Basket
Giulia Rulli, basket femminile: “Per il professionismo servono garanzie economiche. Noi donne meritiamo palcoscenici importanti”
Romana, con una lunghissima esperienza alle spalle soprattutto in Serie A2, quest’anno Giulia Rulli, a Costa Masnaga, ha trovato il momento giusto per effettuare la prima vera esperienza in Serie A, dopo le annate con poco spazio a Faenza e a Cagliari. Nel contempo, si è ritagliata un ruolo di primissimo piano nel 3×3, diventando parte del quartetto che ha dato all’Italia un titolo mondiale storico, nel 2018 a Manila. Della stagione, dell’azzurro, di Olimpiadi e di altre considerazioni la giocatrice ci ha parlato in questa intervista, che tocca anche punti piuttosto interessanti.
Come hai vissuto l’interruzione e cosa pensi della stagione?
“Sulla stagione in corso ormai terminata devo dire che all’inizio del campionato abbiamo avuto qualche difficoltà di adattamento. Questo era un tipo di rischio calcolato, che avevano messo in conto sia lo staff che la società, perché eravamo una squadra quasi completamente nuova, avendo inserito tre straniere anche loro nuove. Certo, l’ossatura di giovani più me e Baldelli è rimasta la stessa, ma sappiamo che in un campionato di questo tipo, di Serie A1, le straniere fanno molto, spostano quasi il 50% della squadra, quindi ne abbiamo dovute inserire tre nuove e soprattutto ci siamo dovute adattare all’impatto della Serie A1 che è differente rispetto a quello di A2. È più fisico, ma anche molto più tecnico e tattico. Sicuramente il salto di categoria si è fatto sentire. Poi ci siamo adattate sia ai ritmi che alla fisicità, abbiamo lavorato duramente e quindi abbiamo iniziato a raccogliere i frutti di questo lavoro, tant’è che alla fine eravamo undicesime in classifica, che però al di là dei primi 3-4 posti, che erano di un’altra categoria, era a 2-4 punti. Per dire, eravamo undicesime e a rischio playout, ma a due punti da Palermo decima e a quattro dai playoff, con degli scontri diretti ancora da giocare. Era tutto ancora assolutamente in ballo. Dispiace per quest’interruzione, perché ovviamente stavamo raccogliendo questi frutti ed eravamo in fiducia, nonostante l’ultima partita giocata sia stata quella con Ragusa (che però ha ben altri obiettivi rispetto ai nostri) e quindi iniziava ad arrivare la fase più viva della stagione, quella delle ultime partite del girone di ritorno”.
Fra l’altro la partita con Ragusa è stata giocata a porte chiuse, e non dev’essere stato bello.
“Siamo state una delle ultime squadre a giocare, e a porte chiuse. Dovevamo giocare un’infrasettimanale e fino all’ultimo non si è capito se Ragusa sarebbe riuscita a partire o se sarebbe voluta venire in Lombardia, perché iniziavano a esserci i casi (erano i giorni, a febbraio, in cui c’era stato il focolaio di Lodi, quindi era una situazione un po’ complessa). Giocare senza il nostro pubblico, che ci ha sempre contraddistinto, ci ha sempre aiutato, caricato in tutti questi anni, dalla finale di Coppa Italia di A2 alla finale per salire in A1 contro l’Alpo di Villafranca di Verona, è stato un po’ strano. Era quasi un clima di allenamento, ma neanche, perché in partita c’è tensione, c’è concentrazione, quindi c’è anche meno “rumore” di un allenamento, in cui magari c’è l’allenatore che urla di più, c’è un momento di pausa, uno di chiacchiera con le compagne. Era proprio un clima surreale. E spero che non torneremo a giocare in un’atmosfera del genere a ottobre perché si toglie veramente tanto a questo sport, però poi dovremo vedere come si evolverà la situazione”.
Scorrendo i risultati di Costa Masnaga, ci si accorge che le vittorie non sono state così tante (sei), però sono state quelle “giuste”, con le squadre in lotta per la salvezza.
