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Marzia Tagliamento, basket femminile: “Sto lavorando per tornare in Nazionale. Vorrei restare a Ragusa. A Battipaglia devo tutto, ma…”

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Sulla carta d’identità gli anni sono 24, ma per esperienza cestistica Marzia Tagliamento ne dimostra molti di più. Brindisina di nascita, dopo gli esordi nella sua città alla Futura Basket ha preso la via di Battipaglia, prima di lanciarsi nel gotha del basket femminile nazionale. La sua parabola è passata anche dalla Spagna, prima di tornare in Italia ancora con Battipaglia prima e con Ragusa, una delle tre grandi pretendenti per la vittoria dello scudetto, poi. L’abbiamo raggiunta per un’intervista telefonica sulla via del ritorno verso la propria terra: ci ha parlato della sua carriera, della Nazionale e di alcune delle vicende più attuali del mondo della palla a spicchi.

Come hai vissuto l’interruzione della Serie A1?

“Abbastanza male. Le cose stavano andando molto bene. Dopo che sono andata via da Battipaglia era iniziata la mia vera stagione a Ragusa, mi sono trovata bene fin da subito, stavo benissimo e avevamo molte chance di vincere il campionato quest’anno. Quindi è stato un brutto colpo”.

Peraltro le squadre siciliane hanno avuto delle situazioni un po’ particolari, perché l’interruzione ha avuto modalità poco chiare: qualche squadra è stata fermata in viaggio, altre mentre erano già in Sicilia.

“Ci siamo trovate in una situazione in cui nessuno era mai stato. Anche noi abbiamo affrontato viaggi in cui non sapevamo se dover giocare o no. Per esempio mi viene in mente l’ultima partita con Vigarano. Alla fine la nostra è stata l’ultima squadra che ha giocato. Ma potrei parlare anche di quando San Martino di Lupari è venuta da noi. Affronti un viaggio, ti prepari tutta la settimana per preparare quella partita e poi non sai se giochi o no. È stata una situazione abbastanza destabilizzante, ma nessuno di noi poteva controllarla. Purtroppo è andata così”.

Per non parlare delle squadre che hanno giocato partite a porte chiuse.

“Anche a noi è capitato, a Costa Masnaga, ed è brutto perché alla fine i tifosi ti cambiano tutto, anche il ritmo partita, ti danno quella carica in più, da avversaria ti danno anche quell’agonismo in più che comunque hai quando giochi. I tifosi fanno tanto, e giocare a porte chiuse per un giocatore di basket, ma anche per uno sportivo in generale, fa male”.

Anche perché è un tipo di situazione che sostanzialmente non si verifica nemmeno nelle giovanili.

“Esatto, e in più anche a Ragusa i tifosi sono tantissimi, quindi giocare senza di loro è come avere una sorta di smarrimento, dato che per noi i facevano tanto”.

Ragusa che poi è uno dei posti più caldi, a livello di pubblico, in Serie A1.

“Il pubblico è calorosissimo. Penso che potrebbe essere paragonato a Broni, perché anche quello è molto caldo. Però, essendo il PalaMinardi così grande, è un po’ sfavorevole nei confronti dei nostri tifosi. Nonostante questo non abbiamo mai sentito la loro mancanza, loro si sono sempre fatti sentire a ogni partita, ogni domenica. A proposito di caldo, tutti dicono che la città lo è e anche io lo pensavo finché sono arrivata qua. Mi hanno detto: ‘Ma tu non lo sai? Ragusa è nominata la Milano del Sud, cioè freddo atomico, nebbia la mattina presto, nebbia la sera, robe allucinanti’. Una cosa però è certa: quando esce il sole il caldo è meraviglioso, ma quando c’è il freddo si sente come se fosse Milano”.

Quello dei palazzetti sovradimensionati per l’A1 è un problema non solo di Ragusa, ma anche di altre squadre: pur cercando di diffondere il basket femminile, ancora i numeri stentano a decollare nonostante i miracoli del movimento.

“Purtroppo il basket femminile non è seguito come quello maschile. L’unico motivo per cui penso sia così è perché fa meno scena, ci sono meno azioni spettacolari. La gente si appassiona di più al maschile a causa delle schiacciate, degli alley oop e di queste cose qui. Secondo me, però, la pallacanestro femminile in Italia è uno sport diverso rispetto a quella maschile, ma vale la pena guardarlo perché è totalmente diverso. Alcune partite sono fisiche tanto quanto quelle maschili, a mio parere. Noi donne non voliamo come i maschi, ma vale la pena guardare anche noi perché ce la mettiamo tutta, giochiamo con grinta e determinazione e quasi tutte le partite meritano”.

