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Lorenzo Bucarelli, basket: “Sono cosciente di avere degli aspetti su cui migliorare. I podi con le Nazionali giovanili ricordi bellissimi”

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Uno dei motivi che ha regalato, in questi anni, notorietà alla Dinamo Sassari è legato all’utilizzo che Gianmarco Pozzecco fa dei giocatori italiani. Al Banco di Sardegna, però, oltre a quelli noti, ce n’è uno che sta prendendo appunti dopo una carriera giovanile molto interessante: è Lorenzo Bucarelli. Dalla sua Firenze, il ventiduenne già finalista ai Mondiali Under 19 con l’Italia nel 2017 è arrivato fino alla terra sarda entrando in meccanismi già molto precisi della sua squadra, promettendo anche di ritagliarsi un ruolo ancor più da protagonista nelle stagioni a venire. Lo abbiamo raggiunto per un’intervista in cui ha ripercorso la sua carriera, la stagione, l’azzurro e le prospettive future.

Qual è il bilancio della stagione?

“Il bilancio a metà stagione era abbastanza positivo. Un trofeo l’avevamo portato a casa, la Supercoppa, ed eravamo secondi in campionato. Purtroppo l’ultima partita europea è stata la nostra eliminazione dalla Champions League, però le situazioni erano surreali con tutta la cosa che è successa quando eravamo là. Una stagione lunga con tante partite, seppur sia praticamente finita a febbraio”.

A proposito di situazioni surreali: quella di Burgos, ma anche quella di Roma.

“La nostra è stata una delle ultime partite giocate, perché poi la domenica non hanno giocato. È stato strano giocare al PalaEur, pieno non l’ho mai visto, ma vuoto fa ancora più impressione. È stata una cosa veramente strana, surreale”.

Sia Bucchi che Pozzecco erano “leggermente” critici sull’opportunità di giocare in quella situazione.

“Bucchi non lo conosco, ma mi sembra una persona intelligente. Poz lo è, aveva capito che la situazione non era proprio rosea, ma abbastanza complicata. Dopo quella partita ha prevalso il buonsenso, hanno fatto di tutto per evitare qualsiasi rischio di contagio, di propagazione”.

Spesso Pozzecco ti inseriva nel finale di quarto, più frequentemente il primo. Non era fatta tanto per farla, ma con un’idea tattica precisa.

“Lui mi aveva ritagliato questo ruolo in cui entravo a fine quarto, provavo a recuperare qualche pallone e spesso mi riusciva. Dovevo dare fiato agli altri e potevo portare tanta intensità nei minuti che giocavo”.

Oltre alle palle rubate hai fatto anche dell’altro. Resta nella memoria il tiro da tre pochi giorni dopo la morte di Kobe Bryant con la dedica e l’emozione.

“Io quando Kobe vinceva il quarto e quinto titolo avevo più o meno 10 anni, quindi sono cresciuto con lui. Io e mio fratello abbiamo la maglia di quando eravamo piccolini, che era la 8, e avevamo la 24 di quando eravamo più grandi e quindi era una divisa vera. Dopo la sua morte le abbiamo incorniciate entrambe in camera, perché Kobe era il nostro supereroe. Come se fosse Batman, o Spiderman, o Superman. Seppure non lo conoscessimo, sapere che Kobe non c’era più ci ha spezzato le gambe”.

Del resto Kobe è per questa generazione quello che Michael Jordan è stato in quella precedente.

“Esatto, per noi Kobe era Michael di quelli degli Anni ’70-’80”.

Una cosa interessante della Dinamo l’ha ripetuta e fatta intendere anche Pozzecco molte volte: il fatto che voi italiani abbiate un senso preciso all’interno della squadra, un blocco solido che partecipa attivamente.

“Sebbene alla fine quelli che giocavano minuti veri fossero Spissu, Michele Vitali e Stefano Gentile, noi italiani eravamo tanti e non è facile averne. Daniele Magro e Jack Devecchi sono vent’anni che giocano in Serie A, e davano un senso di compattezza al gruppo, di tranquillità, che non è facile avere in una squadra. Il ruolo degli italiani era di riuscire ad unire, a smussare gli angoli, e penso che ci siamo riusciti, perché eravamo una squadra molto unita anche quando viaggiavamo, e viaggiavamo tanto, eravamo sempre insieme, si creava qualche gruppetto, ma era più di gioco. Spesso ci portavamo Mario Kart in trasferta perché eravamo in dieci a giocarci. Eravamo tutti insieme e molto numerosi”.

Quanto si sente l’autorità e il senso della storia che Devecchi da in spogliatoio?

“Lui è un’istituzione qui a Sassari. C’è il sindaco e poi c’è Jack. Se lui si candidasse sindaco prenderebbe il 70% dei voti. Qui è intoccabile”.

Facciamo un passo indietro: tu hai cominciato a giocare a Firenze e poi hai fatto il triangolo Siena-Stella Azzurra-Veroli.

