Basket
Giovanni Pini, basket: “Volevamo dimostrare che la Virtus Roma non era da ultimo posto come dicevano. In futuro vorrei allenare i ragazzi”
Capitano della Virtus Roma per una partita dopo lo sbarco di Jerome Dyson alla Fortitudo Bologna, Giovanni Pini si è catapultato nell’avventura capitolina senza risparmiarsi. Entrato nel ruolo di cambio di Davon Jefferson, ha confermato le qualità che lo hanno contraddistinto sempre: attenzione, energia e impegno, cose già conosciute dai tifosi di Reggio Emilia, Avellino, Fortitudo Bologna e Verona. Abbiamo raggiunto il ventisettenne centro di Carpi per un’intervista nella quale ha ripercorso la sua carriera e svelato alcune sue intenzioni future, oltre che la sua concezione di squadra e un mai sopito desiderio di ritornare a giocare in Nazionale.
Com’è nata la trattativa per arrivare a Roma?
“È nata nel modo più classico, attraverso il primo contatto che arrivò tra il mio agente e il direttore sportivo della Virtus, Valerio Spinelli. Eravamo più o meno nella prima metà di luglio. In quel periodo lì cercavo di capire a Bologna cosa sarebbe potuto succedere, quindi ho lasciato per un attimo la trattativa in stand-by. Quando, successivamente, ho iniziato a capire che la Fortitudo girava su una rotazione a tre lunghi con due americani e Stefano Mancinelli, mi sono iniziato a guardare intorno e lì è stata fondamentale la chiamata che ho avuto con Piero Bucchi. Mi ha illustrato a 360 gradi quello che era giocare per la Virtus, vivere a Roma, poi tutto quello che riguardava l’idea di gioco, lo stare in campo, il ruolo della squadra, gli obiettivi e quant’altro. Da lì è stato abbastanza automatico, perché mi sono trovato molto in linea con la sua idea di pallacanestro, mi sono trovato molto bene a livello umano e quindi venire a giocare in una società importante come è la Virtus, in un anno importante come quello del ritorno in Serie A, mi gasava e mi dava anche l’idea di mettermi in gioco. Quindi ho accettato abbastanza rapidamente e facilmente”.
Avevi un ruolo, peraltro, diverso da quello che potevi avere a Reggio Emilia negli anni dell’Eurochallenge e della finale scudetto e ad Avellino quando arrivò la semifinale.
“Sicuramente il livello era comunque alto. Quando giochi in una squadra che punta a vincere come, per fortuna, mi è capitato perché sono state esperienze importanti (sia a Reggio Emilia che ad Avellino sono passati grandi campioni), ti fa imparare tanto. È chiaro che dopo anni di gavetta e di scuola, se così si può dire, ci si vuole mettere alla prova e provare a prendersi delle responsabilità in prima persona. A Roma mi hanno dato quest’occasione, quindi sì, le responsabilità non mi hanno mai spaventato. Anzi, mi sono sempre messo in prima persona per assumermele. Roma mi ha dato la possibilità di mettermi in gioco”.
Quest’annata è stata già strana sul campo, poi lo è diventata ancor di più sia per l’interruzione che per la partita con Sassari a PalaEur vuoto.