È una pallacanestro molto più di tattica.

“Sì, ovviamente non essendoci giocatrici così fisiche come gli uomini è tutto basato più sulla tattica, ed è questo che la gente magari non capisce, perché si fanno prendere dalla curiosità che desta la fisicità, l’esplosività degli uomini, ma nelle donne il fatto che c’è più discorso tattico è più una rarità. Potrebbero farsi prendere più da questa curiosità”.

In realtà, poi, che non ci sia lo stesso lato fisico del maschile, come hai detto, è una mezza bugia: per dirne una, se Martina Crippa si attacca ai pantaloncini di un’avversaria non è tanto semplice sfuggirle.

“Esatto, è una fisicità diversa. Ci sono certe partite in cui usciamo con graffi, lividi e cose varie, perché siamo fisiche nel nostro modo di essere. Non ci meniamo come i maschi, in un certo senso, perché non c’è quell’esplosività, ma c’è tanto nelle nostre partite”.

Andiamo un po’ indietro nel tempo: cos’è successo a Battipaglia, perché sei poi andata a Ragusa?

“Onestamente non c’è nulla da nascondere. A Battipaglia ci tornerei sempre, è un po’ la mia seconda casa, è iniziato tutto da lì. Io devo e dovrò tutta la mia carriera a Battipaglia, perché è stata il mio trampolino di lancio. Ci sono state però delle situazioni in cui ho sentito che mi si era mancato di rispetto prima come persona e poi come giocatrice, e questo, accompagnato dalla possibilità che mi si è presentata, cioè la chiamata da Ragusa, mi ha indotto a preferire la scelta di intraprendere il nuovo percorso con questa squadra. Il desiderio di poter vincere un campionato, invece di stare in un posto in cui non stavo benissimo e nel quale avremmo dovuto lottare per la salvezza, ha fatto sì che, ambiziosa come sono, volessi imboccare questa strada per provare a vincere qualcosa. Questo senza nulla togliere a Battipaglia, ma ci sono state delle occasioni in cui avrei preferito essere trattata con più rispetto proprio perché quella è la mia seconda casa. Sicuramente persone che magari non lo sanno, o non lo hanno vissuto negli anni precedenti, e non mi riferisco al presidente, mi hanno trattata come una persona qualunque, una giocatrice qualunque. A me questa cosa non è andata giù, e unita al desiderio di vittoria mi ha portato alla decisione di prendere la strada di Ragusa”.

Hai accennato al tuo inizio con Battipaglia, stagioni dal 2014 al 2016. In mezzo c’è stato l’esordio con la Nazionale: 7 ottobre 2015, al PalaTiziano di Roma, contro Team USA. Non uno di quei debutti da poco.

“Non fu facile, però è stato il debutto più bello della mia vita. Fra l’altro giocare in quel palazzetto è bellissimo”.

Ed eri arrivata da un buon percorso con le giovanili.

“A Battipaglia abbiamo sempre avuto, negli anni delle giovanili, delle squadre molto forti. Venivo dall’ultimo anno in cui abbiamo vinto lo scudetto a Bologna contro la Reyer Venezia, in volata, dopo esser state sotto di 15 negli ultimi otto minuti, ma abbiamo fatto una grandissima partita alla fine e l’abbiamo portata a casa”.

Poi c’è stato l’infortunio degli Europei Under 20, dopo il quale Cecilia Zandalasini si è presa in mano la squadra e ha fatto 31, 27 e 28 punti in quarti, semifinale e finale.

“Quello era il mio anno, l’ultimo di Nazionale Under 20. Purtroppo è successo quello che è successo, anche lì sono cose che non si possono controllare. Io e lei eravamo un po’ il punto di riferimento di quella Nazionale. Lei è stata molto brava a prendersi la mia parte e tirare avanti la squadra fino alla finale, davvero molto brava”.

Quell’infortunio ha creato qualche ritardo nell’inserimento a Schio.

“Sì, e non è stato semplice. Integrarmi nella squadra in realtà non è mai stato un problema, però riprendere fiducia in un club importante come Schio non è mai semplice. Però, onestamente, grazie alle mie compagne di squadra di allora e a Miguel Mendez, che mi ha dato fiducia da subito, non ci è voluto tanto”.

Parliamo di una squadra che aveva contemporaneamente Macchi, Sottana, Masciadri, Ress, Zandalasini e, nel complesso, un roster che per l’Italia era una sorta di All Star.