“Sulle partite che contano ci siamo sempre fatte trovare pronte. Nel girone d’andata abbiamo pagato un po’ lo scotto dell’inesperienza e del primo impatto nella partita con Vigarano persa alla prima di campionato, che avevamo condotto per lunghi tratti e poi, nell’ultimo quarto, ci son scappate via e hanno vinto loro. E anche con Torino all’andata avevamo perso. Al ritorno, invece, abbiamo vinto sia con Vigarano che con Torino, quindi siamo anche riuscite ad andare sopra a queste due avversarie dirette. Con Bologna abbiamo vinto sia all’andata che al ritorno, al PalaDozza che è un campo molto bello, molto caratteristico, è il tempio del basket e penso sia il sogno di chiunque giocarci. È stata una partita avvincente fino all’ultimo minuto, e poi siamo riuscite a vincere anche al ritorno da noi. Le partite che contano le avevamo vinte. Adesso avremmo dovuto giocare il ritorno, ad aprile, contro Palermo in trasferta. Avevamo perso in casa, ma anche quella sarebbe stata una partita chiave perché era due punti sopra, quindi anche quello sarebbe stato un bello scontro diretto”.
Molte partite di Costa Masnaga, poi, erano già state rinviate, a partire da quella col Geas ed Empoli.
“Quelle erano state spostate perché avrei dovuto fare il Preolimpico 3×3, quindi quella di Ragusa era stata anticipata infrasettimanalmente, quella con Empoli era stata spostata perché rientrava in quei giorni, quindi già c’erano stati un po’ di cambi. Poi, invece, non essendoci più il Preolimpico, si era riportata Empoli alla domenica, ma, con tutto quello che è successo, noi abbiamo saputo la sera prima di quella partita, di sabato, che non saremmo potute partire il giorno dopo. Ci siamo allenate fino al sabato sera, poi ce l’hanno comunicato”.
A proposito di rinvii, tu hai parlato del Preolimpico. Lì il rinvio è stato dovuto anche non tanto al coronavirus in quanto tale, ma a un motivo collegato: Italia, Giappone e Sri Lanka avevano il problema del blocco dei voli verso l’India.
“Esatto. Quando si è sollevata questa problematica del coronavirus non era tanto la pandemia globale il problema, perché ancora non eravamo a quel punto, quanto il fatto che c’era un problema di ingresso nel Paese ospitante, l’India. Sia noi che il Giappone che lo Sri Lanka avevamo iniziato ad avere i primi casi, e quindi il governo indiano, per farci entrare nel Paese, voleva farci fare due settimane di quarantena lì. Ovviamente, però, non era una cosa possibile, perché questo significava che avremmo dovuto fare il visto già settimane prima per arrivare due settimane prima rispetto a quanto preventivato, e quindi non saremmo rientrate con i tempi per il visto. In più, fare due settimane di quarantena, in India, e poi pensare il giorno dopo di andare a giocare una manifestazione del genere è una follia, perché non è che se stai in quarantena puoi allenarti o fare chissà cosa. Era una situazione molto complessa, e la FIBA ha deciso, in maniera molto ragionevole, secondo me, di rimandare tutto. In realtà ha preso questa decisione pochi giorni dopo che erano scoppiati i focolai in Italia, però poi ci sono stati quelli nelle altre nazioni, vedi la Spagna, vedi la Francia, vedi la Germania, che hanno avuto lo stesso problema. Quindi sono stati rinviati sia il Preolimpico che avremmo dovuto giocare a Bangalore sia quello di Budapest che si sarebbe dovuto svolgere dal 24 aprile, quindi un mese dopo. Quindi da lì è slittato tutto”.
Preolimpico di Budapest che, peraltro, avrebbe potuto anche non servire all’Italia.
“Sì, poteva anche non servire. Alla fine noi, con i tornei che abbiamo fatto quest’estate, con le Women’s Series, che erano quelli che abbiamo giocato per più di due mesi, ci siamo guadagnate una posizione nel ranking mondiale tale da poter avere l’accesso a tutti e due i Preolimpici. Forte del fatto anche che i Paesi che rientravano nel secondo Preolimpico, quello di Budapest, non dovevano aver fatto le Olimpiadi nelle ultime due edizioni con la pallacanestro 5 contro 5. Sappiamo che l’Italia non va alle Olimpiadi da Atene 2004, quindi questo è un modo per favorire quei Paesi che non partecipano ai Giochi da parecchio, quindi si dà una possibilità con il 3×3. Quindi, oltre alla posizione nel ranking, il secondo Preolimpico prevedeva anche questo”.
