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Mara Fullin, basket femminile: “Il periodo d’oro di Vicenza fu bello. Il gruppo azzurro degli Anni ’80 e ’90 ha ancora tanto da raccontare!”

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575 partite, 5973 punti, 15 scudetti, 7 Coppe dei Campioni (odierna Eurolega), 4 Coppe Italia, due Supercoppe con i club; 199 presenze e 2296 punti in Nazionale. Eppure non basta soltanto questo a descrivere la carriera di Mara Fullin, l’ala dei trionfi di Vicenza prima e della Pool Comense poi lungo quasi vent’anni di pallacanestro giocata. Entrata nella Hall of Fame azzurra, ha avuto la possibilità di giocare per due volte alle Olimpiadi, nel periodo più florido del movimento femminile recente, e ha potuto affrontare tantissime delle grandi di un tempo che oggi, forse, sarebbe bene ricordare, perché i trionfi degli Anni ’70, ’80 e ’90 meritano certamente più ricordi di quelli che vengono tributati normalmente. Oggi Mara Fullin forma nuove giocatrici a Cesena, dove l’abbiamo raggiunta per via telefonica per un’intervista in cui non ha avuto, come nel suo stile, troppi peli sulla lingua per raccontare la pallacanestro italiana di ieri e di oggi.

Come mai la vita t’ha portata a Cesena e che tipo di realtà è la Nuova Virtus?

“Io ormai abito a Cesena da tantissimi anni, pur non avendoci mai giocato. Però sono qui per matrimonio. Quando giocavo ho conosciuto un ragazzo cesenate, e quindi alla fine la Romagna è diventata la mia destinazione. La Nuova Virtus è una polisportiva che nasce con il calcio giovanile maschile, poi c’è il nordic walking dove io sono la coordinatrice, il basket femminile con tutto il minibasket, le categorie Esordienti, Under 13, 14, 16, 18 e una Serie C, e il podismo. Il basket femminile lo facciamo da otto anni, è una realtà piccola, dilettantistica, dove però lavoriamo con entusiasmo. Ci siamo io, Ivana Donadel che ha giocato a Cesena vincendo scudetti, Coppa Campioni e Coppa Ronchetti negli Anni ’90, e ci sono altri collaboratori come l’allenatore Fabio Lisoni, poi Donatella Tozzi, Sara Farnetti e Martina Dell’Omo con il minibasket. Siamo un pool di sei allenatori, con il preparatore fisico. Facciamo le cose tranquille, perché abbiamo problemi di palestre. Dobbiamo correre per la città: a un’ora mi alleno in un posto, a quella dopo in un altro ancora. Il problema è questo, ma lavoriamo sperando prima o poi di avere una nostra casa, una nostra palestra dove poter entrare alle 3 del pomeriggio e uscire alle 11 di sera. Invece dobbiamo correre a destra e a manca, ma la passione va oltre queste difficoltà. A 55 anni dico che queste cose cominciano a pesarmi un pochino, però cerco di resistere, di lottare, anche nei confronti di una città come Cesena, per far vedere che il nostro movimento ha bisogno di radicarsi e di far capire che c’è gente volenterosa che lavora, ma soprattutto per il sociale, per lavorare con delle bambine, per farle appassionare ad un’attività sportiva che sia diversa”.

Che tipo di disciplina è il nordic walking?

“È nato per caso grazie alla pallacanestro. Io ero team manager della Nazionale, nel 2005, e sostituimmo un allenamento di basket con un’uscita di nordic walking, in stile lavori di team building. Abbiamo fatto una bella camminata nel Trentino e in quel periodo lì non riuscivo a trovare un’attività sportiva che mi desse soddisfazione. Con quei bastoncini lì invece mi sono subito divertita, e soprattutto mi sono allenata tenendo la condizione fisica buona e sotto controllo tutti gli acciacchi che il basket mi ha lasciato, per esempio sulla schiena. Uno dei benefici del nordic walking è quello di distribuire il peso sui quattro arti e, di conseguenza, si riescono a rinforzare gli arti superiori e in generale ad avere molti benefici soprattutto sulla schiena. All’inizio ero anche incredula, e praticandolo ho sempre tenuto sotto controllo la mia problematica. Mi sono appassionata, sono diventata prima istruttrice e poi maestra, quindi è un’altra attività che mi porta via del tempo, ma è anche una grande passione. Sempre all’interno della Nuova Virtus Cesena abbiamo un bel gruppo di associati, di appassionati a quest’attività sportiva”.

