’A2 all’A1, al secondo anno, era una cosa inaspettata, io ero arrivato da poco. Vincere lì è stato bello come emozioni, per i festeggiamenti, una cosa spettacolare. E naturalmente non voglio dimenticare il percorso con il settore Squadre Nazionali, arrivato come ultimo mio approccio. Purtroppo, aver perso una finale del Campionato Europeo Under 20, con Cecilia Zandalasini che esplose a livello mondiale, seppur ancora oggi non mi dia la felicità, mi da comunque un orgoglio incredibile. Arrivammo nello spogliatoio, a fine primo tempo della finale con la Spagna, ed eravamo sotto di 19, e non dimenticherò mai quel colloquio avuto. Gli occhi delle ragazze non erano nemmeno tristi, ma infuocati, e quello che è successo nel secondo tempo è stato straordinario. Alla fine l’abbiamo persa con quel fallo fischiato a pochi secondi dalla fine sul 69-69. Noi viviamo di queste emozioni, le pressioni sono quelle che mancano adesso. Mancano i viaggi in pullman, il pathos del prepartita, i discorsi, quelle cose che fanno di questo mestiere il nostro foraggio, però accettiamo a malincuore quello che sta accadendo: sono cose molto più importanti. Mai dimenticare il passato anche se siamo preoccupati per il futuro”.

In quelle partite del 2016 Zandalasini non solo fece 31, 27 e 28 in quarti, semifinale e finale, ma si prese la squadra quando s’era fatta male Marzia Tagliamento.

“Sembrava qualcosa che potesse crollare, perché c’era stata una partenza un po’ al rallentatore, poi l’infortunio di Marzia. C’è stata una reazione di una squadra e di un gruppo enormi. Noi ci siamo anche divertiti come staff tecnico: ancora oggi ricordiamo quell’esperienza e tanti mi hanno chiesto ‘ma che le hai fatto, che le hai detto a Zanda?’. Assicuro che le ho solo detto di giocare. Lei era un po’ incappucciata dentro un sistema di gioco, quello di Schio, dove era approdata giovanissima, e già da due anni, in una squadra in cui c’era da passare la palla a Macchi, Ress, Sottana, Masciadri. Insieme. Prima di fare un tiro dovevi chiedere permesso e poi autorizzarti. Le ho detto: ‘Ma stai scherzando? Vai!’ E anche lei è esplosa come personalità, perché è una persona squisitissima, allora era timida per i suoi vent’anni. Non si era mai permessa di fare un gesto come quello di girarsi verso la panchina spagnola e far vedere la maglia dopo la tripla del pareggio. Quella foto è andata su tutti i giornali e i siti. Dopo quello che ha fatto con la Nazionale maggiore, in America, in Turchia è straordinario. Stiamo parlando di aver avuto la fortuna di allenare queste giocatrici. Questa è una fortuna. Tu non sei nessuno se non hai poi le giocatrici vicino che ti fanno vivere queste emozioni”.

Foto: fiba.basketball

Gli allenatori più influenti nella Sua formazione e le giocatrici più importanti allenate?

