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Adriano Vertemati, basket: “Vorrei portare a Treviglio in A2 con gli Under 23 l’idea italiana di Cremona. Bisogna incentivare chi crea giocatori”

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Si dice Treviglio, si legge Adriano Vertemati. Da dieci anni il coach milanese, classe 1981, è saldo sulla panchina della Blu Basket, dalla quale ha saputo lanciare tantissimi giocatori di livello approdati poi nelle Nazionali giovanili, in Serie A e con prospettive di Nazionale maggiore. Il suo lungo lavoro nella città a meno di 30 km da Bergamo gli è valso la stima di una larga fetta di addetti ai lavori e la chiamata per la panchina della Nazionale Under 20, che avrebbe dovuto guidare negli Europei di categoria a Klaipeda, in Lituania, prima della cancellazione per coronavirus. Abbiamo raggiunto coach Vertemati per un’intervista, in cui si sono toccati i punti legati alla stagione della sua squadra, ai giocatori passati per Treviglio e a un importante punto sullo sviluppo dei nostri portacolori.

È vero che c’è stata l’interruzione del campionato, ma vista la zona, forse neanche sarebbe corretto parlarne, visto che nella zona tra Bergamo e Treviglio si è vissuto qualcosa di molto più grande del puro stop dell’A2.

“Questo è sicuro, nel senso che l’aspetto sanitario ha preso da subito il sopravvento su qualsiasi altro tipo di pensiero, anche se chiaramente si sperava di poterne uscire prima. Se vogliamo parlare da questo punto di vista, l’interruzione è stata vissuta come inevitabile, e chiaramente poi ha portato anche in questa zona delle difficoltà non solo sanitarie”.

Peraltro a Treviglio c’era già stato un problema serio in estate: il tetto del PalaFacchetti scoperchiato da una bufera.

“Era una stagione nata sotto dei cattivi auspici anche da questo punto di vista. Siamo stati tre mesi senza palazzo”.

E chiunque abbia giocato o allenato sa quant’è grande la differenza tra il poter giocare nel proprio palazzo o in un altro.

“Più che altro non è tanto il giocare, che è la punta dell’iceberg, ma è la quotidianità che per tre mesi è stata molto complicata, perché siamo stati ospiti di alcune strutture in orari non consoni e comunque non comodi anche dal punto di vista logistico, oltre a non avere sempre il nostro pubblico totalmente a disposizione”.

Nonostante questo, la stagione stava andando bene, perché la squadra si stava confermando su livelli vicini a quelli della scorsa stagione (semifinale playoff contro Treviso, N.d.R.).

“Non si poteva sapere. Chiaramente ci mancavano due partite della stagione regolare, poi ci sarebbe stata quella ad orologio. Avremmo dovuto giocare contro l’ultima e la penultima, vincendole entrambe saremmo sicuramente entrati nelle prime quattro. Poi con i se e con i ma non si fa la storia”.

Si può dire che Treviglio sia diventata una sorta di modello?

“Non saprei, perché non so quanti l’abbiano copiato. Mi sento di dire che sono cose che possiamo fare solo a Treviglio, quindi davvero non so”.

Di sicuro, dopo 10 suoi anni alla guida di Treviglio, qualcosa di interessante si è creato.

“Quello sicuramente, infatti sono grato alla società”.

Com’è arrivata la chiamata della Nazionale Under 20?

“Con una telefonata (ride), nel senso che mi era stata chiesta una disponibilità eventuale a farlo da parte di un consigliere del presidente e poi è arrivata la chiamata di Andrea Capobianco, che mi chiedeva se fossi disponibile a farlo e chiaramente ho accettato con grande gioia. Purtroppo però l’esperienza si è conclusa in fretta, adesso mi auguro che si possa riproporre l’anno prossimo”.

Anche perché gli Europei li hanno cancellati per quest’anno.

“E l’anno prossimo li faranno con un’altra annata”.

Lei aveva già un’idea di chi avrebbe voluto portare?

“Avevamo in testa un listone di 16 giocatori, quello sì”.

La stagione scorsa è stata la più bella della storia di Treviglio, con l’esplosione di Andrea Pecchia e i due tiri decisivi di Lorenzo Caroti nei playoff.

