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Martina Kacerik, basket femminile: “La riabilitazione procede bene. A Ragusa convinta da Recupido. Tra fare 45 punti e farne fare 2 scelgo la seconda”

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Martina Kacerik, il 9 novembre 2019, ha visto fermarsi d’improvviso tutte le proprie speranze per la stagione. Durante il big match contro la sua ex squadra, la Reyer Venezia, la guardia di Ragusa ha subito una lesione del tendine d’Achille che ne ha concluso in anticipo l’annata. Un colpo difficile per la classe ’96 di Segrate, che ha dovuto dare direttamente l’appuntamento all’annata 2020-2021, ma non l’ha in alcun modo fiaccata nell’intenzione di ritornare sul parquet. Questa e altre riflessioni sono l’oggetto dell’intervista che ci ha concesso, che verte anche su un confronto Italia-NCAA, sul passato e sul futuro.

Come procede la riabilitazione e quali sono state le fasi della stessa fino a questo momento?

“Procede bene, nel senso che miglioro sempre. Anche in questo periodo in cui sono stata a casa avevo degli esercizi da fare. All’ultima visita mi hanno detto che sono migliorata. Mi sono operata il 13 novembre, poi ho portato il gesso per un mese e mezzo, quindi ho iniziato la riabilitazione ai primi di gennaio facendo cinque giorni a settimana. L’ultima volta che sono andata era il 16 marzo. L’obiettivo ora è correre, prima era quello di camminare bene, pur con le stampelle, poi una volta fatto quello è iniziato il lavoro sulla forza e sulla muscolatura. Ora è quello di migliorare la forza in modo da sostenere il carico della corsa, per poi arrivare ai salti e a tutto quello che serve poi a tornare in campo pronta”.

Quanto ti sono stati vicini tutti, tra società, compagne, famiglia e affetti?

“Sono stati tutti super. La società è sempre rimasta in contatto, sono scesa un paio di volte da quando mi sono operata ed è sempre bello. Ho sentito le compagne in questo periodo, sono tutte tornate a casa. Sono sempre state vicine”.

Il fatto che lo stop da lungo sia diventato lunghissimo ti lascia, su questo non c’è dubbio, un maggior margine di calma per riprenderti.

“Sì, esatto. Nella sfortuna, alla fine, mi è andata anche bene perché ho tanto tempo per poter recuperare e tornare in forma. Alla fine, essendomi fatta male presto durante la stagione, avrei avuto comunque tempo per recuperare bene per la prossima, però è anche vero che un po’ di tempo in più non fa mai male”.

Fra l’altro stavi rientrando nel giro della Nazionale, perché, seppur da riserva a casa, ti aveva richiamata Capobianco.

“Non ero nel gruppo, però ci sta. Nei due anni a Venezia Crespi mi ha chiamato qualche volta, quest’anno stavo facendo una stagione discreta rispetto a come stavo giocando in quelle precedenti. È comunque sempre un obiettivo, quello finale è sempre quello e lo sarà quando si tornerà a giocare”.

E poi subito prima dell’infortunio avevi avuto il picco dell’inizio di stagione, con i 20 punti del derby contro Palermo.

“Era la partita subito prima dell’infortunio”.

Come mai hai scelto di andare a Ragusa?

“Avevo voglia di ritrovarmi cestisticamente. Parlando con la società, con il coach, mi è sembrato l’ambiente giusto. Poi ho parlato con quelle che poi sono diventate le mie compagne, che conoscevo già da prima, e mi hanno sempre detto che Ragusa è un ambiente bello in cui stare. Avevo bisogno di serenità, di un bell’ambiente intorno. Non che prima non ce l’avessi, perché comunque Venezia è super. Però avevo bisogno di ritrovarmi in campo più che altro. E Ragusa secondo me era l’ambiente giusto per poterlo fare. Le parole di Gianni Recupido mi hanno convinta a venire, e alla fine penso sia stata la scelta corretta”.

Si percepisce che per te i due anni alla Reyer non siano stati così soddisfacenti.