Parlando di minibasket, oggi esiste un problema motorio legato alla digitalizzazione.

“Io parlo di bambine perché con queste lavoro, non posso allargarmi ad altri campi. Il problema è che i bambini sperimentano poco con il corpo. Sperimentano poco cosa voglia dire cadere, sbucciarsi le ginocchia, perché vengono lasciati poco da soli. Una volta eravamo in strada dalla mattina alla sera. Io vengo da una città che è Venezia in cui vivevi per la strada, cadevi anche in acqua, le abbiamo provate tutte. Il problema è che i ragazzi sperimentano poco quello che può accadere. Infatti non sanno cadere, soprattutto all’inizio non sanno correre. La maggior parte ha difficoltà a utilizzare bene i piedi, perché c’è poca sperimentazione, molta protezione da parte di noi genitori, attenzione un po’ a tante cose e in generale da parte di noi adulti troppa preoccupazione. In più c’è il tempo che si perde davanti a telefoni, computer, televisioni ed è un tutto che si somma al fatto che fanno poca attività sportiva dicendo che poi non hanno tempo. Tutti noi allenatori d’Italia siamo convinti che se loro lasciassero spento il telefonino avrebbero il tempo di organizzarsi con i compiti e di venire all’allenamento. Invece questo maledetto telefonino porta via loro ore, e lo sperimentiamo anche noi adulti, figuriamoci i ragazzini. I genitori poi li giustificano sempre, se vogliamo. Qui bisogna remare tutti dalla stessa parte. I ragazzini non devono fare attività sportiva perché devono diventare dei campioni, questo è l’ultimo dei problemi. Devono farla come stile di vita, perché fa bene alla salute. Meno medicine, meno tante cose, più prevenzione. Poi integrazione, tolleranza. Si innescano tanti di quei valori che uno che ha vissuto lo sport sa cosa può dare, ma diventa diverso per chi una cultura sportiva non ce l’ha. Il nostro Paese ne ha poca. Un Paese che fa un’ora di ginnastica a scuola a settimana, che cultura sportiva vuoi che abbia? La vedono come tempo buttato, anche se adesso ci sono tanti professori e professoresse di scienze motorie che lavorano, che fanno capire quanto sia importante quel tempo. Però sono sempre poche quelle ore di scienze motorie a scuola. In un Paese dove dalla scuola parte molto, se c’è poca informazione da parte della scuola, figuriamoci noi a livello di società e di allenatori quanta fatica facciamo a inculcare questa cosa. Il perché parte dal fatto che tutti noi adulti dobbiamo far capire che lo sport insegna tantissime cose, con particolare nota per lo sport di squadra”.

Quanto si è evoluto ed è cambiato l’allenamento delle under dagli Anni ’70 a oggi?

“Anche io ho cominciato a giocare nel ’73 a otto anni. Il settore giovanile l’ho finito nell’84. Certo che è cambiato, tutto è cambiato. Da una parte è normale che fisicamente per chi lavora in un certo modo la forza fisica è mutata, perché si lavora meno sulla parte dei fondamentali, tecnica, e molto di più sulla parte fisica, perché adesso lo sport richiede questo. Io vorrei che ci fosse un giusto compromesso, perché vedere che i fondamentali vengono insegnati poco mi fa male al cuore. Io e tutta la mia generazione abbiamo speso le ore a fare delle cose. Anche adesso questa cosa del passo zero mi fa diventare matta, perché divento matta a pensare che si chiuda un occhio su delle cose su cui abbiamo speso delle ore per imparare a non fare passi in partenza, a fare arresto a un tempo, a due tempi. Questa non è evoluzione dello sport. Per me lo sport ha delle regole, le ha la pallacanestro. Per esempio, una cavolata, il tiro libero. Non puoi, quando tiri, pestare la linea. Ho passato delle ore a imparare questo. Adesso a tutti livelli tirano il tiro libero, pestano la riga e l’arbitro nicchia. Ma che è? Si concede tutto? No! Se c’è una regola quella è! E invece ora è tutto permesso, sembra il fuorigioco passivo nel calcio. È uno sport fatto di regole e di tecnica, si distingue da tanti altri per quelli e si vanno a rovinare determinate cose. Sarò vecchia, antica, ma questo mi disturba. Mi riconosco poco in questa pallacanestro. Quando vado a fare l’allenatrice cerco di trasmettere dei valori, di farle appassionare a uno sport. Non me ne frega niente di andar lì e tirar su la campionessa, perché lì si innescano altre cose. Io divento matta su queste cose, mi fa passare la voglia quando magari per tutta la settimana alleno le ragazze, spiego loro che ci sono delle regole, poi vanno a fare la partita, mi guardano come a dire ‘beh? Ma quello che hai detto non è vero'”.

