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Marcella Filippi, basket femminile: “Olimpiadi, rinvio doveroso. Ora c’è più tempo per arrivare pronte. Sto curando la passione della cucina”

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Per parlare di Marcella Filippi basta un solo termine: esperienza. Quella che l’ha portata, passo dopo passo, a scalare con tanto impegno tutte le tappe della pallacanestro italiana: dall’A2 alla A, fino alla Nazionale maggiore e all’Eurolega. Il picco è arrivato nel 2018, ma nel 3×3, con la vittoria ai Mondiali nelle Filippine che ha rappresentato un traguardo storico per il movimento italiano in senso assoluto. In quest’intervista la giocatrice tocca questi argomenti, ma anche alcune altre sfere che vanno dal professionismo ai progetti futuri, che non sono per forza legati al campo. Il tutto sempre con il sorriso.

Quali sono le sensazioni alla fine di una stagione che è diventata di fatto una non stagione?

“La sensazione è quella di aver lasciato qualcosa di incompiuto, anche perché dopo un’annata che si stava mettendo bene è ancora più spiacevole finire così, però ci sono cose più importanti nella vita, come vivere. Quindi quest’anno ci si deve per forza fermare, anche perché ci sono tante cose in gioco e tante persone in difficoltà, società idem. Tutto si ripercuote anche sullo sport”.

Fra l’altro parliamo di una zona d’Italia dove di problemi ce n’erano non pochi già allora.

“Come un po’ in tutta Italia. Soprattutto al Nord, in Veneto e Lombardia c’è stato il picco più alto”.

In quel momento, peraltro, non s’è capito niente prima della sospensione.

“No, nel senso che si aveva il sentore che si sarebbe fermato tutto, però nessuno voleva “ammetterlo” e accettarlo, perché da giocatrice dici ‘dai, non può essere’, da cittadino ‘però non è giusto, si deve fermare tutt’.

Anche volendo giocare a porte chiuse, il rischio c’è sempre perché parliamo di uno sport di contatto.

“Esatto, i contatti ci sono. Anche se tu ne fai un discorso di isolamento di squadra, non sai mai l’altra cosa fa, una cosa troppo complicata da gestire”.

Si parla anche di squadre che sono passate da e per zone molto critiche, e poteva succedere di tutto.

“Alla fine la cosa comune è la paura, che è il primo sentimento che si manifesta in queste situazioni, perché quando c’è l’incertezza c’è la paura, e siamo stati un po’ presi tutti da questo. È impossibile non sentirsi così. E pensa ai presidenti delle società che si sentono responsabili per noi, che giochiamo nella loro squadra. Non poteva esserci un finale diverso”.

A proposito di presidenti, anche per loro la situazione rischia di diventare complicata, perché c’è un’incertezza totale con la sola certezza delle conseguenze economiche.

“Assolutamente. Le conseguenze ci sono, ma tutto ripartirà o si fermerà assieme anche alle società, nel senso che gli accordi per questa stagione sono già presi e tutte le società si sono già accordate con le giocatrici, quindi a parte poche sono tutte abbastanza tranquille. Per la prossima stagione, per la ripresa, c’è da aspettare, ma è la stessa cosa che vale per la ripresa del lavoro, di tutti gli altri ambiti. Il fattore sport io capisco che per noi sia importante, perché molti di noi vivono di questo, ma non è nemmeno la più importante della vita. Quella più importante è che le aziende, il commercio, il turismo riprendano. Sono aspetti un po’ più importanti che dopo, una volta ripresi, fanno sì che si ricominci anche con lo sport”.

Non per caso tanti giocatori e tante giocatrici sono anche studenti, per preparare la vita dopo lo sport.

“Questo è anche un buon momento per prendersi del tempo per guardare alla propria vita, a quello che uno può sviluppare in questa pausa forzata dal nostro lavoro”.

Tornando sul campo: il tuo campionato di fatto è stato un po’ da totem d’esperienza.

“Sì. Io venivo da una stagione a Schio in cui ho fatto un sacco di esperienza, dove ho visto un campionato di un certo livello. Ho visto l’Eurolega, mi sono allenata con gente che l’ha vinta per tanti anni, che ha giocato in WNBA, e questa cosa mi ha fatto crescere molto a livello di conoscenza della pallacanestro, perché cresci e vedi un pochino prima le cose. Una volta tornata a giocare, usi tutto quello che hai visto con gli occhi. Mi piace catturare con gli occhi. Sono stata parecchio attenta nell’anno in cui magari ho giocato un po’ meno, e l’ho sfruttato. Poi è un anno un po’ particolare in cui ho giocato più da 3, che non è il ruolo in cui ho giocato per tutta la vita, che da 4, però mi sono divertita parecchio, perché è una cosa che mi ha sempre un po’ allettato. E poi per come la pallacanestro sta andando in questi anni si sta un po’ modificando la prospettiva”.

Diciamo che non ci sono più i ruoli fissi.

“Non sono più così rigidi”.

La stagione di Schio è stata la più strana degli ultimi anni a livello europeo, perché è partita 0-7 con meccanismi ancora da sistemare, una squadra più nuova del solito, poi è arrivata fino alla semifinale di EuroCup.