“Partiamo dagli allenatori: ho iniziato a lavorare alle Stelle Marine, dove vedevamo Roma o delle squadre romane che facevano dei percorsi già importanti. Partivamo da Ostia con Sandro Incetti, che era il vice del Basket Roma che aveva come allenatore Giancarlo Asteo, ed era il classico allenatore romano sapiente. Conosceva benissimo la pallacanestro, e noi giovani allenatori andavamo ad accompagnare Sandro a fare gli allenamenti e a vedere quelli di Asteo all’Acqua Acetosa, dove giocava questa mitica squadra del Basket Roma dove c’erano fior fior di personaggi: Enrico Gilardi, Augusto Manzotti, Giovanni Tassi, Paolo Cirotti, Tiziano Lorenzon allora giovanissimo, tutti giocatori che hanno fatto la storia del basket romano. Asteo era il classico coach di grinta, di trasporto, con lui dovevi allenarti. Lui per me è stato una linea da seguire. Lui aveva quel modo di fare, gli altri dovevano farlo, non subirlo, dovevano viverlo perché te lo faceva vivere Asteo. Mi ritrovo in lui perché alleno ancora così, anche se poi sono un po’ cambiato anche nell’atteggiamento e nei rapporti. Son cambiati anche i tempi, perché un conto è allenare gli Under 20 25 anni fa, un conto è allenarli oggi, perché sono cambiati loro. Lui è stato l’allenatore in cui mi sono sempre rivisto nell’atteggiamento di grande determinazione, forza e trasporto. Non si poteva non essere trasportati da quella che era l’energia che Giancarlo Asteo metteva negli allenamenti. Da lì ho sempre preso un po’ da tutti quanti, ma come tipologia del mio provare a fare l’allenatore oggi io mi ritrovo sempre con quell’atteggiamento. Tante volte non ho mai lasciato questo mio dialetto romano, che in campo si sente e di cui si accorgono soprattutto gli altri soprattutto qui al Nord sia a Est che a Ovest. Capitolo giocatrici: oggi la stella assoluta può essere Zandalasini, però quella che mi ha veramente dato lustro perché l’ho allenata, mi ha dato la possibilità di capire che questo è un gioco straordinario, che se hai delle belle persone davanti sicuramente riuscirai a far bene, è Mariangela Cirone, con cui è successo che ha dato tanto lei a me. Lei è stata playmaker di Como, ha fatto tutto per bene, una carriera straordinaria, è una persona che aveva una qualità umana, senza che nessun’altra me ne voglia, che senti che ti ha dato qualche cosa. Lei era un cervello in quel ruolo: poi l’ho avuta alla Reyer Venezia. Lei guardava l’allenamento, era lei che lo faceva, che dava i ritmi, era un libro stampato. Una persona intelligente, bella, e non dovevi che creare l’esercizio. Poi il resto lo faceva lei. Ed è bello avere queste giocatrici. Non è soltanto il risultato del campo quel che conta, è quel che riesci veramente a crescere con qualcosa che ritorna alla giocatrice, senza che sia sempre tu a dare agli altri. Per me è stato un punto importante. Peccato che quell’anno alla Reyer non abbiamo vinto, ma purtroppo sfiorato l’impresa. Va bene lo stesso”.

Cirone che negli ultimi anni doveva limitare il minutaggio, peraltro.

“Aveva delle problematiche fisiche. Avevamo tre play, avevo anche una giovane Licia Corradini, dovevamo fare l’Eurolega, quindi con i miei assistenti, Loris Barbiero e Andrea Liberalotto, dovevamo assolutamente gestirla con il cronometro anche con l’aiuto dei preparatori fisici. Era fondamentale non farla giocare più di 20′ a partita, ancora meno il mercoledì in Eurolega, perché c’erano tutti i viaggi, ma spesso contava poco rispetto a quando illuminava al momento di entrare in campo. Da quel punto di vista non posso che definire lei la giocatrice che mi ha fatto crescere, mi ha dato tanto e mi ha anche fatto capire quali erano le mie carenze, oltre alla convinzione che qualche cosa ogni tanto la dicevo bene“.

Inoltre quell’Eurolega andò anche bene per la Reyer, che fece un bel percorso.

“Era la stagione 2008-2009. C’era il primo girone a sei, 10 partite, 7/7 e qualificati già nei quarti alla settima partita. Nelle ultime tre andammo a gestire il gruppo, dato che già eravamo al primo posto. Purtroppo negli ottavi di finale ci fu l’unica vera partita bucata, persa in casa contro Pecs, che alla prova dei fatti ci eliminò. L’anno prima facemmo 10/10 all’inizio in campionato e perdemmo verso Natale contro La Spezia e poi alla prima di ritorno con Viterbo, dopo un 12-1 dell’andata. Fu un percorso straordinario”.

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Credit: Ciamillo

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