Un passo indietro: che tipo di giocatrice eri?

“Premessa: io credo che la nostra generazione, avesse avuto i social, sarebbe diventata di fenomeni. I social riescono a costruire dei personaggi, a volte pure troppo, se vogliamo. Penso a Mabel Bocchi, Cata Pollini, Lidia Gorlin, Bianca Rossi, Wanda Sandon. Quanto a me, ero una giocatrice fortunatamente dotata di talento, che è stata molto fortunata ad avere sempre avuto allenatori che questo talento lo hanno allenato. C’era un tifoso, che purtroppo è morto da poco, che mi ha detto: ‘Mara, tu sei sempre troppo modesta nelle cose che dici’. Me lo diceva sempre. Ogni tanto esagerava. Alla mia età posso dire che mi sono fatta un mazzo così, mi sono allenata, impegnata, non mi ha regalato nulla nessuno per aver fatto quel che ho fatto. Uno dice: ‘Ma sì, era brava’. Ci son tante brave che se non si allenano rimangono lì nel limbo e non sono né carne né pesce. Oggi appena arriva qualcuno che dice a una ragazza che è bravina si ferma e arriva. Anche se non sempre. Il fatto di essere arrivata è passato attraverso sgridate, tante, degli allenatori. Mi sono presa diversi cazziatoni. Normale. Ho fatto i miei pianti, come ne fanno tutt’oggi le giocatrici, ma non ho mai mollato di fronte alle difficoltà, perché per me il basket era tutto. Ero una giocatrice con la testa dura, che non ha mai mollato. Volevo migliorare perché all’inizio ero molto forte in difesa, poi sono diventata alla fine una grossa tiratrice. Non mi sono mai accontentata. Quando imparavo una cosa, dovevo subito specializzarmi in altre. Era il mio lavoro, non facevo altro che allenarmi dalla mattina alla sera. Oltre alla tecnica, il mio carattere mi ha aiutato molto a far gruppo, a prendermi le responsabilità, ad espormi quando le cose magari non andavano bene, non ho mai avuto paura di dirle a nessuno. Tante volte può essere anche non un punto a favore. La diplomazia non fa parte del mio carattere. Poi anche nei ruoli poche volte mi interessava tenere la careghetta, la seggiolina. A me le cose se non vanno bene non frega niente, lo dico. C’è invece gente che pur di tenere il posto fa sempre sì con la testa“.

E in quel periodo da team manager era proprio un periodo poco florido, nel periodo in cui cominciavano a esserci Macchi e Masciadri nel giro.

“Preferirei tralasciare quel discorso, perché comunque venivano dopo anni in cui noi facevamo quarte o seconde agli Europei. Quando c’erano la Jugoslavia, la Cecoslovacchia, che erano forti. Ci siamo qualificate a due Olimpiadi. I risultati parlano. Le ragazze di oggi sono brave, però in Italia le Coppe dei Campioni-Euroleghe non son più arrivate da 25 anni. E come mai non sono arrivate, visto che abbiamo tutte queste giocatrici?”

A livello di costruzione di squadra, soldi e altro ci sono tantissime differenze e la loro somma fa tutto questo.

“Ovviamente queste cose non le dico con spirito polemico, non ne ho voglia e mi sono anche un po’ staccata da questo campionato di Serie A1 perché non la riconosco più. È cambiato tutto. Tante volte non so neanche che squadre ci sono a parte Schio, Venezia, Ragusa. E il Geas, che ha una bella storia e tradizione, e comunque ha Cinzia Zanotti che è una super allenatrice, perché lei conosce il basket anche di una volta, i fondamentali che si insegnavano. Sono sicura che quello è il suo bagaglio tecnico principale. Con lei ci sentiamo poco, ma sono sicura che su queste cose qui ci troviamo”.

Ed è quasi curioso che lei sia l’unica donna allenatrice in A1.

“Fai fatica. Lei è fortunata perché allena a casa sua. Ma prima di tutto è brava. Stop. Poi ha la squadra lì, nella sua città, ha la famiglia, ci sono tante condizioni. A un certo momento, quando devi scegliere se allenare o meno, quando hai fatto vent’anni via, è difficile. Con dei figli piccoli come fai? È un pochino più complicato. Poi è una scelta di vita, che io personalmente ho accettato di buon grado. Però non è automatico che se sei stata un’ottima giocatrice puoi diventare una buona allenatrice. Non si può sempre stare sulla cresta dell’onda. A un certo momento ho fatto una scelta di vita”.