“Siamo partite forse con un po’ di inesperienza. Tante erano al primo anno di Eurolega, quindi ci sta avere un attimo per ambientarsi e capire il livello di gioco, la diversità tra Serie A1 ed Eurolega. Poi, con gli innesti che sono arrivati, vedi Allie Quigley, abbiamo avuto un cambio di ritmo, il gioco si è iniziato a vedere verso la metà del campionato. È diventato più fluido, siamo diventate più sciolte”.

Sei d’accordo sul fatto che Quigley sia, se non la più forte, una delle più forti giocatrici passata in Italia negli ultimi anni?

“Sono pienamente d’accordo. Quando la guardavo allenarsi era come essere a un clinic. Anche lì il fatto di poter vedere gente così forte, cercare di carpire i loro segreti per capire su cosa lavoravano, per poi risultare così pestifera dall’arco. Èstato bello perché non capita tutti i giorni di allenarsi con Quigley o Lavender o Gruda”.

Sandrine Gruda che ha fatto una stagione magnifica in Eurolega.

“E infatti è entrata nel miglior quintetto”.

A proposito di persone che potevano esserci nell’annata 2018-2019, nella stessa diretta Facebook in cui ha annunciato l’arrivo di Giorgia Sottana a Schio, il gm Paolo De Angelis ha detto che avrebbe potuto arrivare Elena Delle Donne. Non si è poi concretizzato, però avresti potuto averla come compagna.

“Io con lei ci ho anche giocato, perché nel 2015 con la Nazionale affrontammo Team USA a Roma ed è stata una cosa incredibile. Ho messo una tripla davanti a Candace Parker ed ero lì che dicevo “no, dai, no!”. Non è che difendevo, le guardavo e volevo guardarle bene”.

Quella fu anche una partita spettacolare che avrebbe meritato una miglior promozione, perché all’inizio si doveva giocare nell’impianto della Stella Azzurra e solo poi l’hanno spostata al PalaTiziano, il giorno stesso. Se si fosse fatto prima, forse non sarebbero arrivate 600 persone, ma 3000 come accadde nel 2007 per la stessa cosa.

“Bisognerebbe aumentare la pubblicizzazione degli eventi, delle giocatrici, perché anche il fatto di sapere che viene a giocare la tal giocatrice che gioca in WNBA, che noi vediamo in televisione va pubblicizzato meglio”.

Quell’esperienza a Schio è stata un capitolo di mezzo rispetto agli anni di San Martino. Cosa si è creato per far sì che ti sia convinta a restare tutto questo tempo?

“San Martino è una società dove si sta bene come persone. Si viene accolti prima di tutto come persona, non come giocatrice-atleta. La persona viene prima di tutto. Poi c’è il discorso atletico e di squadra, però c’è sempre un rispetto di quello che si è. In più c’è un ambiente dove sanno di essere una famiglia con lo staff, i dirigenti, gli sponsor. Sono tutti super interessati, presi da quel che sono le giocatrici. Siamo coccolate e allo stesso tempo rispettate, è bellissimo. Il palazzetto è sempre pieno, Larry (Gianluca Abignente, che nell’ambiente è così noto, N.d.R.), che mi allena da 8 anni ormai, perché ho fatto 3 anni con lui a Udine più 5 qua”.

C’è un lato simpatico a livello cromatico: prima avevi sempre giocato in biancoblu tra Carugate, Libertas Udine, Faenza, Pomezia e La Spezia.

“Direi i colori perfetti, che si abbinano con le mie scarpe preferite, bianche!”

Capitolo Nazionale: non c’è stata solo l’esperienza con Team USA, perché di tanto in tanto qualche chiamata azzurra c’è stata.

“La prima volta è stata per un All Star Game, si era fatta male Giulia Gatti, che è play (infatti non so perché abbiano chiamato me). Avevo trent’anni, quindi è stato, anche se era una tantum, come se avessi vinto un sacco di oro. Poi con Roberto Ricchini ho fatto un mese e mezzo prima degli Europei 2015 a Oradea, in Romania, ed è stato tosto, ma bellissimo. Il fatto che io sia arrivata comunque a togliermi delle soddisfazioni, di esser convocata e di fare dei raduni a trent’anni da speranza a quelle giocatrici che non vengono calcolate dal Settore Squadre Nazionali alle giovanili, di non mollare, e di continuare a lottare in quello in cui credono”.

Anche perché non per forza il percorso di un giocatore o di una giocatrice è lineare in questo senso.

“Ognuno ha il suo percorso, certo. Nasci in una certa realtà e fai con quello che hai”.

Delle esperienze biancoblu di cui si è parlato, quale consideri la più importante?

“Vale anche la Nazionale?” (ride)

Ce la possiamo mettere!

“La più importante è quella dei Mondiali 3×3 sicuramente. Come club gli anni a Udine, dove Larry ha lavorato su di me. Non è stato facile per entrambi, soprattutto per lui, ma mi ha fatta uscire come giocatrice, mi ha fatta venir fuori e dato la possibilità di salire di categoria. Se non avessi incontrato lui probabilmente non avrei lavorato su certe cose, non avrei lavorato così, non avrei avuto la fiducia per poter stare in campo”.