“Non è mai semplice integrarsi in un gruppo del genere, soprattutto perché loro giocavano insieme da più tempo di me. Io ero appena arrivata, stavo rientrando dall’infortunio, ma loro sono state brave a farmi integrare anche nel gioco da subito, la fiducia è venuta da sé”.

Come li ricordi quegli anni di Schio?

“Ho tantissimi ricordi positivi perché abbiamo vinto tanto. Non voglio dire una bugia, nel senso che essendo una squadra così grande e forte ci sono anche momenti di difficoltà, quindi gli anni di Schio li ricordo ovviamente con alti e bassi, ma ci sono più momenti di gioia che non. Quelli sono momenti che ci sono ovunque, soprattutto se sei in un top team. Poi a cercare di approntarmi nel migliore dei modi ne sono sempre uscita più forte, quindi l’esperienza di Schio è un’esperienza positiva e ci tornerei ogni giorno senza dubbio”.

Estate 2018. Irrompe, letteralmente, Napoli: si prende Macchi, si prende Ress, si tiene Pastore e arriva anche a te.

Napoli è stata veramente un fallimento, l’unico della mia vita, che se tornassi indietro non rifarei mai. Non darei mai l’opportunità a un personaggio del genere, come il presidente della Dike, di dargli la possibilità di prendersi gioco di me, della società e anche delle giocatrici, di me come di tutte quelle che sono arrivate a Napoli. Perché lì siamo state prese in giro fin dal primo giorno per quanto riguarda gli stipendi, tutto. È stata una preso in giro dall’inizio, sembrava tanto quando è venuto fuori che avevano preso tutta questa gente, c’erano grandi obiettivi, ma è sempre stato un parlare. Solo parole, zero fatti. D’altronde Gabriele D’Annunzio (omonimo dello scrittore di quasi un secolo fa, N.d.R.) è una persona del genere, quindi non ci si poteva aspettare altro da lui. Non gli darei neanche un’altra mezza chance”.

Dispiacque molto perché, al netto di qualche difficoltà iniziale, Napoli avrebbe potuto provocare uno scossone nella geografia del campionato italiano.

“Sì, tra tutte noi italiane e le tre straniere era una squadra che aveva praticamente vinto il campionato sulla carta. Poi ovviamente c’è da giocarsela in campo, però sulla carta eravamo fortissime. Il problema è che era tutto proprio sulla carta, fatti zero, squadra fortissima che è stata rotta dopo neanche un mese. Veramente una brutta esperienza quella”.

E le prime ad andarsene furono le americane.

“Loro se ne sono andate via già a novembre, dopo la pausa. Noi già a ottobre avevamo problemi, prima di iniziare il campionato”.

Dopo il fallimento c’è stato il fuggi fuggi generale, e tu sei andata in Spagna. Come mai?

“In Italia non c’era la possibilità di inserirsi in una squadra a gennaio-febbraio, è difficile, oltre al fatto che il mercato chiude il 28 febbraio. Le squadre a gennaio ormai son fatte, per noi italiane non è semplice trovarne una. Sono stata fortunata, e l’unica possibilità che ho trovato è stata in Spagna, perché avevano bisogno di un’esterna, avevano problemi di infortuni, io ho avuto questa grande possibilità e l’ho colta subito. Tra l’altro è stata un’esperienza molto positiva. Sarei rimasta in Spagna anche l’anno successivo, però avevano già tutte il contratto per la nuova stagione e avevano già contattato altre giocatrici, per cui non potevo restare. Però se mi si dovesse tornare a presentare un’offerta per giocare in Europa la sfrutterei ben volentieri”.

Fra l’altro lì in Spagna hai conosciuto Cata Pollini.

“Lei era la general manager di quella squadra. Splendida persona, lei, suo marito, la famiglia, tutti. Mi sono sentita quasi come se fossi in Italia e mi ha aiutata sin da subito, è sempre stata a disposizione, veramente una bella persona”.

Dopo la tua esperienza a Lugo, a livello di confronto quali differenze hai notato tra la Liga Femenina spagnola e la Serie A1 italiana?

“Praticamente è più competitiva come lega, quella spagnola, perché non ci sono tre livelli divisi come in Italia, con i tre top team, le squadre di media classifica e quelle di bassa classifica. Lì anche l’ultima se la può giocare con la prima. Ovviamente c’è un distacco dovuto al fatto che la prima ha un budget più alto. Inoltre in Spagna il limite di straniere è posto a sei, e non a tre come in Italia, e quindi incontri squadre in cui ci sono sei americane ed è un po’ più difficile in quel senso. Però lo vedo come un campionato più competitivo di quello italiano”.