In realtà tornassi indietro farei le stesse scelte. Io mi sono trovata benissimo, la società e l’ambiente sono super. Non mi sono espressa al meglio in campo, ma non è dettato da quel che avevo intorno o dalla squadra, semmai ero io che probabilmente non ero pronta. Quindi ho voluto cambiare perché volevo un po’ ritrovarmi. Mi è andata di lusso che sono finita a Ragusa, ma il discorso era sempre quello che non ero pronta mentalmente, fisicamente. Non sono riuscita a dare quello che potevo”.

Un impatto, quello con la parte alta della Serie A1 e con l’EuroCup, che in sostanza pensi di non esser riuscita subito a reggere.

“Probabilmente è così”.

In Serie A1 attualmente c’è una buona fetta del blocco delle giovanili del Geas di cui facevi parte.

“È bello alla fine. Le giovanili al Geas sono sempre un bel ricordo. Siamo sempre state più o meno lo stesso gruppo dall’inizio alla fine, non so se altre annate hanno vinto quanto la nostra. Ci conoscevamo a memoria, sapevamo come giocare insieme perché ci siamo state ininterrottamente dall’Under 15 all’Under 19. Eravamo una bella squadra, alla fine, crescendo insieme così, avendo la possibilità di fare esperienza in prima squadra da giovani, che può essere A2 come A1, aiuta tanto, soprattutto che hai un gruppo così con cui ti ritrovi a giocare tanto nelle giovanili quanto in campionato senior, quindi ti viene un pochino più facile anche se è più difficile giocando contro gente più grande, perché conosci già le persone con cui stai giocando. Quindi sono state belle esperienze”.

Avete vinto sei scudetti, il cui equivalente più noto lo si potrebbe trovare al maschile nella Rimini di Carlton Myers.

“Chiaro, sono scudetti giovanili, ma sono comunque soddisfazioni. Alla fine a 15 anni è il massimo che puoi vincere, quindi è sempre bello ripensarci e ripensare a come siamo arrivate dall’Under 15 all’Under 19″.

In più di un’occasione hai sottolineato il fatto che Torino sia stata per te una tappa importante.

“È stato il primo anno fuori casa, perché ho sempre giocato al Geas ed è stata la prima volta in cui ho vissuto da sola, mi sono allontanata da casa. È stato importante sia dal punto di vista cestistico, perché mi sono ritrovata a giocare in una nuova squadra dopo 10 anni in cui l’ho fatto con le stesse persone, che dal punto di vista mentale e tecnico. Cambi allenatore, ambiente, tutto. Sono cresciuta dal punto di vista personale perché sono andata fuori casa a vivere da sola, e poi dal punto di vista cestistico l’allenatore (Marco Spanu, N.d.R.) mi ha aiutato tanto perché più di una volta mi ripeteva che dovevo essere incisiva in attacco quanto lo ero in difesa. Forse anche mentalmente sono cresciuta un po’ anche da quel punto di vista”.

Parlavi del gruppo che, bene o male, era sempre lo stesso al Geas. Però anche nelle Nazionali under il discorso era simile.

“Più o meno sì. Le Nazionali under le ho fatte con la mia annata e anche con le ’95. Con le ’96, ovviamente, l’Europeo Under 20 è stato forse quello che ricordo con più emozione. Adesso, se ci ripenso, siamo arrivate seconde, quindi è super. Lì, sul momento, ci siamo mangiate le mani per un po’ perché perdere di due così, allo scadere, non si manda giù facilmente. Adesso, pensandoci, abbiamo fatto un Europeo clamoroso, perché dall’infortunio di Marzia Tagliamento siamo poi arrivate in finale, forse contro i pronostici. Eravamo un bel gruppo, c’era Zanda (Cecilia Zandalasini, N.d.R.) che ha fatto una cosa che è impossibile da descrivere, perché è stata super. Nei momenti in cui doveva segnare segnava più o meno sempre, e anche in semifinale eravamo sotto di 20 all’intervallo e l’abbiamo recuperata tutte insieme. Ci siamo guardate in faccia e ci siamo dette ‘non possiamo lasciarle vincere così dopo tutto quello che è successo in quest’Europeo’, e Cecilia ci ha prese un po’ tutte sulle spalle. Tanta roba”.