A volte ci si ricorda troppo poco spesso di quella che forse è la più grande epopea del basket femminile italiano, quella di Vicenza.

“È stato un bel periodo. Sono un po’ di parte però! A volte la storia bisognerebbe trasmetterla a queste nuove generazioni, però deve partire dall’alto la voglia di far conoscere a queste nuove generazioni la pallacanestro femminile degli Anni ’80 e ’90, perché non è che siamo decrepite! Abbiamo 50, 55 anni, siamo ancora ‘in gamba’ per poter andare a dire due cose a qualcuno, non è che si presenta la vecchia bacucca. Faccio un esempio. Noi abbiamo un gruppo, da un po’ di mesi, di ex giocatrici, perché dovevamo a fare gli Europei Over 55 a Malaga, di maxibasket. Poi per il coronavirus è saltato tutto, però per dire che la nostra allenatrice è Mabel Bocchi e la vice Lidia Gorlin. Questo gruppo ha tante cose da dire, da raccontare, a livello di esperienze. Oggi se le sognano, perché noi ci parlavamo, discutevamo, e ancora si discute. Adesso, ritornando alla digitalizzazione, si perdono dietro a un dito e non hanno il coraggio di dirsi in faccia le cose, diventano viola. Se vedi le ragazzine adesso, in una pizzeria, sono tutte lì, ma vorrebbero essere da un’altra parte perché si scrivono con gente che non è lì con loro. Ma noi ci sedevamo lì, facevamo delle risate e parlavamo solamente di cose nostre, ci sfogavamo, avevamo il coraggio di ammettere delle nostre debolezze, di trovare un consiglio da una o da un’altra. Sono cose che secondo me sono tutte andate perse“.

Come si è sviluppato il passaggio da Vicenza alla Comense?

“Il presidente di Vicenza, quell’anno, doveva monetizzare, e quindi ha messo sul mercato tre pedine: Fullin, Pollini e Salvestrini. Cata andò a Cesena, io e Renata a Como. Lui era presidente-sponsor, ha fatto tutto per nove anni. Quando cercava sostegno in città erano tutti tifosi, ma quando si trattava di aiutare giravano un po’ le spalle. Ha dovuto mettere sul mercato tre pezzi e così è andata”.

Problema che si perpetua anche ancora oggi in altre regioni, in cui a volte si fa fatica a salire oltre il livello di A2 (vedere il Lazio, con le differenti peripezie delle tre società più conosciute oggi).

“Ed è un peccato. Bisogna unire le forze, questa cosa dovrebbe anche essere insegnata. Fare una squadra forte e poi le squadre satelliti. È inutile avere un gioiellino in una società, l’altro in un’altra. Meglio una squadra forte che faccia da traino”.

Per ritornare al passato: ’93-’94, ’94-’95, c’era la Comense e poi nessun’altra squadra.

“Erano gli anni della maturità tecnica, i 27, i 28, 29, 30. Raccogli tutto perché è l’età migliore. Coroni tutto. Poi c’era la chimica, c’era tutto: la capacità tecnica, la chimica giusta anche per i rapporti, che in una squadra sono tutto. Non è che si andasse sempre tutte d’accordo, assolutamente, ma lo scopo finale andava oltre a queste stupidaggini che quando una è ragazza sembrano irrisolvibili, della serie ‘ah, ma tu hai detto, tu hai fatto’. Invece sono boiate, perché alla fine la vittoria tocca a tutti, non solo a quella che può essere un po’ più brava. Se il gruppo lavora insieme il merito è di tutta la squadra. Una da sola non ha mai vinto niente. Quando un gruppo riesce a capire questo è un valore aggiunto per fare qualcosa di più”.

Com’era la geografia del basket femminile degli Anni ’80-’90 rispetto a quella di ora?