Tu cosa pensi del rinvio delle Olimpiadi? Questo quanto e cosa comporta per voi?
“Il rinvio delle Olimpiadi penso fosse un atto dovuto, così come lo stop dello sport italiano e come, secondo me, anche del calcio. Nel momento in cui ci sono Paesi, come l’Italia, dove ci sono ancora centinaia di morti al giorno, credo che non sia possibile giocare uno sport e soprattutto mettere anche a rischio la salute degli atleti stessi, perché pensare di andare a giocare le Olimpiadi in Giappone, in un Villaggio Olimpico dove convergono decine di Paesi da tutto il mondo, significa che oltre ad avere un alto rischio di contagio ci sarebbe stato anche un alto rischio di ritorno di contagi nei propri Paesi. Credo che fosse una situazione inevitabile. Logicamente si è cercato di evitarla fino alla fine, perché comunque gli atleti si preparano da anni a quest’appuntamento, lo sognavo da una vita, per quanto mi riguarda, quindi era veramente vicino perché cancellare il Preolimpico e poi le Olimpiadi a pochi mesi dalle stesse è stato sicuramente non piacevole, però credo che non ci fosse altra scelta. Dopo poche settimane dal rinvio delle Olimpiadi il Giappone si è trovato e si trova ancora ad affrontare un alto numero di contagi che fino ad allora non si erano verificati lì, e invece poi sono esplosi come nel resto del mondo. Non credo si sarebbe potuto fare altrimenti”.
A Costa Masnaga quella che hai vissuto è stata la tua prima vera stagione in Serie A1, a quasi dieci anni dall’esordio a Faenza.
“Lì ci sono andata a giocare il primo anno nel quale sono andata fuori casa. Avevo finito il liceo a 19 anni e quindi ho provato fare un’esperienza fuori, a intraprendere questa carriera. A Faenza, come primo anno, non ho trovato molto spazio. Era ancora il periodo in cui in A1 si giocava con quattro straniere, e non tre, quindi c’era ancora meno spazio per le italiane, oltre al fatto che fossi molto giovane. Qualche anno più tardi ho riprovato col Cus Cagliari, dopo due anni lì con la Virtus in A2, però anche lì ho avuto poco minutaggio. Quindi questa è effettivamente la prima seria stagione che gioco sul campo in A1”.
Hai parlato del fatto di aver giocato nelle due anime di Cagliari cestistica femminile, la Virtus e il Cus. Che tipo di rapporto c’è tra queste due realtà?
“Il rapporto non è eccessivamente complesso. Sicuramente c’era il clima da derby molto sentito quando tutte e due erano in Serie A2. C’è sempre stata rivalità, un po’ come Roma e Lazio nel calcio, Virtus e Fortitudo a Bologna nel basket. C’è un clima agonistico bello e appassionato, però tutto assolutamente civile, rientrava nei canoni dello sport. Però era un derby sentito, tutte e due le squadre volevano sempre vincere, questo è ovvio”.
Tu sei un po’ una figlia del San Raffaele Basket a Roma, la tua squadra di quegli anni del liceo che hai citato.
“Ho giocato per tre anni con il San Raffaele, e abbiamo vinto due scudetti e quindi ho dei ricordi molto belli. Uno l’ho vinto con l’Under 19, quindi con l’annata ’89-’90 (‘fuori età’, ero più piccola), e uno con l’Under 17. E tutti e due nello stesso anno, a distanza di un mese l’uno dall’altro. Ho dei ricordi molto belli soprattutto di Amedeo D’Antoni, che era il mio allenatore dell’epoca. Io fino a pochi anni prima giocavo in una piccola società a Marino, all’Olimpia Marino, poi c’è stato questo progetto molto lungimirante di Amedeo che ha unito la sua squadra del San Raffaele con me e un altro paio di giocatrici dell’Olimpia e poi portando giù da Torino anche Alessandra Tava e Alice Quarta, facendo una piccola foresteria per loro due e mettendo su questa squadra che si è rivelata molto competitiva”.
Amedeo D’Antoni che poi ancora quando il San Raffaele è tornato in A2 lo allenava ancora con tanta voglia, e lui la società l’ha fondata più di quarant’anni fa.
