Rugby
Rugby Seven, Andrea Pratichetti: “Serve un’Accademia per fare il salto di qualità, che rabbia le critiche di chi non sa”
Il centro del Mogliano e punto fermo dell’Italseven Andrea Pratichetti racconta in un’intervista esclusiva a OA Sport come sta vivendo questo periodo di stop dello sport a causa del Coronavirus. Dallo studio ai problemi del rugby italiano di oggi, arrivando alla questione del rugby olimpico e di cosa manca per fare il salto di qualità.
Andrea, prima domanda. Come stai e com’è la tua giornata tipo in questo difficile periodo?
“Sto bene dai, l’ho presa abbastanza con filosofia. Vivo da solo, il che un po’ mi pesa, ma mi sto abituando. Mi sveglio, ho iniziato a fare anche un po’ di yoga, poi studio (Scienze dell’alimentazione, ndr.), mi alleno un po’. Mi sono fatto la palestra in garage, cioè in verità solo un tappetino con cui faccio un po’ di esercizi di corpo libero. Poi ora posso correre (dopo l’ultima delibera di Zaia, ndr.) anche un po’. Il pomeriggio studio ancora, poi la sera ho ripreso anche a leggere. Quindi, quasi quasi, la quarantena mi fa bene”.
Come vivi questa situazione e la paura del contagio?
“Per me sono abbastanza tranquillo, sono giovane, in forma, rispetto bene le regole. Esco solo una volta a settimana per la spesa, mentre l’unica volta che sono stato fuori più a lungo è quando siamo andati in giro per Mogliano a distribuire mascherine. Quello che mi preoccupa di più sono ovviamente i miei genitori, che sono over65, ma anche loro seguono le regole. Poi loro sono a Roma, quindi un po’ di preoccupazione c’è vista anche la distanza”.
Da atleta professionista come stai vivendo questo momento proprio da un punto di vista di preparazione fisica e allenamento? Come ci si allena senza avere un obiettivo davanti a sé?
“Questa è la cosa più tosta. Anche perché allenandomi da solo è ancora più dura. Quello che mi stimola è che posso recuperare da un infortunio, per tornare in forma, anche se poi è vero che non so quando potremo giocare. Però è anche un modo per riempire la giornata. Per noi atleti poi viene naturale fare attività fisica, mi piace allenarmi. Certo, un po’ è monotono solo fare corpo libero, ma dai non è male. Poi mi diverto perché sui social vengono lanciati continui challenge e mi diverto a sfidare i miei compagni. Quelli di Carlos Spencer? No no, non sono bravo col piede. Anzi, diciamo che non li faccio solo perché non ho un canestro e mi salvo (ride, ndr.)”.
Tu hai vissuto il rugby italiano al più alto livello, dai club più rinomati del Top 12 all’avventura celtica in Pro12, passando per la nazionale maggiore e negli ultimi anni sei un punto fisso dell’Italseven. Come sta in salute il rugby italiano?
“Eh… non è sicuramente un momento facile. Ha vissuto sicuramente tempi migliori, ma la cosa positiva è che ci sono un sacco di giovani di grande qualità, come si vede dall’U20 in questo periodo. Poi saranno la Fir e i vari allenatori a doverli fare esplodere del tutto, ma direi che il futuro dovrebbe essere migliore. Le vittorie che non arrivano non aiutano, ma ora c’è Franco Smith – che conosco bene perché mi ha allenato a Treviso – e che penso sia la persona giusta per questo momento. E’ un ottimo allenatore, ma bisogna pensare a un percorso a lungo termine, non pretendere tutto e subito”.
Il Coronavirus ha sconvolto lo sport, portando addirittura al rinvio dei Giochi Olimpici. A Tokyo il rugby azzurro non ci sarà. Quanto è lontano il Seven italiano dall’elite mondiale?
“Quest’anno dopo 6 anni ci siamo qualificati ai tornei per qualificarci per le World Series, anche se alla fine purtroppo non sono andati benissimo. Ma per me il gruppo c’è, ci sono giocatori giovani di qualità, ma se è faticoso farli emergere a XV, figurati a Seven dove ci sono meno raduni. Per me siamo lontani dall’elite, certo, ma non troppo, basterebbe poco per fare il salto di qualità”.
Senza volerti trascinare in polemiche politiche, ma da atleta esperto che vive il Seven ormai da qualche anno, cosa è quel poco che manca per fare il salto di qualità? Cosa si è sbagliato, cosa va cambiato?
“Il limite più grande è quello di non potersi vedere spesso, di non fare raduni. Io ho iniziato convinto che rugby a XV e Seven fossero sport simili, invece è tutto un altro sport, fisicamente ma anche come gioco. Facendolo cinque volte l’anno, ogni volta ricominci da capo. Poi c’è la questione del gesto naturale, istintivo. Cose che fai abitualmente a XV nel Seven sono sbagliate. Sicuramente un’Accademia, di cui si parla da tempo, sarebbe fondamentale, permetterebbe a ragazzi di giocare sempre assieme. Incontrarsi più spesso è fondamentale, ma so che è difficile visto che partecipiamo tutti al campionato di rugby a XV e non possiamo fare tanti raduni. Con l’Accademia non ci sarebbero più scuse, devi fare salto di qualità. Se pensi alle nazionali che affrontiamo, come la Germania, loro hanno un gruppo sportivo di rugby 7s ben definito e i risultati si vedono”.
Appunto, quelle rare volte in cui ne parla, la stampa italiana affronta il tema Seven con molta superficialità, dando giudizi che spesso dimostrano di non conoscere le realtà con cui vi scontrate. Come dici tu la Germania o la Spagna, e penso all’ironia e alle critiche quando perdete contro queste nazionali. Come vivi da giocatore dell’Italseven queste critiche, come le vivete come gruppo?
“Fondamentalmente ci rimaniamo male, perché come dici tu, di noi non si parla mai, poi quando scrivono se ne parla male, con poca conoscenza. Noi ci facciamo il c…, ci alleniamo, finiamo la stagione a XV a maggio e invece di andare in vacanza o studiare facciamo tre mesi di Seven. E subito dopo riparte il raduno dei club. Insomma, ce la mettiamo tutta e riceviamo critiche pesanti da gente che in gran parte sa poco o nulla del mondo Seven. Fa male perché noi ci teniamo un sacco”.
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Foto: Alfio Guarise – LPS