“Nessuna stagione comincia come prevede il piano iniziale. Noi ci siamo trovati molto presto quest’anno con il presidente Toti, gli italiani e un paio di americani, uno dei quali, Skyler Flatten, lo abbiamo cambiato al terzo giorno. Già lì c’è stato un po’ di scombussolamento, perché siamo passati dall’avere un rookie di gran talento, sulla carta, a un giocatore con più esperienza e di valore in quel momento più alto come William Buford. In quel momento abbiamo cambiato anche il bilanciamento e il modo di stare in campo. Da quel momento abbiamo avuto qualche problemino fisico, qualcuno si è portato avanti degli acciacchi, ma penso sia così in tutte le società. Nella prima parte di campionato abbiamo avuto quella forza mentale di voler dimostrare a tutti che non eravamo la Roma che tutti davano, nei power ranking, all’ultimo posto. Sicuramente la seconda metà del campionato ci ha visti un po’ stanchi sia dal punto di vista fisico che mentale. Siamo stati anche un po’ sfortunati perché in alcune partite siamo andati a un pelo dalla vittoria. Purtroppo capita nello sport, quindi non ci siamo riusciti a conquistare qualche punticino che ci avrebbe dato molta energia dal punto di vista mentale. Vedi Venezia, una partita un po’ sfortunata e particolare sia per il momento che per il valore: entrambe le squadre cercavano la qualificazione alla Coppa Italia. Andare a Venezia con la Reyer che deve vincere per forza per arrivare alle Final Eight è diverso rispetto all’andare a Venezia in condizioni normali. Non c’è dubbio che una competizione così importante crei molta più tensione. Il tutto fino ad arrivare all’ultima partita, che è stata una delle più strane della mia carriera. Noi, con le voci che giravano negli spogliatoi, nei minuti prima, neanche nelle ore, ma nei minuti prima della partita, ci eravamo un po’ deconcentrati e il tutto non ci aveva permesso di fare il prepartita classico, che serve a noi giocatori per arrivare pronti alla palla a due. Poi il palazzo vuoto influenza negativamente la squadra di casa, o quantomeno favorisce quella ospite. Anche lì ce la siamo giocata fino agli ultimi due minuti contro una squadra sulla carta molto più forte di noi, soffrendo fino alla fine, e anche lì abbiamo avuto un po’ di sfortuna sia perché non c’era il pubblico, sia perché non abbiamo una preparazione adeguata, sia perché anche lì è una questione di una o due azioni. Purtroppo abbiamo avuto anche problemi di falli ed è un’altra partita come quelle con Venezia, Brindisi e Pistoia in cui, un po’ per sfortuna o per altri fattori, non siamo riusciti a vincere”.
Quello che si è saputo dopo la partita, dell’ingresso in campo, è che c’era paura di un contagio in spogliatoio, e infatti siete entrati in campo a 11 minuti dall’inizio, quando avete ricevuto assicurazioni.
“Io me lo ricordo in prima persona perché eravamo i capitani, io e Devecchi, gli allenatori, i dirigenti, abbiamo parlato a lungo prima della partita. Ognuno aveva la propria versione, ma non perché qualcuno voleva che si giocasse a tutti i costi e qualcuno no, ma perché, non avendo notizie ufficiali, ognuno cercava di reperire informazioni per conoscenze alternative. La nostra difficoltà è stata proprio che delle notizie ufficiali di cui dicevo non c’erano: l’organo preposto per dare il via alle partite non ha inviato nessun tipo di comunicazione. In un momento così, magari uno poteva avere problemi o paure per qualsiasi tipo di contagio, e ovviamente è qualcosa di molto particolare e strano, che ovviamente porta la tensione del match in secondo piano rispetto alla salute dei giocatori, o dei parenti, che è la cosa più importante”.
In questa stagione, contro Pesaro, sei riuscito a realizzare la tua prima doppia doppia in Serie A: 10 punti e 10 rimbalzi. Sei stato il quarto italiano della stagione a farlo, e i primi tre si chiamavano Awudu Abass, Pietro Aradori e Alessandro Gentile.
“Bella soddisfazione! Era una partita che per noi contava tantissimo. Mandavamo un messaggio prima di tutto a noi stessi, poi a Pesaro e anche alle altre concorrenti nella lotta per la salvezza. Sono contento anche di quel dato personale, io sinceramente nemmeno me n’ero accorto. Non sono un amante delle statistiche individuali rispetto a quelle di squadra, però finire al fianco di questi giocatori italiani di sicuro fa piacere”.
Hai toccato un punto delicato, quello del gioco individuale rispetto a quello di squadra.