“Assolutamente. Lui è di un’altra scuola, allena da decine di anni. L’ha fondato. Non credo sia più il presidente, però ho visto delle foto in cui allenava ancora. Ha smesso e ripreso una marea di volte, perché sono più le volte in cui s’incazza, e infatti qualche volta ha anche avuto qualche problema di salute. Quand’è in panchina non è che si sa trattenere: urla, si agita, salta. È uno appassionato, e dopo tanti anni è anche bello da vedere. Però non ce la faceva a smettere, per cui un anno smetteva e quello dopo riprendeva”.
Hai poi vissuto anche le esperienze di Viterbo, Cervia e Ferrara.
“Con la stessa squadra che aveva vinto lo scudetto giovanile, a parte Sabrina Cinili che era già partita per Umbertide, abbiamo fatto il primo anno di A2. Avevamo tutte 17-18 anni, il titolo era quello di Viterbo, ma di fatto la squadra era quella del San Raffaele. Abbiamo preso qualche batosta, ma ci siamo confrontate per la prima volta con un ambiente senior di quel livello, perché in precedenza avevamo fatto quella che era la B nazionale e avevamo perso in finale contro Ragusa da loro per salire. L’anno successivo abbiamo poi fatto l’A2 col titolo di Viterbo, ed è stata una bella esperienza. Per quanto riguarda Cervia, l’ho fatta in doppio tesseramento quando ero a Faenza, avendo trovato poco spazio in squadra. Avendo Cervia bisogno di un innesto perché era un po’ in difficoltà ho fatto questo doppio tesseramento, quindi a volte mi sparavo qualcosa come tre allenamenti al giorno, perché facevo al mattino pesi e tiro con Faenza, al pomeriggio allenamento con Faenza e poi alla sera prendevo la macchina, andavo a Cervia a fare allenamento alle sette, alle otto per poi tornare a casa la sera tardi. Una non stop, un anno complesso. Poi Ferrara, dove sono rimasta due anni. Sono stata bene, la città è stupenda, si gira tutta in bicicletta, è una cittadina universitaria, il gruppo era bello coeso soprattutto il primo anno con Francesco Iurlaro. Abbiamo raggiunto anche la finale di Coppa Italia di A2, che abbiamo perso contro il Geas negli ultimi minuti, però devo dire che è un bel ricordo”.
Tu quando hai cominciato con il 3×3?
“Io ho iniziato quattro anni fa. Ho cominciato proprio nello stesso torneo di Rae D’Alie, perché una nostra amica comune, Federica Tognalini, aveva già fatto dei tornei di 3×3 anche con la Nazionale, e ha detto ‘provate, è bello, è figo’, e abbiamo detto ‘ok, proviamo’. Andammo a fare il primo torneo FISB che avevamo sottomano, che era a Salerno, un’estate a luglio. Abbiamo fatto questo torneo e da lì siamo passate alle finali di Riccione. Poi siamo andate a giocarle e le abbiamo vinte. Era una squadra con io, Rae, Martina Capoferri (un’altra bella giocatrice di A2), e una nostra amica di Roma, Federica Milani, che giocava in Serie B. Giocavamo contro le giocatrici che in quel momento erano in Nazionale, quindi c’erano Tognalini, Quarta, Alessandra Visconti e Marcella Filippi. Da lì è stato amore a prima vista. Tutto un altro gioco, un altro ritmo, non hai tempo per pensare a quello che hai fatto, che hai sbagliato, a quel che è andato bene o male. Devi continuare a giocare, è proprio una ruota continua, un turbinio tra attacco, difesa e non hai un momento per fermarti. Ed è un ritmo che mi piace molto. Da lì questa passione è continuata ed è sfociata con grande emozione nella Nazionale e poi in quell’altro esordio, che ha portato alla conquista di qualcosa di un pochino più importante, però anche quello era un debutto. E di una squadra ibrida, perché sia io che Giulia Ciavarella eravamo nuovi innesti e una scommessa di Angela Adamoli, perché ha rivoluzionato la squadra cambiando due componenti su quattro, ha rischiato e ha avuto ragione”.
Fra l’altro con un percorso spettacolare contro Stati Uniti, Cina e Russia e con un ambiente, quello delle Filippine, meraviglioso, perché lì il basket è religione.