“Oggi so che le squadre russe sono quelle che dominano. Ai miei tempi c’erano le sovietiche, Novosibirsk, e si andava anche a giocare in Siberia. C’erano tutti i Paesi dell’Est, che hanno sempre dominato a livello di Coppa dei Campioni. Anche Dusseldorf e la Germania, era il 1983, la nostra prima finale di Coppa dei Campioni a Mestre, allenatore Piero Pasini. E vincemmo. Poi giocammo ancora con Dusseldorf a Milano. La Germania aveva delle buone straniere. Però i Paesi dell’Est sono sempre stati quelli che hanno dominato. E poi c’è stata la Spagna, con il Dorna Valencia a livello di Coppa dei Campioni, che ha vinto, e anche a livello di Nazionale ha sempre raggiunto dei risultati. E se li raggiungi lì, vinci con i club”.

Credit: Ciamillo

Ed era una pallacanestro, quella, che aveva anche la fortuna di farsi vedere in Rai.

“Sì, passava, ma è anche vero che passava a degli orari allucinanti. Poi ci sono state Koper Capodistria, Telepiù. Adesso c’è tutto in streaming, l’appassionato si collega sul sito di qualche lega e vede”.

Sempre se le partite non sono a pagamento.

“Infatti io non le guardo mai quelle…”

Una delle cose migliori che ha fatto la FIBA è stata quella di mettere, almeno, Eurolega, un po’ di Eurocup e manifestazioni giovanili gratis su YouTube.

“Sì, ma non sarebbe nemmeno da proporre pagare per far vedere il settore giovanile! È meglio far appassionare la gente e proporre il prodotto per farlo conoscere. Altrimenti a momenti non pago più nemmeno io. Preferisco spenderli altrove”.

E ultimamente anche la LegaBasket femminile si è convertita allo streaming a pagamento con LBF TV.

“Io tutte queste cose dei social le capisco e non le capisco. Se vogliamo beccare un pubblico più ampio, devi anche cercare le persone che hanno meno a che fare con tutti questi trabiccoli“.

E costruire i personaggi.

“Perché, come dicevo prima, sono loro le protagoniste. Se vogliamo ampliare il prodotto non può essere sempre e solo via social, via siti. Io ribadisco: bisogna far passare il tutto anche sui canali normali, non solo quelli per gli addetti lavori”.

Ritornando un po’ indietro, la Nazionale. Vissuta con tanti grandi nomi in panchina: Vittorio Tracuzzi, Aldo Corno, Franco Novarina, Riccardo Sales.

“Ed è il discorso che facevo prima sugli allenatori. Quando vai in palestra ci andavi anche col batticuore perché questi eran tosti. Vittorio Tracuzzi era fantastico, perché era, a livello di carattere, un allenatore molto permissivo per i tempi. Non era quello che ti diceva di andare alle 10 a letto. Però in campo non volava una mosca!”

Chiedeva le ore perfette di allenamento.

“Poi fuori concedeva magari anche qualcosa in più. Dopo, invece, c’è stato chi aveva una parte molto paterna, quasi paura di lasciarti andare il giorno di riposo. Chi più paterno, chi più permissivo. Per quello vieni formato da varie mentalità e da ognuno prendi il meglio che tu ritieni sia tale”.

Quella Nazionale era stata abbastanza forte da fare quelle due Olimpiadi di cui si diceva, ’92 e ’96, ben diverse tra loro.

Son sempre Olimpiadi, e ce le siamo comunque guadagnate sul campo quelle del ’92. Col fatto che c’era stato il problema della Jugoslavia si era liberato un posto e, durante le qualificazioni olimpiche, abbiamo fatto un’ulteriore finale contro il Canada, che abbiamo vinto. Le facemmo, le qualificazioni, a Vigo. Avevamo perso in finale contro il Brasile di Paula e Hortencia, due fenomeni. Il giorno dopo abbiamo rigiocato contro il Canada perché c’era la possibilità di avere un posto in più a causa della mancata partecipazione della Jugoslavia. Fino all’ultimo non s’è saputo, era una sorta di ‘intanto giocatevi il posto, perché si potrebbe liberare’. Ce lo siamo giocato, e abbiamo vinto. A poche settimane dall’inizio, con l’embargo della Jugoslavia a causa della guerra, la squadra è stata esclusa. Poi c’è stata l’Olimpiade di Atlanta, che venne dopo il secondo posto degli Europei di Brno”.

Il Brasile finisce sempre per essere filo conduttore negativo, perché ci furono sia quella sconfitta prima di Barcellona ’92 che l’altra del girone ad Atlanta.