“È stata una stagione incredibile per com’è nata, perché all’inizio dell’estate la società sembrava addirittura potesse subire un ridimensionamento forte. C’era stato un sondaggio di vendita del titolo, si era perso il main sponsor Remer, o almeno così sembrava in quel momento, io stesso mi ero guardato in giro perché comunque, essendo un lavoro, c’era preoccupazione, poi nel momento in cui si è deciso di andare avanti è stata la stagione in cui si è rinnovato, cambiando la coppia di giocatori-franchigia come Emanuele Rossi e Tommaso Marino. Una ripartenza particolare e netta rispetto al passato. Poi la costruzione della squadra, i problemi iniziali, la crescita e la cavalcata finale. È stata un’annata particolare, imprevedibile e forse irripetibile”.

A proposito di uomini-franchigia, è tornato anche Davide Reati.

“Il rientro di Davide si era concretizzato già l’anno scorso, chiaramente con un ruolo molto diverso. Quest’anno è partito sempre dalla panchina, ma con un ruolo molto più definito, più centrale dal punto di vista tecnico. Sicuramente è un giocatore nato e cresciuto a Treviglio che non può che essere un giocatore-franchigia, non c’è dubbio”.

Di solito i giocatori che vengono a Treviglio che tipo di obiettivo si pongono?

“L’obiettivo principale, che è un po’ la nostra carta d’identità, è quello di alzare il loro livello e di avere un’opportunità per calcare in questo periodo un palcoscenico di più alto prestigio. Molti lo vivono come la prima esperienza importante dopo il settore giovanile in un posto dove ti danno lo spazio e ti fanno lavorare, che sia fondamentale per poter fare il passo: penso a Diego Flaccadori, Matteo Tambone, ma ce ne sono tanti davvero anche in Serie A”.

Il bello è che è sempre una squadra giovane, ma che si batte sempre contro gente più esperta, con il fattore sorpresa che ne può derivare.

“Il fatto di avere questa forte identità spesso ti pone in un certo modo. Giocare da ‘sfavoriti’ è sempre un po’ più facile, ed è una cosa che ci è capitato spesso di fare. Il fatto di dire ‘noi contro di voi’, noi con le nostre caratteristiche, la nostra identità, contro di voi, cerchiamo di far vedere quanto abbiamo ragione noi: è una cosa che ci ha sempre contraddistinti. È uno spirito identitario che poi vai a proporre come spirito di squadra”.

E anche con un tipo di gioco che spesso e volentieri ha fatto piacere vedere perché particolarmente interessante.

“Avevamo spesso privilegiato un gioco di grande ritmo, anche se in realtà l’anno scorso eravamo una squadra che giocava bene anche a metà campo, ma chiaramente quando ci sono tanti giovani è più facile giocare una pallacanestro d’intensità, di alto ritmo, che generalmente poi il pubblico comprende e apprezza più facilmente”.

Nella Sua vita professionale ci sono stati due grandi maestri: Fabio Corbani e Jasmin Repesa, ai tempi di Treviso.

“Non c’è dubbio. Ne aggiungerei anche un terzo, che è quello con cui io ho cominciato, che è Massimo Meneguzzo, che è colui che mi ha dato la prima chance a Monza, alla Forti e Liberi, e poi certamente Fabio Corbani che mi ha portato a Treviso, per il quale ho lavorato, e poi Repesa con il quale ho avuto la mia prima ed unica esperienza in Serie A con un allenatore bravo come lui. Non c’è dubbio che poi ho avuto tanti altri riferimenti non lavorandoci insieme, ma colleghi con i quali mi confronto, con cui cerco di mettermi in discussione. Però come maestri sul campo non posso non citare loro tre”.

Nel 2018 Alessandro Gentile venne ad allenarsi a Treviglio. Quanto contò il vostro rapporto?

“Totalmente. Chiamò me per dirmi se gli potevo dare una mano in quel periodo là. Il fatto che ci conoscessimo e lo avessi allenato nelle giovanili fu determinante. Chiaramente poi la vicinanza di Treviglio con Milano, dove lui ha casa, ha aiutato”.

Da lì poi ha anche ricominciato a risalire di livello, perché in quelle stagioni aveva avuto tanti problemi.

“Io non vorrei ora parlare di un argomento di cui è giusto che parli lui, però dico che il problema più grosso per Alessandro sia stato l’infortunio alla mano, dal quale non è mai completamente uscito, nel senso che comunque uno non era andato a buon fine e quella mano lì è tornata lentamente all’efficienza di prima. Tutto il resto viene di conseguenza, perché poi il giocatore che era Alessandro anche a livello di tiro, fino a quell’incidente là, anche a Milano, anche in Eurolega, è un giocatore che assolutamente poteva pensare di fare qualcosa anche dall’altra parte”.

