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Ciclismo, Francesco Casagrande: “Bartoli e Pantani i migliori della mia epoca. Rimpiango il Giro del 2000, la squalifica del 2002 uno strazio”

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È una sorta di seconda vita quella che ha scoperto l’ex professionista Francesco Casagrande che, dopo quattordici stagioni di successi su strada, ha deciso di dedicarsi, da ormai più di dieci anni, alla MTB. Le ruote grasse gli hanno regalato tante altre soddisfazioni che, sommate alla sua precedente carriera fatta di grandi giri e classiche, fanno del campione toscano uno dei protagonisti assoluti del movimento su strada a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila. 

Casagrande, nato il 14 settembre del 1970 a Firenze, nella sua lunga carriera è riuscito a conquistare, su tutte, la Freccia Vallone nel 2000, in precedenza due edizioni della Clasica di San Sebastian (1998, 1999), il Tour de Suisse nel 1999 e la Tirreno-Adriatico nel 1996. Inoltre ha indossato la maglia azzurra in nove Mondiali e in due Olimpiadi (Atlanta 1996, Sidney 2000). Ha sfiorato anche la vittoria finale del Giro del 2000 quando, dopo dodici giorni in maglia rosa, venne battuto da Stefano Garzelli nella penultima tappa, la cronometro di Sestriere. Una beffa che gli costò il secondo gradino del podio finale di Milano dietro al campione varesino. Nel corso degli anni in sella alla MTB, invece, è riuscito a vincere quasi tutte le principali Gran Fondo della Toscana, tra cui: GF Monteriggioni, GF Montalcino, Casentino bike, Piazza a Piazza. Mentre nel 2017 ha vestito la maglia azzurra ai Mondiali Marathon di Singen, in Germania.

Come è nata l’idea di passare alla MTB?

“È nato un po’ per gioco quando ho smesso la mia carriera su strada. Dopo il 2005 ho fatto due anni e mezzo di inattività, poi a fine 2008 alcuni amici mi hanno convinto ad iniziare questa esperienza in MTB. Ho cominciato come amatore, poi negli ultimi quattro anni, vedendo che andavo bene, mi sono dedicato agli Élite. Dopodiché Mirko Celestino, da selezionatore tecnico, mi ha chiesto di passare in questa categoria e ho partecipato ai Campionati del Mondo in Germania nel 2017. Da lì è iniziato veramente tutto”.

È una vita completamente diversa dalla carriera su strada…

“Ovviamente non mi alleno come quando ero professionista. Sicuramente cambia come disciplina, perchè è molto più difficile fare MTB. I percorsi sono impegnativi, con discese tecniche e pericolose. Incide tanto il mezzo meccanico, sull’utilizzo di una MTB front o bi-ammorizzata. La bici fa molto”.

Lei ha vinto una Freccia Vallone, è arrivato secondo al Giro d’Italia del 2000… . Cosa le è mancato per vincere una Classica monumento o un grande giro?

“Sicuramente il Giro del 2000 l’ho perso più io che vinto Garzelli. L’ultima settimana iniziai ad avere problemi al nervo sciatico. Nei primi chilometri della cronometro di Sestriere avevo una gamba quasi anestetizzata, non avevo sensibilità, forza; e lì ho perso la maglia rosa. Per le Classiche monumento sono andato vicino diverse volte alla Liegi-Bastogne-Liegi con alcuni piazzamenti, però non sono mai riuscito a vincerla; come del resto il Mondiale, dove sono arrivato tra i primi per diverse edizioni”.

Qual è stata la vittoria più grande ma anche il rimpianto più grande della sua carriera? 

“La vittoria più grande è stata sicuramente la Freccia Vallone, ma anche le due San Sebastian. Il rimpianto ovviamente il Giro del 2000 che ho perso praticamente alla fine”.

Chi è stato il corridore più forte della sua epoca?

“Per le corse di un giorno Michele Bartoli, per le gare a tappe sicuramente Marco Pantani”.

Che ricordo ha di Pantani?

“Marco l’ho conosciuto praticamente quando avevo quattordici anni, quando eravamo Allievi, essendo coetanei. Dall’Emilia-Romagna veniva qui in Toscana e lo trovavo molto spesso sin da quei tempi. In salita andava già forte e ci scontravamo assieme già a quell’età”.

Perchè all’epoca gli italiani puntavano tutto sul Giro e poco sul Tour e la Vuelta?

“Secondo me a quei tempi il ciclismo italiano aveva molta più voce in capitolo a livello di importanza. L’80% del ciclismo mondiale era nel nostro Paese. Dopodiché il Tour è cresciuto allargandosi anche a livello europeo e mondiale”.

Vuole raccontarci della squalifica al Giro del 2002?

“Lì è stato un vero sgarro per me. Stavo facendo una volata al GPM con un corridore colombiano e, senza volerlo, finii sulla destra verso la transenna. Lui entrò dentro tra quest’ultima e me, così il suo pedale si agganciò alla mia ruota, che di conseguenza lo fece cadere a terra. È stata una cosa non voluta e per me è stato uno strazio, perchè ho abbandonato il Giro alla fine, quarto in classifica. Poteva essere l’anno buono. A quell’epoca le immagini televisive erano anche poche. È stato un casino. Ne sono uscito straziato, sapendo di aver fatto una cosa senza volerlo. È stato veramente brutto”.

Le dà fastidio che si dica che oggi il ciclismo è più pulito rispetto a vent’anni fa?

“Sicuramente i controlli medici si sono migliorati col tempo grazie alla tecnologia. Il ciclismo è diventato uno degli sport più controllati. Oggi giorno ci sono veramente dei controlli antidoping più sofisticati, quindi lo sport in generale è molto più sott’occhio. C’è anche il passaporto biologico. Secondo me ci ha guadagnato tutto il mondo, perchè alla fine il campione è sempre lo stesso”.

Come avrebbe vissuto, da corridore, questa quarantena che ha negato gli allenamenti fuori casa ai nostri atleti? 

“Ovviamente avrei cercato di mantenere un po’ la condizione tra rulli e allenamenti casalinghi, anche se in due mesi si perde la preparazione. Sarei stato nervosissimo, ma al contempo avrei cercato di mantenere la calma. Alla fine è un problema mondiale, bisogna mettersi l’anima in pace”.

Cosa ne pensa della gestione del nuovo calendario 2020 dell’UCI?

“Difficilmente si sarebbe potuto fare in maniera diversa da questa. Speriamo in bene; almeno per salvare questa stagione. Significherebbe la fine di questa pandemia. Per un corridore è difficile allenarsi senza avere un obiettivo”.

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lisa.guadagnini@oasport.it

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Foto: Lapresse

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