“Qui a casa mia ho una stanza dedicata, lo chiamo ‘il museo Fullin’, e ho una fila di videocassette dove ho tutte le partite delle Olimpiadi di Atlanta. Tutte. Guardando l’etichetta ho detto ‘mamma mia’. Certo che me la ricordo quella con il Brasile. Era una squadra che aveva 3-4 fuoriclasse. Hortencia, Paula e delle pivot supersoniche. Però eravamo lì, e non a casa a guardarle in televisione. Facevamo parte degli undicimila atleti che possono fregiarsi di aver partecipato alle Olimpiadi e alla cerimonia di apertura delle stesse”.

Andandosi a rileggere chi c’era ai quarti di finale allora si trovano: Brasile, Cuba, Ucraina, Italia, Russia, Australia, Stati Uniti, Giappone.

“Giappone che noi abbiamo battuto”.

Queste sono quasi tutte le scuole cestistiche di oggi.

“Esatto. Quindi…”

Il Brasile adesso è un po’ in difficoltà, Cuba è un po’ che non si sente a livello internazionale, però le altre ci sono ancora tutte.

“Cuba però era forte, accidenti se lo era! Fra l’altro col fatto che una volta non potevano neanche uscire di casa erano tutte lì. Adesso non so se magari da loro è cambiato qualcosa, credo che possano andare in giro. Erano delle potenze”.

Ai tempi quali erano le giocatrici veramente immarcabili?

“Io ho avuto l’onore di marcarle tutte, quelle forti, perché ero un grosso difensore. Sfide memorabili me ne ricordo. La brasiliana Hortencia, poi c’era l’ucraina Olena Zhyrko. Come americane, anche nel campionato italiano, LaTaunya Pollard, Lynette Woodard, Cynthia Cooper, Linelle Jones. Me le sono marcate tutte, e credo di aver fatto vedere loro alcuni sorci verdi. Poi c’era la slava Danira Nakic, la spagnola Blanca Ares, la francese Odile Santaniello. Anche Natalia Zasulskaja, che era dieci centimetri più alta di me. Ho marcato di tutto e di più. Son stata anche contenta. Poi ci stringevamo anche la mano”.

Poi Semionova che aveva un che di equivalente femminile di Tkachenko, il gigante sovietico di allora.

“Le ho marcate a livello europeo tutte”.

C’è stato un brevissimo periodo, nel 2000, da coach della Nazionale.

“È stata una cosa molto strana. Quando ho smesso di giocare, nel 1998, Riccardo Sales mi invitò a partecipare a un corso di alta specializzazione per le atlete nate nel 1985. Quindi io andai a Francavilla al Mare a fare la dimostratrice di quegli allenamenti. Riccardo, alla fine di questa esperienza, mi disse ‘Mara, ma lo sai che sei portata per allenare?’, al che gli dissi ‘Ma cosa dici?’, non me l’aspettavo. Mi prese come assistente allenatrice nell’Under 20 insieme a Marcello Ruffo, un altro grande e bravo allenatore veronese, che è un medico, e cominciai quest’esperienza. Poi andai a fare i Campionati Europei, quindi sono entrata a far parte della Nazionale A come viceallenatrice. Poi c’erano sempre un paio di assistenti. Nel 2001 ci furono i Giochi del Mediterraneo e, alla vigilia, la Federazione mi lasciò a casa perché c’è un numero di persone che possono partire. Per portare un dirigente federale lasciarono a casa la terza vice. Queste sono le cose all’italiana. E potrei dirne altre. Poi mi sono fermata per la maternità. Nel 2005 la Federazione mi ha ricercata per fare la team manager, perché era un giusto compromesso anche con i miei impegni, avevo mia figlia di 3 anni. Magari un giorno si può anche prendere e tornare a casa, ma di raduno non ne ho mai saltato uno ad ogni modo, perché quando prendo un impegno lo porto a termine. E lì per tre anni ho fatto la team manager. Però l’esperienza da vice mi era piaciuta molto”.

La visione del basket italiano di oggi, da questo quadro, appare positiva, ma con una riserva legata a quella che è la pallacanestro di oggi.

“Io alleno e ho altre passioni. Chi lo fa per lavoro deve star lì sul pezzo. La mia è passione. Non è più che sono una professionista, che ho un contratto. Le mie passioni me le coltivo e se, oggi come oggi, quest’attività del nordic walking mi da molta più soddisfazione, la domenica vado a farmi una gita fuori porta invece che farmi 100 km per vedere una partita di basket femminile. Questo è fuori discussione. Siccome posso scegliere, la passione oggi non mi porta a vedere una partita di basket che mi diverte poco. Se capita l’occasione, una volta partivo di casa e non vedevo l’ora. Adesso vado a fare altro”.

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Credit: Ciamillo

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