E infatti la meccanica di tiro l’ha cambiata.

“Per forza, è un problema anatomico”.

E non è l’unico: un esempio ai livelli inferiori è Matteo Frassineti, tiratore clamoroso.

“Anche lui è un giocatore che ho avuto l’anno scorso, che ha avuto un serio problema al gomito. È già una buona cosa che riesca ancora giocare. Sono tutte problematiche in cui si fatica a tornare quelli di prima”.

Dei tanti nomi di cui si è parlato in precedenza, qual è quello per il quale si sente più orgoglioso nell’averlo lanciato?

“Ognuno ha il suo perché. Sicuramente ci sono i giocatori che sono stati con noi dal settore giovanile, come Andrea Mezzanotte, altri che sono arrivati da fuori, come Andrea Pecchia, poi andati in Serie A, ma anche giocatori che ho rilanciato, come lo stesso Raphael Gaspardo. Non ce n’è uno più di un altro. L’ultimo è Pecchia, il prossimo sarà certamente Mattia Palumbo. Con ognuno c’è un perché, un rapporto e non mi va di indicarne uno più di un altro”.

Cosa è convinto che debba cambiare nel format di A2?

Questo è un argomento, non solo dell’A2, ma di tutti i campionati, del quale ci stiamo interessando in questo momento come allenatori. Ci sono dei tavoli di lavoro perché la nostra intenzione è quella di uscire con delle proposte da mettere sul tavolo di chi poi dovrà decidere. Per correttezza, dato che non abbiamo ancora stabilito una linea definitiva, non mi va di anticipare nulla, però noi allenatori vogliamo assolutamente fare una o più proposte concrete per il bene del movimento, approfittando di questa situazione, che chiaramente è tragica, ma che può essere anche considerata come un’opportunità per riscrivere le regole, la storia del movimento. Ne stiamo parlando, siamo stati in conferenza con un po’ di allenatori su questo argomento e appunto non abbiamo terminato di metter giù le linee guida di quella che sarà una proposta. Di sicuro qualcosa va riscritto”.

Anche perché, come detto, tutte le serie s’incrociano nel discorso.

Ma soprattutto il settore giovanile: quello che noi vorremmo assolutamente è trovare una via affinché torni ad essere conveniente investire su di esso, quindi creare e formare i giocatori. Da qui una ristrutturazione anche dei campionati, però ripeto, un’incentivazione da parte di chi questi giovani li costruisce, crea, e poi da parte di chi li fa giocare. Credo sia tutto collegato, la cosa dev’essere molto organica, ma anche fattibile, perché se no diventa un problema”.

Il che non va molto lontano da un’idea di Valerio Bianchini, che riteneva e ritiene come il campionato di A2 debba avere delle caratteristiche da campionato di sviluppo, perché non può essere la Serie A il campionato di sviluppo di certi americani, ma dovrebbe essere l’A2 quello degli italiani.

“Il punto è che la Serie A non può essere un campionato di sviluppo, ma deve avere una strutturazione in base alla quale chi non vuole giocare con più stranieri investa delle risorse sul piatto che poi tornino nel sistema e premino chi vuole creare giocatori e far giocare gli italiani. Poi, a cascata, un’A2 e una B riscritte con regole diverse possono essere campionati in cui certamente ci siano delle opportunità più concrete per giocatori che vanno soprattutto dalla fascia un po’ più debole (19-23 anni, dalla fine del settore giovanile a quando poi realmente, tolte le stelle, sono pronti per giocare), molti non hanno lo spazio adeguato”.

Il problema dei settori giovanili, poi, è ancora più grande, perché se magari a settembre ci sono ancora problemi di accesso agli impianti, come si agisce?

“Questo è un discorso che ci preoccupa dal punto di vista sociale più che sportivo. Questi giovani da marzo non possono metter piede in palestra e chissà cosa succederà a settembre. Non so proprio cosa rispondere. Mi auguro che la cosa si possa risolvere in qualche modo”.

Anche perché il problema è ancora più a monte: andando non solo ad analizzare il settore giovanile, ma il minibasket, ci sono testimonianze che raccontano di come adesso si debba far imparare non solo la pallacanestro, ma anche il puro fatto di muoversi.

“È una situazione drammatica dal punto di vista motorio. Questo è un discorso troppo vasto, a partire dalle scuole, per arrivare al fatto che comunque noi, come pallacanestro, abbiamo perso tantissimi ragazzini, perché se prima c’erano 2-3 sport, adesso ce ne sono mille, e ci sono anche tutte le attività che la tecnologia e la digitalizzazione del nostro mondo offrono a questi ragazzi, che spesso magari non fanno nemmeno attività sportiva. È chiaro che abbiamo una base motoria che peggiora ogni anno che passa”.