“È stata un’emozione unica, al di là della cordialità continua di tutta la gente che si trova lì. È un popolo squisito, di una dolcezza e una gentilezza unica. Come i canadesi. Uguali. Erano sempre col sorriso, sempre disponibili, tutti, chiunque. Veramente un amore per questo gioco, in realtà per le persone al di là dello sport, incredibile. Abbiamo giocato in questo campo, se vogliamo definirlo campo perché è un palazzetto enorme in cui dentro c’erano alla fine diecimila persone, ed è stata un’emozione pazzesca perché in Italia giocare davanti a un pubblico del genere forse riesce al Forum di Milano, ma sicuramente non nel femminile. Quindi è stata una situazione un po’ inedita anche per quello”.
Però la Nazionale femminile meriterebbe un giorno o l’altro il Forum, o il PalaEur, o palazzi simili. Prima o poi si spera di riuscirci!
“Sì, veramente! Perché è un’emozione che le giocatrici si meritano di provare, e il pubblico si merita di appassionarsi a uno sport come il popolo delle Filippine, perché è stata veramente un’esperienza splendida. Poi loro per tradizione, per cultura, sono innamorati della pallacanestro da sempre, quindi c’è quest’amore viscerale al di là della nazione che possono tifare. Alla fine quando abbiamo giocato contro la Russia c’era tutto il palazzetto che tifava per noi, che cantava ‘Italia, Italia’. Era un amore del gioco che va al di là delle bandiere”.
Ed erano tutti impazziti per Rae, poi.
“Lei li ha conquistati, annichiliti con la sua genuinità, con il suo essere sincera, con il suo amore per lo sport e per questo gioco. Rae è una persona molto trasparente, molto genuina, che sicuramente i tifosi delle Filippine hanno compreso appieno, tanto da spingere diecimila persone a tifare per noi. Dai quarti di finale in poi sembrava di giocare in Italia, con il pubblico che tifava e applaudiva per noi. È stato molto bello”.
Poi c’è stato l’ultimo periodo con qualche infortunio di troppo.
“Sì, ‘Ciava’ è stata molto sfortunata quest’estate perché già prima di partire per il Mondiale di Amsterdam ha avuto qualche problemino alla schiena, poi durante le Women’s Series ha preso un blocco in pieno da una giocatrice cinese di 2 metri per 120 chili, penso, e le è uscita la spalla e di lì ha dovuto fermarsi. Tant’è vero che poi si è aggregata in ritardo con San Martino di Lupari. Purtroppo gli infortuni fanno parte del gioco, lo so anch’io perché ho avuto un infortunio alle ginocchia e ai legamenti crociati negli anni ed è una parte del gioco che purtroppo va accettata. Spesso accadono nel momento meno opportuno, però uno direbbe che non c’è un momento meno opportuno per infortunarsi, nessuno lo vorrebbe. Tutto sta nel mettersi sotto, non demoralizzarsi, affrontare l’operazione, riabilitazione, fisioterapia, quel che sia con il piglio giusto per poter tornare il prima possibile in campo”.
Tu cosa pensi del circuito delle Women’s Series?
“C’era stata una prova di una tappa due estati fa, che era stata a Bucarest, e poi quest’anno è partita ufficialmente. Per i maschi si chiama World Tour, esiste già da qualche anno, a livello di club e ci sono dei premi economici molto differenti, o meglio: esistono, mentre per le donne ancora no, perché per cercare di coinvolgere le squadre si sta cercando di coinvolgere le Nazionali. È un tipo di circuito, quello dei maschi, che è molto costoso e richiede la presenza di sponsor per viaggiare, dormire negli alberghi, iscriversi alle tappe (perché costa qualche migliaio di euro). Quindi per il femminile, prevedendo una carenza di sponsor da questo punto di vista, come tutti gli sport femminili di squadra, si è pensato di farlo con le Nazionali. E devo dire che quest’estate, secondo me, ha avuto un discreto successo, perché tutte le tappe sono state organizzate bene, tre sono state anche in Italia, quindi si è vista subito la volontà della Federazione di riuscire a qualificarsi per ranking per il Preolimpico, organizzando queste tappe che richiedono un dispendio economico e organizzativo non da poco, perché devi coordinare 8-10 squadre, metterle a dormire, farle mangiare, farle allenare, costruire campi, gestire il trasporto, è un bell’impegno. Però secondo me è stato un circuito molto competitivo e soprattutto molto ben organizzato. La prova generale è andata bene, penso che la FIBA abbia avuto lo stesso tipo di riscontro e anzi, alla fine di una tappa ci aveva richiesto anche dei feedback sia positivi che negativi su come migliorare o cambiare qualcosa all’interno di questo circuito. Quindi anche da parte della Federazione internazionale c’è stata un’apertura che non è da tutti per sapere cosa i giocatori pensassero delle tappe, cos’era andato bene, cosa male, per migliorare. In teoria l’avrebbero riproposto anche quest’estate, solo che in pratica non credo”.