E si vedeva che quello era un gruppo vero.

“Forse è l’anno in cui il gruppo si è unito di più, perché l’infortunio di Marzia pesava, era un terminale offensivo importante. Nel momento in cui si è fatta male le cose erano due: o ci si rassegnava al fatto che non si potesse fare più di tanto oppure ci univamo e tentavamo di dare il massimo senza di lei. Alla fine l’abbiamo fatto, non siamo arrivate fino in fondo, però recuperare una finale in cui sei stato sotto di 20 all’intervallo non è così scontato”.

Sul 69-69 c’è stato quel fischio così discusso.

“Ti dico la verità: sul momento ho detto “non fischiarlo mai quel fallo, lasciaci giocare e andare al supplementare”. Adesso, col senno di poi, dico che era fallo tutta la vita. È brutto perché arrivi pari a 10 secondi dalla fine e un fischio ti decide la partita, però c’era”.

Hai mai considerato l’idea di fare un’esperienza fuori dall’Italia?

“Quando c’è stata la possibilità di andare al college ci ho pensato un po’, però poi ho deciso di rimanere perché penso che il livello dell’A1 qui sia migliore del livello del college lì, ma semplicemente per il fatto che lì giochi con gente bene o male della tua età, e qua magari contro Chicca Macchi. Era anche un fatto di studio. La mia idea iniziale era fare fisioterapia, e lì quattro anni di fisioterapia non esistono. Semmai esiste di fare prima una cosa, poi un’altra, e sarebbero stati troppi anni. Poi alla fine non l’ho fatta più, però è stato un mix di tutto. Penso che sia un’esperienza sicuramente bellissima, però non tornerei indietro per farla. Andare in Europa forse sì. Adesso no, perché penso, anche se è brutto da dire, di non essere ancora a quel livello, però un giorno mi piacerebbe”.

Contro o con Chicca, visto che l’hai avuta come compagna.

“Lei è super, io poi ci ho legato veramente tanto. Potrebbe guardarti dall’alto in basso, ma non lo fa per niente. Giocarci contro non è sempre facilissimo, insieme invece è veramente facile”.

Più che di brutto da dire, si parla di sapere dove si è e dove si vuole arrivare: obiettivi, in pratica.

“Brutto da dire in realtà più perché mi suona male, però c’è il fatto di non essere al livello di poterlo fare, ancora. Probabilmente tra qualche stagione, se continuerò sulla strada in cui ero, perché no. Però ora no”.

Nell’ultimo Consiglio Federale si è paventata l’idea di creare delle mascherine speciali per giocare, in una collaborazione FIP-Politecnico di Torino. Tu cosa ne pensi?

“Non lo so. Però ho fatto riabilitazione con la mascherina e volevo piangere. Camminare sul tapis roulant per 10 minuti a momenti mi faceva venire l’asma. Dipende da come sono strutturate, però se sono mascherine “normali” non è fattibile. Manca proprio l’aria. Penso che non ha senso giocare rischiando, ma non lo ha nemmeno giocare con mascherine che compromettono la prestazione”.

Che poi è, in certa misura, anche il tema della contraddizione che esiste tra il giocare senza pubblico (o con distanziamento), ma dovendo, in campo, stare a poca distanza e passarsi la palla.

“Se mi fai controlli ogni tot  il modo ci sarebbe anche di poter giocare. Il problema è che sono costi, che non so se valgano la pena. Non so se sia meglio spendere tanto per fare controlli, organizzare trasferte sicure, o sia meglio aspettare, evitare tutti quei posti e posticipare il campionato. Non è il mio lavoro però, non ne ho idea”.

Tra gli allenatori, quali sono quelli che ti hanno dato la maggiore impronta?