“Secondo me bisogna essere bravi a riuscire a mischiare il fatto di vedere la partita con delle impressioni oggettive e mettere le statistiche in questo contesto. Non basta guardare solo le statistiche o solo la partita, bisogna avere una via di mezzo perché il momento della partita o determinate situazioni con certi quintetti non vengono rilevati dalle statistiche. Quindi bisogna essere bravi a interagirci, non semplicemente a leggerle o riportarle”.
Hai accennato al fatto che quella partita a Sassari è stata la tua prima e anche unica da capitano.
“Infatti ho ricevuto dai miei amici più cari un sacco di sfottò perché dicevano ‘ma guarda te, una volta che diventi capitano guarda che bordello che succede’ (ride). Sembrava un boicottaggio! Ovviamente si scherza. È un ruolo che non ho mai avuto da professionista, però mi sentivo un po’ in quella posizione, perché ero l’italiano che aveva fatto più esperienza in squadre importanti, quindi l’ho fatto volentieri, e c’erano anche americani con poca esperienza, come Mike Moore, che era uno di quelli che ho apprezzato molto perché è stato il primo americano a presentarsi e a lavorare sul campo di atletica. Anche lui aveva bisogno di un aiuto, non aveva mai giocato a questi livelli e mi sentivo non dico un veterano, ma uno di quelli che aveva più presenze in Serie A e che poteva dire la sua per aiutare la squadra”.
E Moore è stato uno di quelli che tutti cercavano di aiutare, in qualche modo, Bucchi compreso.
“Lui è un ragazzo d’oro, che a tutti gli allenamenti si fermava per lavorare di più, capire cosa migliorare, colmare le mancanze in fatto di esperienza. Però un conto è colmare un vuoto tecnico, e lo fai con l’abitudine e con il lavoro. Se uno ti chiede però di imparare certe dinamiche in un mese di preparazione purtroppo è quasi impossibile. Sia Piero che Daniele Michelutti si sono impegnati tantissimo per cercare di tranquillizzarlo, metterlo a suo agio, anche perché è un ragazzo molto disponibile, notava la sua difficoltà e cercava di metterci più impegno possibile. Però, come ripeto, cercare di assorbire così tante informazioni in poco tempo è praticamente impossibile”.
Tu, che pure hai la Fortitudo nel cuore, hai vissuto la parte più importante della tua carriera a Reggio Emilia.
“È un gran peso tutto quello che è stato il mio percorso giovanile, perché mi rendo conto che far parte di una società come Reggio Emilia per tanto tempo ti permette di arrivare, com’è successo a me, di arrivare alla soglia del professionismo con una super base di capacità sia tecniche che tattiche. Io sono uscito dalle giovanili sapendo già tutti i tipi di zona, pressing, attacchi. Ti fanno uscire dal settore giovanile pronto per entrare tra i professionisti. Giocando con tanti ragazzi ho notato che questa non è una cosa scontata. Apprezzo molto il lavoro che è stato fatto con me durante tutti quegli anni, ed è indubbia la bravura di Reggio Emilia nel programmare e riuscire a lanciare questi ragazzi. Penso che tra A, A2 e B ci siano tantissimi ragazzi usciti dal vivaio di Reggio”.
Stai sollevando un problema che non è soltanto di far giocare gli italiani, ma anche di preparazione a monte.
“Secondo me ci si pensa sempre troppo poco al fatto che i ragazzi che crescono dal settore giovanile non debbano soltanto saltare, correre, difendere o tirare. Un giocatore dev’essere in grado di leggere le situazioni, capire il momento della partita, saper stare in palestra, saper stare con ragazzi più grandi una volta uscito dalle giovanili, con un sistema diverso. Se si vogliono formare dei professionisti veri questi non sono aspetti secondari”.
Nella tua prima stagione a Reggio Emilia, nell’allora LegaDue, la squadra è stata veramente a un niente dalla B.