Anche perché ci saranno blocchi dei viaggi di qualsivoglia genere ancora attivi.
“Innanzitutto c’è il problema di viaggiare. Non puoi organizzare un torneo in una nazione X se poi giocatori o giocatrici non ci possono entrare. Come si fa? Non si sa neanche se si potranno fare i tornei estivi a livello regionale o nazionale, perché comunque il nostro sport ha un veicolo di contagio che è la palla, fondamentalmente. Ce la passiamo tutti, la tocchiamo, poi ci tocchiamo la faccia, il sudore, gli occhi, e tutto è veicolato dalla palla. Quello è il problema principale. Se da un lato stanno pensando di far riprendere il calcio, isolandoli tutti in quarantena per tot giorni, un albergo dove nessuno esce e nessuno entra, per la pallacanestro e soprattutto per le partitelle al campetto o per un torneo FISB non è che puoi isolare i giocatori in un albergo per un mese. È una follia. Sicuramente anche i tornei estivi sono a rischio. Poi bisogna vedere come evolve tutto, magari tra un mese il problema sparisce”.
Il ranking spiegato a uno che lo vede per la prima volta e non lo capisce com’è fatto?
“Ogni nazione ha un punteggio, dato da quante persone in quel Paese giocano nel 3×3, ma nel senso che fanno dei tornei ufficiali a cui si iscrivono tramite la piattaforma ‘Play FIBA 3×3!’, che per noi è ‘il Planet’. Qualsiasi torneo organizzato da FISB, per esempio, deve dare un indirizzo mail con il quale si registra sul Planet. Da quel momento il torneo è valido e da punti alla tua nazione. Poi dipende dai risultati che fanno le Nazionali. Se ti qualifichi agli Europei ottieni tot punti, se ti qualifichi ai Mondiali altri tot punti, se ti qualifichi da primo, secondo, terzo, ottavo, decimo ne hai altri ancora. Fondamentalmente il grosso non è dato tanto dai risultati delle Nazionali quanto da quanta gente che gioca nel 3×3. Ad esempio la Cina era prima nel ranking femminile (ora è seconda, N.d.R.), e ha ovviamente una popolazione che ha un miliardo e passa di abitanti. Non è data tanto dalle atlete della Nazionale quanto dalla gente che fa i tornei estivi che ci danno linfa per avere questi punti. Poi quest’anno l’hanno congelato, è la cosa più logica. Se nessuno può giocare, che rimanga invariato”.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
“Per quanto non riguarda la pallacanestro, perché al momento rimane un’incognita anche per i prossimi mesi, sto studiando. Sto frequentando l’ultimo semestre dell’Università Cattolica di Brescia, interventi clinici in contesti sociali, psicologia. Devo dare gli ultimi quattro esami e poi mi laureo, non so se in presenza o online perché spero che per quel tempo si possa tornare alle lauree fatte in loco, però concludo il mio percorso di studi con la laurea specialistica”.
Il basket femminile sta facendo molti miracoli tra giovanili e Nazionale maggiore. Un po’ più del dilettantismo, come molti altri sport, lo meriterebbe.
