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George Floyd e lo sport USA (ma non solo) che si batte per la fine delle discriminazioni

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Era il 2016 quando Colin Kaepernick, già quarterback di grande fama nella NFL, la lega professionistica di football americano, decise che continuare a veder morire ammazzati, apparentemente senza motivo reale, neri colpevoli soltanto di essere tali, non gli stava più bene. Normalmente, durante l’esecuzione di “The Star Spangled Banner”, l’inno nazionale americano, sono tutti in piedi. Lui no. Lui decise di restare seduto, perché non sopportava che quello stesso Paese che lui rappresenta fosse anche quello in cui ancora il razzismo era così ampio. Alla terza partita fu notato. La foto fece il giro del mondo. Non gli fu rinnovato il contratto e non trovò praticamente più chances, ma intanto il messaggio era passato, forte e chiaro.

Del messaggio di Colin Kaepernick è tornato a parlare, e con ogni probabilità mai avrebbe voluto farlo, LeBron James, qualche giorno fa. La stella NBA dei Los Angeles Lakers, una volta saputo del brutale omicidio di George Floyd, non ha tardato a ricordare quel gesto al mondo. E l’ha fatto con una, semplicissima immagine:

 

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Do you understand NOW!!??!!?? Or is it still blurred to you?? ??‍♂️ #StayWoke?

Un post condiviso da LeBron James (@kingjames) in data:

Sugli altri social, poi, il cestista ha ricordato il tempo in cui vestiva la maglia “I can’t breathe“. Le stesse parole dette non solo da George Floyd prima della morte, ma anche da Eric Garner, sei anni prima: un destino terribilmente simile ad accomunarli.

Più di tutti, però, a dar voce alla drammatica vicenda è stato Stephen Jackson. Lui, che ha girato dieci franchigie NBA nella sua carriera, conosceva George Floyd meglio di tantissimi, essendo cresciuto insieme a lui. Su Instagram sono tantissimi i post che ha dedicato, non senza emozione, a quanto accaduto. Proprio a lui è toccato parlare in un raduno che si è tenuto a Minneapolis, la città che ormai è al centro dell’attenzione mediatica americana, con al fianco vari altri giocatori NBA, tra cui Karl-Anthony Towns e Josh Okogie. Steve Kerr, coach dei Golden State Warriors, non le ha mandate a dire, prendendo di mira Donald Trump e la sua reazione rispetto agli eventi. Le parole, in sintesi: “Nel 2017 chiamò i giocatori che si inginocchiavano figli di p*****a. L’altra sera ha definito i manifestanti di Minneapolis ‘thugs’. Questa è la ragione per cui ai razzisti non dovrebbe essere concesso di diventare presidenti”.

Ma le reazioni si sono allargate a macchia d’olio: Jaylen Brown, dei Boston Celtics, ha guidato per 15 ore per poter raggiungere un corteo pacifico ad Atlanta, Dwane Casey, coach dei Detroit Pistons, ha reso pubblica sul sito della franchigia una lettera ricca di spunti. La leggenda NBA Magic Johnson: “Quante volte dovremo ancora vedere uomini neri uccisi sulla tv nazionale?“, ed è un pensiero al quale in molti si associano. Anche fuori dagli USA (Giannis Antetokounmpo, che in NBA gioca, ma è greco) e fuori dal basket. La giovane tennista Coco Gauff ha allegato a un video su Twitter le parole: “Sono io la prossima?“, mentre anche la calciatrice Alex Morgan non ha lesinato parole dure. Ugualmente, la stella NFL J.J. Watt ha espresso il proprio disgusto, al pari di una buona fetta del mondo della MLB.

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federico.rossini@oasport.it

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Foto: LaPresse

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