“È stato un anno veramente paradossale. Devo dire che Reggio ha avuto il coraggio, a un mese dalla quasi retrocessione, di tagliare un paio di giocatori americani che sembravano un po’ svogliati e di buttare dentro ragazzi italiani come me e uno più piccolo durante questo momento difficile di partite con la tensione al massimo. Per Reggio Emilia perdere la categoria sarebbe stato un disastro a livello cittadino. Va dato atto a coach Fabrizio Frates il coraggio e l’occasione di fare qualcosa di utile per tutta la città e la società”.
Poi, a proposito di come cambia il mondo in un attimo, un anno dopo Reggio Emilia è tornata in Serie A.
“Infatti è una storia veramente bellissima, perché quel blocco di italiani è stato confermato per la stagione successiva, fu fatto un mercato intelligente, furono presi degli americani buoni, ma non eccezionali, che hanno reso al massimo e molto bene, hanno messo insieme 2-3 veterani e gli altri erano giovani. Fu veramente un percorso unico”.
Fortitudo: amore e complicanze, nel senso che prima c’è stata l’esperienza della Biancoblu, in un momento che definire caldo era forse riduttivo, e poi le due annate che hanno portato alla promozione.
“Dopo aver vinto il campionato con Reggio Emilia cercavo una situazione in cui potessi giocare tanto in A2. Avevo trovato un accordo con Jesi, al tempo, solo che poi le società non riuscirono a mettersi d’accordo e saltò quel trasferimento. Proprio agli ultimi giorni di mercato riuscii a firmare per la Biancoblu. Era una società che un imprenditore di Bologna ricreò per cercare di rifondare la Fortitudo. Questa cosa i tifosi non la presero benissimo, infatti noi giocavamo a Bologna, giocavamo al PalaDozza, avevamo l’Aquila, ma non era la Fortitudo, e i tifosi avevano creato un’altra società che si chiamava Eagles che giocava in B. Poi sono tornato a Reggio per il primo anno di A e sono stato due anni lì prima di iniziare a girare”.
Un girare in cui sei andato anche ad Avellino, che aveva davvero tanto talento in quegli anni.
“Ricordo che Pino Sacripanti mi chiamò abbastanza presto. A Reggio Emilia perdemmo gara7 di finale scudetto il 26 giugno e poco dopo mi chiamò il coach che mi voleva ad Avellino. La Scandone però non era messa benissimo a livello organizzativo, e infatti cominciammo la stagione, il ritiro, 10 giorni dopo le altre squadre. La squadra è stata mezza rifondata dopo un brutto inizio di stagione, però da quando sistemarono il posto di play, in cui presero Joe Ragland, da quel momento la squadra veramente cambiò marcia”.
Ragland che è il tipo di giocatore se non è lì dall’inizio le cose te le cambia in corsa.
“Quest’anno a Cantù si è visto, ma ha avuto un impatto molto minore di quando è arrivato ad Avellino. Ha preso in mano la squadra, che lo ha assecondato in tutto e per tutto. Non è facile da gestire, ma è un talento nel giocare a pallacanestro. Lui ci ha messo il suo massimo impegno, noi abbiamo fatto altrettanto e siamo arrivati a una gara7 contro Reggio Emilia, di nuovo, in semifinale, e per un pelo non ce l’abbiamo fatta”.
È stato il momento in cui Avellino è arrivata più vicina che mai a raggiungere la finale scudetto.
“Sì, e dopo anche aver perso la finale di Coppa Italia al Forum contro Milano, in cui fummo avanti per 33-34 minuti, poi Milano, che quell’anno era fortissima, ci ha superati e non abbiamo avuto la forza di tenerla, altrimenti si poteva parlare di una finale di Coppa Italia di successo”.
Poi sei passato da Sacripanti a Dalmonte, da Avellino a Verona.