“Il discorso del professionismo è abbastanza complesso. È passata la legge per dichiarare le donne professioniste, ma questa rimanda alle singole federazioni. C’è da dire che per dichiarare le donne professioniste, e dunque portare al professionismo l’A1 femminile, bisogna avere anche una serie di sicurezze economiche alle spalle. Se dichiarare le donne professioniste significa avere sgravi fiscali solo per il primo anno per le società per versare i contributi dovuti, abbassare gli stipendi del 50% perché bisogna pagare le tasse per via del fatto che le donne diventano professioniste, allora diventa un cane che si morde la coda. Servirebbe qualche ammortizzatore in più, perché poi a rimetterci in questo sono le giocatrici, che si vedono abbassarsi gli ingaggi del 50% perché le società non hanno i soldi per pagare le tasse, o altre più piccole chiudere, ritorniamo anche lì da capo. Questo penso sia il motivo principale per cui la FIP ancora non si è pronunciata in merito: quest’incognita è da considerare”.
Gli allenatori che ti hanno segnata di più, le giocatrici con cui sei stata meglio e le più forti da affrontare?
“Domanda complessa! (ride) Per gli allenatori, sicuramente Amedeo D’Antoni, che è colui che mi ha fatto fare il salto di qualità da una piccola squadra a una con obiettivi e ambizioni più grandi, quindi mi ha in qualche modo insegnato un pochino a sognare in grande, a puntare alla Nazionale, allo scudetto. La prima volta in Nazionale la ebbi quell’anno nelle giovanili con l’Under 18. L’altro che mi ha segnato molto è Gabriele Pirola, che è stato il mio allenatore per tre anni a Costa Masnaga, con cui siamo state promosse in Serie A1. Lui mi ha dato veramente uno sguardo nuovo con cui guardare la pallacanestro. Si è sempre messo al servizio della squadra. La prima cosa che mi ha chiesto quando ho firmato è stata: ‘Tu che cosa vuoi migliorare?’, prima di parlarmi di ‘io vorrei farti giocare così, farti fare questo’, mettendo al centro un obiettivo importante per me e poi costruendomi attorno i suoi obiettivi per la squadra. Questa è una cosa che sinceramente non avevo mai trovato in un allenatore, e da lì abbiamo costruito un ottimo rapporto che abbiamo tuttora. E poi Angela Adamoli, un’allenatrice straordinaria, che non lascia niente al caso. Una Donna, una persona vera, trasparente, che riesce a infondere fiducia nelle sue giocatrici come solo mi era accaduto con Gabriele. Aver avuto due allenatori che abbiano creduto in me come loro due credo mi renda la giocatrice più fortunata su questo pianeta. E quando percepisci questo tipo di fiducia, quando lavori in questo modo, vedendo la persona oltre alla giocatrice, i risultati non arrivano per caso. Per le giocatrici con cui mi sono trovata meglio, sicuramente Valentina Baldelli. Giochiamo insieme da quattro anni, in campo ormai ci capiamo al volo, non c’è bisogno di parlare più di tanto, quindi sicuramente lei. La più forte con cui ho giocato penso sia stata Adriana Moises Pinto, brasiliana, la playmakerina di un metro e 62, ma che saltava mezzo metro, segnava da tre, in allenamento 10/10 e via, faceva degli assist no look che potevano mettere chiunque nelle condizioni di segnare. Una cosa pazzesca. E più recente ancora Rae D’Alie. È un’altra con cui non ho bisogno di parlare. So che se faccio un taglio in mezzo all’area, lei in qualche modo mi da la palla, che sia dietro la testa, sotto le gambe, con gli occhi chiusi, stia guardando quello che vende i popcorn, comunque la palla arriva. E questa è una cosa molto importante, perché nel 3×3 essendo con tre in campo (ma anche con la quarta giocatrice, dato che siamo tutte a rotazione), devono tutte conoscersi e capirsi a memoria, sapere che se Rae penetra, io sono in mezzo all’area e Marcella è fuori sul tiro da tre per esempio, dietro di lei per lo scarico”.
Capitolo soprannome: ‘Ruls’ com’è nato?
“Sai che non me lo ricordo? Dopo che ce l’hai da tanti anni, ti dimentichi anche come e perché nascono. Da Rulli si è passato a Rulex in un’estate in Nazionale, non so se me l’abbia dato Alessandra Tava o Lorenzo Serventi. C’erano Nino Molino allenatore e Serventi assistente. È partito questo Rulex, e poi da Rulex è diventato Ruls. Meglio Ruls di Rulex, devo dire la verità, però l’origine non me la ricordo”.
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Foto: fiba.basketball 3×3 Europe Cup 2019