“Diciamo che la parte importante della mia crescita è stata a Siena. Stella Azzurra e Veroli sono state piccole parentesi. Io sono cresciuto sotto l’influenza Montepaschi, che è stata un enorme vantaggio per me, ma un’incredibile delusione quando, purtroppo, è stata fuori, però giustamente, viste le condizioni che c’erano. Io quando Siena fallì avevo 15-16 anni ed ero già nel roster della Serie A, mi ci allenavo regolarmente, ci andavo in panchina anche durante le finali scudetto e lì mi si chiuse la porta. Pian piano sono riuscito a riaprirmela e devo continuare, ma la delusione che ebbi quando fallì Siena e a me si stavano per aprire le porte della Serie A fu grande. Ero nel mondo perfetto, nel posto perfetto e svanì tutto in un secondo”.

A Siena non solo la Mens Sana è sentita, ma lo sono anche i derby giovanili con Virtus e Costone, con ambienti infuocati.

“Quando giocavo io i derby c’era già la parabola discendente, però in uno di quelli che ho giocato c’erano le tribune con i seggiolini del PalaEstra che erano quasi tutte piene. C’erano sulle 1500 persone sicuramente. Quando si andava a giocare in casa della Virtus, che in confronto sembra una palestrina, pareva un bunker, perché erano tutti praticamente in campo. La capienza massima penso sia di 300 persone, ma dentro ce ne potevano essere 700”.

A Siena comunque ci sei tornato in pianta stabile con l’A2.

“Sì, però era una Siena diversa da quella che conoscevano tutti. Non solo perché si trattava della Polisportiva, ma erano persone diverse, un ambiente diverso e con la Siena che conoscevamo io e tutti quelli che c’erano prima non c’entrava praticamente niente. Si chiamava Mens Sana, ma non lo era, era una squadra che giocava al PalaEstra, ma non era la Montepaschi, era un’altra cosa”.

E non ha mai particolarmente attecchito, perché il pubblico faticava a venire alle partite.

“Dopo la promozione che fecero il primo anno in Serie B, l’anno successivo, quando io tornai, ha rischiato di chiudere. Se non fossero entrati i tifosi la squadra sarebbe fallita. L’anno successivo grossi proclami, ‘arriva lo sponsor’, e sanno tutti come è andata a finire. La gente di Siena non è stupida, sa benissimo quando prometti sempre e poi puoi dare al massimo 1. Purtroppo quando fai delle promesse che non puoi mantenere il risultato è quello”.

Poi Sassari, che ti ha “girato” a Cagliari in quello che non si può forse nemmeno definire un prestito, visto che le società erano collegate tramite Stefano Sardara.

“I due anni a Cagliari sono stati diversi: il primo c’era la novità per me, perché ero sì in A2 e uno che giocava sempre, però non ero dei punti fermi della squadra. A Cagliari ero capitano a 19 anni, quindi responsabilizzato, dovevo dare il mio apporto. Il primo anno è risultato semplice da quel punto di vista perché i risultati ci aiutavano, il secondo è stato veramente complesso perché partendo da 1-10 riuscirci a salvare senza nemmeno dover fare i playout è stata un’impresa. Ed è passata abbastanza in secondo piano, però lo è stata, perché nel girone di ritorno secondo me per media punti siamo stati dietro solo a Fortitudo Bologna, Treviso e Poderosa Montegranaro. A dicembre avevamo 4 punti, ci siamo salvati con 22”.

Fra l’altro tu hai vissuto l’esperienza di fare entrambi i gironi, quello Ovest nell’annata 2017-2018 e quello Est nella stagione 2018-2019, anche per una questione di costi legati ai voli.

“In realtà non lo so precisamente, ma penso che fosse per quello. Penso che sia stata una scelta per venirci incontro in quel senso, dovendo viaggiare tutte le settimane con l’aereo”.

Le Nazionali giovanili: anni belli, perché c’è stata l’accoppiata degli Europei a Samsun rinviati a dicembre 2016 e dell’argento ai Mondiali con l’Under 19.

Gli Europei a Samsun sono uno dei ricordi più belli della mia carriera. Fu una cosa lampo, ricordo che ci siamo radunati due o tre giorni prima, perché era in mezzo al campionato. Facemmo 3-4 allenamenti e partimmo. Nessuno sapeva niente delle altre squadre ed era una formula completamente diversa dagli Europei cui eravamo abituati. E durò anche poco, di solito dura 9-10 giorni e questa volta è durato una settimana. Fu bello. Fummo eliminati dalla Francia in semifinale, ma la Francia aveva Frank Ntilikina che è diventato ottava scelta al draft con i New York Knicks, e che ci ammazzò. Però la prima medaglia in Nazionale fu bellissima. Poi i Mondiali al Cairo rimarranno, finché non avrò la fortuna di rivincere un’altra medaglia con la Nazionale maggiore, speriamo, la cosa più bella della mia carriera“.

La semifinale peraltro l’hai vinta tu.