“L’idea iniziale mi piaceva molto, avevo molto desiderio di vincere il campionato, di fare un percorso di più anni con l’obiettivo di tornare in Serie A. Purtroppo la squadra non era amalgamata così bene, i giocatori andavano un po’ per i fatti loro. Fu un anno di dispiacere per quello, perché il potenziale era alto, ma poi non si è mai riusciti a creare qualcosa di veramente forte, anche se poi abbiamo passato il primo turno di playoff, ma se si ripensa alla stagione in generale non è stata la più brillante”.
L’anno scorso la Fortitudo aveva costruito una squadra di livello superiore per l’A2 e coach Antimo Martino è stato veramente bravo a gestire la situazione, cosa che non era scontata.
“Infatti quando parlo di Martino dico che è stato molto bravo a dare la giusta libertà ai giocatori più importanti di quella squadra. Si dava una carta bianca gestita a Kenny Hasbrouck, o a Matteo Fantinelli, o a Maarty Leunen, o a Guido Rosselli, o a Mancinelli. È giusto che con la loro esperienza il gioco lo gestissero un po’ in diretta, senza stare molto dentro degli schemi, ma in base alle letture, e quando giochi con quelle da un lato è difficile perché bisogna essere tutti molto bravi, ma dall’altro non è scoutizzabile, è difficile mettere questo nelle strategie. Quando si dice che è stato un anno perfetto, è per quello: grandissimi giocatori, grandissime persone, non abbiamo mai avuto grossi problemi fisici a parte il Mancio, che però si è un po’ gestito. Martino è stato aiutato da tutti questi fattori e da noi giocatori”.
E durante la stagione è arrivato Carlos Delfino, in uscita da Torino e comunque quasi arrivato da un altro mondo.
“Quando Daniele Cinciarini e Giacomo Sgorbati si fecero male, in quel ruolo lì c’erano due mancanze per l’ultimo mese, stavamo dando tutto per chiudere il prima possibile e non perdere punti di vantaggio. Si parlava di un rimpiazzo, di un giocatore che veniva a darci una mano. Quando è arrivato Delfino, parliamo di un giocatore che con la categoria non c’entra assolutamente niente. Giocò la prima volta in Coppa Italia e ricordo che questo era un giocatore che era stato in NBA nove anni, quindi ho pensato che non mi avrebbe guardato, avrebbe fatto quello che gli pareva, i suoi allenamenti senza particolare impegno. Invece è un professionista incredibile, ha imparato tutti i nostri giochi in neanche una settimana, un playbook che noi ci abbiamo messo mesi a costruire. A tutti gli allenamenti arrivava puntualissimo, un professionista veramente esemplare”.
Il che ricollega al fatto che quei giocatori che arrivano al punto in cui è arrivato lui hanno qualcosa di non comune.
“Sono figure dello sport da cui soprattutto chi ci si trova a stretto contatto cerca di imparare, di fare come i veri e propri campioni”.
Quali sono le differenze tra i posti nei quali ti sei trovato?
“Ogni posto è unico, ci sono cose che si fanno in modo diverso, ci sono società e organizzazioni che danno più importanza ad alcune cose rispetto ad altre. Anche Roma ha le sue peculiarità come il valore intrinseco del fatto di giocare nella città più bella del mondo e in una società con della storia. Ci son passati dei giocatori come Dejan Bodiroga, che io guardavo quand’ero piccolino, e adesso gioco con la sua stessa ultima maglia. In ogni posto ci sono delle motivazioni a livello emozionale che scaturiscono da ogni posto. Dovendo parlare di lati positivi e negativi staremmo qua fino a notte, però per dire, a Bologna il fatto che la Fortitudo non sia una società, ma sia di proprietà del pubblico è qualcosa di unico. La Fortitudo la vivi dal lunedì alla domenica, e non solo il giorno della partita. Era il sostegno incredibile era ogni giorno, ogni volta che uscivo a far la spesa in qualsiasi momento della giornata, e ancor di più quando si perdeva. La cosa incredibile che mi è rimasta è quella: il primo anno, in cui abbiamo perso parecchie partite con scarti importanti, uno si aspetta che dal tifo come quello della Fortitudo ti arrivino critiche e messaggi non piacevoli, e invece qui da parte della Fossa dei Leoni non è mai arrivata una critica, una lamentela, ma solo una richiesta di lottare, di combattere. Questa è una cosa che mi ha impressionato molto. L’ho sempre saputa, ma poterla vivere ti da una chiave di lettura diversa”.