Com’è cominciata la tua storia con il 3×3?

“Io da sempre, da quando avevo 12-13 anni, d’estate andavo e vado tutti i giorni al campetto a giocare. Questa parte street ce l’ho nel DNA e me l’ha passata mio fratello. Io lo seguivo, lui andava a giocare, io andavo a tirare, non mi facevano giocare all’inizio. Poi la prima convocazione, probabilmente mi hanno vista a qualche torneo 3×3 in Italia, e sono andata a fare i Mondiali nel 2014 a Mosca. E da lì non ne ho saltato uno: 2014, 2016 in Cina, 2017 a Nantes, 2018 nelle Filippine, 2019 ad Amsterdam”.

Di Manila quali sono le sensazioni che ricordi?

“È stato un crescendo perché i filippini si sono appassionati al nostro modo di giocare, di lottare in campo. L’hanno visto subito, fin dalle prime partite, poi c’era una Rae (D’Alie, N.d.R.) che era incontenibile ed era una trascinatrice anche del pubblico. Finiva le partite e spesso le interviste le facevano a lei, che parla inglese da madrelingua. La gente impazziva, sembrava una predicatrice in quelle messe americane, che aizzano la folla”.

Il che per il popolo delle Filippine è come il pane.

“Loro impazziscono per la pallacanestro”.

Cosa pensi del rinvio delle Olimpiadi?

Era doveroso. Bisogna prendere le cose positive, e in questo caso si può prendere il fatto che c’è più tempo per arrivare pronti a uno degli appuntamenti più importanti per questo sport, in Italia soprattutto, visto che una delle poche possibilità per partecipare alle Olimpiadi passa da questi due Preolimpici a cui ci siamo prese il diritto di partecipare, avendo fatto tutti gli eventi possibili e immaginabili l’estate scorsa. Quindi bisogna giocarsi bene le proprie carte, a maggior ragione visto che abbiamo più tempo per prepararci, e anche per sperimentare, per inserire nuove giocatrici ed essere più esperte possibile, nonostante magari ci siano nuovi innesti. Però si ha il tempo di provare quello che è a tutti gli effetti il nuovo assetto e il nuovo sport, perché tante giocatrici non l’hanno mai fatto”.

Quali sono le tue prospettive a breve termine?

“Ho iniziato a fare una specie di blog di cibo, perché una delle mie passioni è cucinare (e anche mangiare, ovviamente). Sto curando questa cosa, mi prendo e mi perdo un po’ nella cucina in modo che le giornate non siano tutte uguali”.

Piatti preferiti?

“Mi piace sperimentare un po’. Dalle mie compagni di squadra i cavalli di battaglia sono gli gnocchi di zucca e la pizza che, bene o male, tutte le mie compagne hanno assaggiato almeno una volta nella loro stagione con me. Però adesso sperimento, vado dalla pasta fresca ai biscotti a delle lasagne rivisitate senza l’impasto, o i ravioli, la pasta a mano. Tutto”.

Poi magari ci apri un’attività.

“Intanto sto dando delle lezioni private, faccio dei menu e in videochiamata cuciniamo insieme. È un po’ una professione, con delle lezioni di cucina a distanza”.

Il professionismo nello sport femminile, tema ormai caldissimo: le tue idee?

“Ci sono pareri discordanti: da una parte sarebbe bello essere riconosciute come professioniste, ma di base posso dire che io sono una professionista, non c’è bisogno che qualcuno me lo dica per legge. Quello che si può fare è educare. I contro dell’essere professionista sono che noi siamo un costo per le società, ora. Se dovessimo diventare professioniste diventeremmo il triplo, quel costo diventerebbe il triplo. Quindi le società, in quel caso, ci abbassano lo stipendio, e allora è un gatto che si morde la coda. Secondo me, visto che l’INPS non ci riconoscerà mai la pensione, visto che la vedo dura diventare professioniste e lottare per dei diritti che non ci verranno mai assegnati, bisogna istruire le ragazze e cercare di salvaguardare le atlete dal punto di vista previdenziale. Tu sei una mia atleta, io ti dico che tu ogni mese metti via tot per il tuo futuro. Ti do una buona assicurazione. Deve esserci una protezione a 360 gradi da parte del procuratore. Poi per il resto che io per legge non sia riconosciuta professionista va bene, ma le persone che mi conoscono sanno che sono una professionista dentro e fuori dal campo”.

Gli allenatori per te più importanti?

Larry Abignente, ma ho preso tantissimo da tutti, da Massimo Riga a Pomezia, da Loris Barbiero a La Spezia, da Pierre Vincent a Schio l’anno scorso”.

Giocatrici con cui ti è piaciuto di più giocare?

Egle Sulciute. Che non è solo quest’anno, quindi vale anche per gli altri”.

Ti hanno chiamata in mille modi: tu preferisci Marci o Maja?

“Mi chiamano anche Marcia, ma adesso mi chiamano un po’ tutti Marsel. Però va bene come viene”.

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Foto: fiba.basketball 3×3 Europe Cup 2019

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