“Ci sono stati tanti episodi in quei Mondiali, come il canestro con l’Angola, che nessuno si ricorda. Avevamo la maturità, e quindi eravamo partiti due giorni prima della partita. Mentre le altre squadre nazionali erano state agevolate per la maturità, per noi non fu lo stesso. Ce la fecero fare con gli altri. L’unico aiuto che ci diedero fu di poter fare l’orale per primi. Però fare l’orale per primi significava partire due giorni prima rispetto all’esordio. Arrivammo lì e tutti ci prendevano in giro, quando passavamo erano risatine: ‘Guarda l’Italia, guarda che scemi’. E nella prima partita noi andammo all’overtime con l’Angola, che sbagliò il tiro per vincerla a fine ultimo quarto. Vincemmo di quattro in un supplementare clamoroso, e lì iniziò il nostro percorso. Poi ci fu un’altra partita contro gli Stati Uniti dove ne prendemmo trenta e riuscimmo a qualificarci da secondi. Agli ottavi di finale trovammo il Giappone, e c’era Rui Hachimura (oggi ai Washington Wizards, N.d.R.), che ci fece un mazzo così. Eravamo punto a punto, e Tommaso Oxilia fece il canestro della vittoria quasi sulla sirena. Un canestro clamoroso. Io facevo la rimessa, non vedevo nessuno libero e avevo le gambe che mi tremavano. Poi ai quarti beccammo la Lituania, che tutti definivano la seconda o terza forza dei Mondiali, e l’annientammo, la distruggemmo. Nella semifinale con la Spagna penso ci siano stati i 4 minuti più belli della mia vita cestistica. Non so cosa mi prese in quei 4 minuti. Anche riguardando le partite mi dico ‘ma come ho fatto?’, poi Davide Denegri mise quella bomba in transizione senza senso, quella del tutti a casa”.

Poi ci fu la finale, con il Canada di RJ Barrett che, se non ci fosse stato Zion Williamson nel draft NBA dello scorso anno, è facile pensare che sarebbe stato la prima scelta assoluta.

“Per la finale un po’ di rammarico c’è, perché è comunque una finale mondiale. Sicuramente non te la giocavi, ma a distanza di anni penso che ci siamo un po’ accontentati, il nostro pensiero era ‘andiamo a godercela’. Invece se avessimo avuto un po’ più di cattiveria agonistica magari ce la si giocava un pochino di più. Però è stato veramente speciale. Con tutti quei ragazzi dei Mondiali siamo sempre in contatto, con i fisioterapisti, gli allenatori, dottori, accompagnatori, tutti”.

Al Cairo si giocava in un’arena parecchio grande.

“Non vorrei dire una stupidaggine, ma sono quasi ventimila posti. Era veramente gigantesca, più grossa anche del Forum”.

Il parallelo è possibile anche con il PalaAlpitour di Torino.

“Esattamente, un po’ più grande di quello. Quando entravi in campo non sembrava così grosso, ma quando entravi sulle tribune era immenso. Però dentro non ti dava quella sensazione”.

Sono quei tipi di palasport strani perché per chi tira vengono a mancare i riferimenti.

“Infatti le nostre partite erano veramente a bassissimo punteggio. Era perfetto per noi che difendevamo come degli animali, era più difesacanestro che pallacanestro”.

Quali sono gli obiettivi che vuoi raggiungere nel futuro?

“In quello prossimo essere un giocatore da pianta stabile in Serie A. Non ho dimostrato di esserlo, ho avuto qualche apparizione quest’anno, però il mio primo obiettivo è quello di diventare un giocatore forte per la Serie A. E poi riuscire a crescere, l’obiettivo/sogno massimo è l’Eurolega, che è da sempre quello che spero poi di raggiungere, il coronamento di qualcosa di bello”.

Cosa ti lascia questa stagione sia come Serie A che come Champions League?

Sicuramente un po’ di consapevolezza nei minuti in cui ho giocato. Di certo è totalmente diverso giocare qualche minuto rispetto a giocarne tanti, però c’è la consapevolezza di poterci stare a livello fisico, anche tecnico, a un livello così, perché non avendo mai giocato in partite di Serie A questo era il mio primo anno. C’erano un po’ di dubbi da quel punto di vista. La stagione mi ha lasciato questo, la consapevolezza di dire ‘posso starci, ho degli aspetti su cui devo migliorare e ne sono cosciente'”.

Pozzecco, a parte quali sono stati gli allenatori più importanti per la tua formazione?

Michele Catalani. È stato il mio allenatore alle giovanili, che mi ha portato dall’Under 14 fino all’Under 18. Mi ha insegnato tutto quello che so e non solo a livello sportivo. Andai via di casa quando avevo 14 anni e lui era il responsabile del settore giovanile della Montepaschi. Mi prese sotto la sua ala protettiva e mi fece crescere. A lui spero di dovere ancora tanto nella mia carriera”.

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Credit: Ciamillo

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