Quali potrebbero essere delle idee per rilanciare questo sport, per creare dei ricambi in un movimento che fa fatica?

“È quello che dicevamo prima: adesso stiamo approfittando per pensare a qualcosa che magari non l’anno prossimo, ma tra 7-8 anni, ci possa far tornare a dire ‘il movimento è di nuovo con un segno positivo di fianco’. Per ora è un lento declino, per mille motivi. La prima cosa, che interessa noi allenatori, è dare un contributo di idee affinché si torni a parlare seriamente di settori giovanili, si torni a parlare seriamente di produzione di giocatori. Questo è quello che possiamo fare. Poi io non posso fare il medico, l’economista. Tutto il resto non mi compete. Quello che noi possiamo fare è parlare di come si può incentivare l’attività di settore giovanile di un certo livello, non solamente quello di base”.

E fare in modo che si abbia il coraggio di rischiare nel far giocare un italiano qualche minuto di più invece di un americano, che magari viene a basso costo.

“Va detto che nessuno fa più niente per niente. Dev’essere conveniente, nel senso che devi avere un ritorno economico dal fatto che stai correndo un rischio su un ragazzo giovane, che lo stai mettendo in campo al posto di un altro. Ma ripeto: dev’essere un qualcosa che riparta dalla base affinché questa produzione sia aumentata, duplicata, nel senso che ce ne siano molti di più di questi giocatori in grado di poter stare in campo. Quindi torniamo all’incentivare la produzione di giocatori e i settori giovanili, che stanno un po’ dismettendo tutti”.

Gianmaria Vacirca di recente ha lanciato un’idea interessante per la sua Cremona, cioè di renderla simile a un Club Italia, una Sperimentale permanente.

Mi piacerebbe farlo anche a Treviglio in A2, magari con una Under 23. Se loro lo facessero in Serie A, dicendo ‘facciamo giocare solo italiani’, e noi invece lo facciamo in A2 facendo giocare solo italiani Under 23 sarebbe una cosa molto interessante”.

Un caso simile, ma diverso, che comunque esiste, è quello dell’High School Basket Lab in A2 femminile.

“Quella però è una squadra gestita da un tecnico federale. Cremona rimarrebbe la Vanoli, e lo farebbe di sua scelta, e idem noi in A2. Nel femminile c’è un contesto ancora diverso”.

Il discorso dell’Under 23 peraltro Treviglio lo sta già percorrendo, perché molti roster sono giovani.

“Sì. Onestamente la premialità per chi fa giocare i giovani è insufficiente in questo momento, dal mio punto di vista. Dovrebbero essere molto più alti i premi in denaro per giustificare più società a creare un percorso di questo tipo. In questo momento fare tutto questo casino per guadagnare 50.000 euro di premio under ne vale davvero la pena? Sì, servono sempre, ma se fossero per esempio 200.000 lo farebbero di più”.

In Serie A c’è il premio per l’utilizzo degli italiani, ma non c’è solo un problema di quanto utilizzarli, ma anche del come.

“Quello premia chi gli italiani li fa giocare, non chi li produce, che è già qualcosa. Differente rispetto a quel che vorrei dire io, cioè incentivare la produzione. Farli giocare è già qualcosa, ma non è tutto. Quest’anno la Federazione, tra A e A2, ha distribuito circa due milioni di euro di premialità, che non sono pochi, ma non bastano. Bisogna andare a vedere a chi sono andati questi soldi. I parametri per la loro distribuzione, secondo me, sono da rivedere”.

A proposito di soldi: il problema delle tassazioni federali sta esplodendo, letteralmente, a livello di serie minori.

“Non mi addentro in cose che non sono di mia competenza. Chiaramente tutti stanno perdendo soldi, e immagino che, ma in merito ho letto qualcosa, la Federazione andrà incontro alle società su alcune tasse. Io però non ho ben chiara la situazione”.

Il problema è soprattutto legato a quanti soldi entrano dagli sponsor, adesso, perché le aziende devono pensare soprattutto a loro stesse.

“Spero che lo Stato in qualche modo aiuti le società e che la Federazione faccia altrettanto. Più che defiscalizzare le sponsorizzazioni non mi viene in mente molto altro”.

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Credit: Ciamillo

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