Tu sei anche noto per essere un personaggio con simpatia spiccata fuori dal campo. Per esempio, ogni volta che la Virtus organizzava le domande dei tifosi ai giocatori compariva un tuo messaggio.
“Quello è anche un modo per fare spogliatoio. Ci sono molte storie di giocatori, di grandi professionisti che arrivano al campo, si allenano da Dio, fanno di tutto per la squadra e poi vanno a casa. Io faccio un po’ fatica a scindere le due cose, mi piace passare del tempo con i miei compagni di squadra, creare dei legami, perché penso che faccia parte del bello di questo lavoro, e penso che possa aiutare, oltre che il successo della squadra, anche il fatto che ci siano molte persone che hanno la famiglia a migliaia di chilometri e in quegli 8-9 mesi la famiglia sia la squadra, quindi è pure divertente, dopo tante fatiche, tanto lavoro, il momento di scherzare e di ridere è fondamentale”.
Inoltre, tu cerchi anche di stabilire un punto di contatto, un feeling con gli allenatori, a prescindere da chi sia stato più o meno importante.
“Io spero in un futuro di diventare allenatore. La mia idea è di diventarlo soprattutto per i ragazzi, perché mi piace di più insegnare che gestire, rispetto a quel che fanno adesso tanti allenatori. Quindi mi piace conoscere la filosofia degli allenatori, capire il loro punto di vista. Noi giocatori abbiamo il futuro nelle nostre mani. Se vado in campo, gioco bene, sono a posto, gioco male, mi prendo le conseguenze. Un allenatore ha anche la sfortuna, per quanto possa giocarsi bene la partita, di doversi affidare ai suoi giocatori. È una cosa che mi ha sempre incuriosito, come puoi dare il tuo lavoro, le tue speranze in mano a delle altre persone, degli altri professionisti, che magari non capiscono bene il tuo punto di vista o il tuo obiettivo o il tuo target finale. Anche questo fa parte del convivere in palestra. Conoscere bene anche gli allenatori e tutti quelli che girano intorno alla squadra può solo creare un ambiente più armonioso, più leggero, più sereno. Altrimenti la pressione tende non dico a demoralizzarti, ma a intristirti. Invece bisogna tenere il morale sempre alto, perché alla fine facciamo uno sport bellissimo e siamo comunque dei privilegiati, bisogna ricordarselo”.
Hai ancora voglia di prenderti la maglia della Nazionale?
“Una volta l’ho sfiorata. Fui convocato da Simone Pianigiani per un All Star Game ed ero carichissimo e contentissimo. Nella partita precedente la pausa, giocai con Reggio Emilia contro Roma, che al tempo aveva Trevor Mbakwe, ed era uno dei giocatori più forti del campionato. Ero talmente carico e contento dell’esperienza che avrei fatto dopo che giocai da Dio e lo difesi molto bene. Uscii dal campo soddisfatto perché vincemmo noi e difesi molto bene un giocatore che aveva statistiche incredibili. Quel giorno lì, invece, non riuscì a fare più di tanto. Sfortunatamente, però, mi presi una piccola storta alla caviglia, andai al ritiro dell’All Star Game, ma non giocai per questo problema. Ho avuto la convocazione, però non ho avuto la soddisfazione di indossare la maglia”.
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federico.rossini@oasport.it
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Credit: Ciamillo