“Bene o male tutti quelli che ho avuto. Cinzia Zanotti ovviamente mi ha cresciuta, non sarei arrivata dove sono senza di lei. Poi Marco Spanu, l’allenatore di Torino, mi ha fatta crescere tanto dal punto di vista mentale. I due anni con Andrea Liberalotto a Venezia sono stati un po’ particolari, però sono cresciuta veramente tanto. Mi sono rafforzata mentalmente, e lui tecnicamente è bravissimo. Poi Gianni Recupido è uno top. Io quest’anno stavo facendo tanto grazie a lui, perché mi ha dato un sacco di fiducia e ne avevo proprio bisogno. Mi dava pillole di autostima che, secondo me, mi hanno aiutata tanto, perché è vero che bisogna essere umili, però ogni tanto sentirsi dire quanto vali ti fa bene”.

Un Gianni Recupido di cui parli dal lato tecnico, ma soprattutto da quello psicologico che viene un po’ troppo sottovalutato.

“Assolutamente. Gianni è un allenatore fantastico dal punto di vista tecnico, però se prendi anche il suo lato umano è quello che ti da fiducia, che te la fa sentire, ed è la combinazione perfetta”.

Oltre a Macchi, quali sono le giocatrici che ti hanno lasciata il segno?

“In qualche raduno in Nazionale Giorgia Sottana, poi anche giocare con Zanda, siamo cresciute insieme e ci siamo aiutate a vicenda in determinati periodi. Poi tante americane di varie squadre, parlo di campionato italiano ed EuroCup. Difendere su un’americana non è semplice. Se poi pensi che è quello che tendenzialmente faccio un po’ meglio, mi ritrovo spesso a difendere sull’americana che segna di più dell’altra squadra. È una sfida, però è la cosa che mi piace di più. Sinceramente se mi devi dire se preferisco fare 45 punti a partita o farne fare due alla migliore dell’altra squadra prendo la seconda opzione“.

Ed è difficile difendere sulle americane anche per la differente mentalità da cui vengono.

“Ci sono anche tante italiane forti su cui non è semplice difendere. Dico le straniere perché comunque sono quelle che hanno di più la palla in mano durante la partita”.

Magari poi un giorno ti fai Ministro della Difesa al posto di Martina Crippa?

“Sarebbe bello, perché lei è una delle giocatrici che mi piace di più del campionato italiano. Tante volte non si vede tutto il lavoro che fa, però è tanto. Quand’ero piccolina, avevo 14 anni, facevo qualche allenamento con la prima squadra del Geas, e c’era lei, ed era super. Facevo un allenamento a settimana, quindi gli schemi non è che li sapessi tutti bene. Ricordo che c’era lei che dava indicazioni su dove andare in campo perché è veramente super. Secondo me è una delle giocatrici con cui è più bello giocare”.

Fra l’altro lei ha saputo reinventarsi completamente, perché è passata dall’essere realizzatrice di alta fascia al ruolo di specialista difensiva.

“Io penso che lei sia una giocatrice di quelle che ovunque la metti fa bene perché fa sempre il suo. È super”.

Oltre il campo quali sono i tuoi interessi?

“Guardo più o meno 200 serie al giorno ovunque, Netflix, Amazon Prime e via dicendo. Però in questa quarantena ho riscoperto che mi piace disegnare. Non lo facevo da anni. Poi sto studiando, ho iniziato scienze motorie e sono riuscita a dare un paio di esami in questa quarantena. Almeno sono stata produttiva! E comunque è importante studiare, perché, dopo la pallacanestro, che cosa si fa? Tendenzialmente non penso si possa vivere per sempre di basket, o almeno non con quello che guadagniamo durante la carriera. Qualcosa si deve trovare. A me continuare a studiare scienze motorie piace. Rimanda un po’ a quello che faccio. Magari ci metterò sei anni e non tre, ma continuo”.

Hai toccato due punti importanti: il primo è il legame sport-studio, che tantissime giocatrici vivono, e il secondo è quello dei guadagni, che porta direttamente alla controversia del professionismo femminile.

“Rimane il fatto che comunque dopo la pallacanestro bisogna avere un piano B. Continuare a studiare serve per quello. Che poi sia scienze motorie o altro non so, però almeno è una cosa che ho e nel caso posso usare”.

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Credit: Ciamillo

 

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