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Rugby Seven, perché l’Italia è rimasta indietro (anni luce) rispetto al resto del mondo: alle radici del problema

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L’epidemia di Covid-19 ha fatto tra le sue vittime i Giochi Olimpici di Tokyo 2020, spostati di un anno e che si disputeranno nell’estate del 2021. Una scelta che ha colpito tantissime discipline in Italia, rivoluzionando la preparazione degli atleti, obbligando campioni a dolorose scelte – se continuare fino alla prossima estate o dire addio adesso. Una scelta che, però, non riguarda il rugby italiano. L’Italseven, infatti, non si è qualificata per Tokyo 2020 e, a essere sinceri, non è mai stata in corsa per farlo.

Il rugby seven in Italia è anni luce indietro rispetto al resto del mondo e i motivi sono tanti. Quasi tutti ascrivibili al totale disinteresse mostrato negli anni dalla Federazione. Pochi raduni, mesi di inattività, fatica ad avere la disponibilità dei giocatori da parte delle società, il totale disinteresse mediatico e quasi un fastidio da parte degli organi federali nei confronti di una disciplina che è olimpica. E suonano veramente ironiche le parole dell’allora presidente federale Giancarlo Dondi all’indomani, nel 2009, della scelta di includere il rugby Seven tra le discipline olimpiche a partire da Rio 2016.

“Non posso che esprimere piena soddisfazione, come dirigente sportivo e come uomo di rugby, per il ritorno della nostra disciplina nel programma dei Giochi Olimpici estivi. La scelta del rugby Seven quale sport olimpico rappresenta una nuova dimostrazione dello sviluppo della palla ovale in tutto il mondodiceva Dondi, che concludeva con una promessa mai mantenuta. Come FIR, a partire da oggi, lavoreremo per migliorare in questa particolare specialità del rugby e farci trovare pronti per le Olimpiadi brasiliane”.

Da quel giorno sono passati 11 anni, i Giochi Olimpici di Rio si sono disputati, ma il rugby Seven in Italia è rimasto ben lontano dai vertici mondiali. L’Italia ha fallito il salto di qualità di entrare a far parte delle World Rugby Sevens Series, vegeta abitualmente nella metà classifica, spesso bassa, del torneo continentale di rugby a sette, mentre la programmazione federale ha sempre snobbato il rugby a sette. Il budget è ridotto all’osso, non ci sono stati investimenti per far crescere la nazionale, mentre a livello di club non si è mai lavorato veramente per la creazione di un campionato nazionale di Seven.

Nonostante le promesse che da quel 2009 si sono susseguite, anche sotto la gestione di Alfredo Gavazzi, il rugby Seven è rimasto, e rimane, il fratello povero (e un po’ scemo) del rugby azzurro. Come detto, il principale problema riguarda il fatto che il Seven – seppur simile e propedeutico al rugby a XV – è un altro sport. Eppure non si è mai lavorato per avere un gruppo di atleti specializzati in questa disciplina. Negli ultimi anni si è parlato di un’Accademia federale dedicata, è stata annunciata a più riprese, ma alla fine adducendo un’infinità di scuse non se ne è fatto nulla. Restando obbligati, dunque, a pescare interamente i giocatori d’interesse nazionale dai campionati di rugby a XV. E qui nasce il secondo problema.

Il palese disinteresse federale, aggiunto all’assenza di un incentivo economico (e di una garanzia assicurativa), ha portato da sempre la maggior parte dei club di Top 12 a boicottare l’Italseven. Convocare i migliori giocatori è per Andy Vilk, il ct della nazionale, quasi impossibile, con lo staff azzurro obbligato a scegliere gli atleti quasi con il metodo Cencelli, ringraziando i vari club se permettono di convocare un giocatore (magari scelto direttamente da loro, e spesso non tra i più forti) a raduno. Questo abbassa, ovviamente, il livello del gruppo azzurro e rende impossibile anche programmare con una certa costanza i raduni che servono, proprio perché il 7s è sport diverso dal XV, a dare quegli automatismi fondamentali per giocare ad alto livello.

Incentivi economici assenti anche per quel che riguarda gli azzurri. Per i convocati dell’Italseven, infatti, è prevista una semplice diaria di poche decine di euro e, oltretutto, neppure per ogni raduno, né per ogni giocatore convocato. Così, ça va sans dire, è capitato che alcuni giocatori di livello abbiano rinunciato alla convocazione perché il gioco non valeva la candela. Nel rugby il professionismo è un’utopia e nel top 12 molti giocatori devono alternare l’attività sportiva a quella lavorativa e di fronte a un rimborso spese irrisorio hanno dovuto rinunciare per non assentarsi dal lavoro senza il giusto ritorno economico.

Ancora peggio è andata alla nazionale italiana Seven femminile, che negli ultimi anni è stata letteralmente messa ai margini del movimento, con ragazze convocate praticamente senza raduni durante l’anno, senza investire su uno staff tecnico di livello per provare a crescere, questo nonostante in Italia nell’ultimo decennio il rugby rosa sia cresciuto tantissimo nel nostro Paese. L’unica notizia apparsa era quella di un’Accademia anche femminile, ma che come quello maschile è rimasto sulla carta e nulla più.

E questa è solo la punta dell’iceberg del fallimento italiano nel rugby a sette. E che deriva da un punto fondamentale che abbiamo già detto: il disinteresse della Federazione che in questi undici anni sembra non aver capito l’importanza mediatica ed economica di giocarsi seriamente l’accesso ai Giochi Olimpici, l’evento sportivo più importante al mondo. Per Tokyo, nonostante il rinvio, è già tardi e, onestamente, anche l’appuntamento di Parigi 2024 appare utopistico. Ma non c’è più tempo da perdere e, quando lo sport ripartirà e le federazioni dovranno fare i conti con i danni che l’emergenza Covid-19 ha lasciato, il rugby italiano non potrà più ignorare la sua disciplina olimpica.

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Foto: Luigi Mariani – LPS

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