Anche se poi lì alla fine negli ultimi anni il duello è sempre stato Avenida-Girona.

“Sì, poi c’è il Gernika nei Paesi Baschi. Queste tre sono le top, le altre però non sono da meno, anche Valencia”.

Sai già cosa farai nel futuro?

“Con questa situazione il mercato non si è ancora mosso, e non penso che lo farà a breve, quindi siamo tutte in attesa. Appena si muoverà qualcosa, vedremo. Se ci sarà la possibilità di rimanere a Ragusa, ovviamente, io resterei qui tutta la vita perché va tutto bene, ma se non ci fosse questa chance farò altre valutazioni che si vedranno”.

Il problema del mercato, fra l’altro, è strettamente collegato al discorso per cui le società devono pensare al taglio degli stipendi, ai costi, agli sponsor e chi più ne ha più ne metta.

“Esatto. Sarà tutto molto difficile, perché ovviamente la maggior parte degli sponsor è stata ferma a causa del virus, quindi sarà tutto molto difficile. Speriamo che ne usciremo nel migliore dei modi”.

Quanto ci speri nel ritorno in azzurro?

“Ci spero al 100%, nel senso che quello è sempre stato il mio sogno e quello, penso, di tutte le giocatrici. Sto lavorando per ritornare a vestire la maglia azzurra. Io faccio il mio, dopodiché se arriverà la chiamata, perché sono stata brava a lavorare, sarò molto più contenta”.

Che idea ti sei fatta del fatto che lo sport femminile abbia bisogno, in Italia, di mettersi in pari rispetto ad altri Paesi in tema di professionismo?

“Io penso che questa sia una cosa che bisogna assolutamente cambiare. Noi siamo giocatrici di fatto professioniste, che rinunciamo a quasi tutte le cose della nostra vita per fare questo lavoro. Perché è il nostro lavoro, e non capisco perché non debba essere valutato come professionistico. Noi lavoriamo ogni giorno in campo, ogni giorno ci svegliamo la mattina, andiamo in palestra come tutte le persone che fanno il nostro tipo di lavoro e non sono giocatrici di basket. Io non capisco perché non debba essere valutato come professionistico un lavoro che comunque fai quotidianamente. Posso capire che stai facendo la cosa che ti piace di più al mondo, ma siamo nelle stesse situazioni. Noi siamo delle professioniste perché siamo giocatrici serie, facciamo questo sport per professione e dobbiamo essere riconosciute come giocatrici professioniste. Assolutamente”.

C’è anche un altro aspetto: il problema non è soltanto per il fatto che, in fin dei conti, le donne si allenano allo stesso modo degli uomini, ma ci sono anche tutte le ricadute sulle società.

“Ovviamente. Tutti quelli che fanno questo lavoro, che sono all’interno di una società, fanno un lavoro professionistico. Questa è una cosa ampia, che riguarda tutti coloro che sono nell’ambito sportivo e in questo caso particolare cestistico”.

Quali sono gli allenatori che sono stati per te più importanti?

“Il primo è stato Massimo Riga a Battipaglia. Mi ha dato il trampolino di lancio. La cosa fondamentale è stata che lui lì mi ha dato un ruolo da protagonista all’interno della squadra e mi ha aiutata a venir fuori come giocatrice. Dopo di lui, Miguel Mendez a Schio, perché mi ha aiutato a riprendere la fiducia dopo la rottura del ginocchio e poi Pierre Vincent, sempre a Schio. Un grande lavoratore. Ma ho sempre avuto un buon rapporto da tutti, perché da tutti sono riuscita ad apprendere qualcosa”.

È particolare il fatto che hai citato tre allenatori di tre scuole ognuna con le sue differenze anche di formazioni. In questo senso Mendez e Vincent come le hanno fatte sentire all’interno del sistema di Schio?

“Vincent, quando è arrivato a Schio, si è integrato lentamente. Si è messo a disposizione della squadra cercando di capire quali erano le qualità di tutte e come metterle tutte insieme. Idem con Mendez: ha sempre cercato di assemblare la squadra al meglio per poter far venire fuori il meglio di ognuna di noi. Diciamo che questa è stata la qualità di entrambi. Poi ovviamente aspirano a vincere, quindi c’è sempre quella che gioca di più e quella che gioca di meno, però la cosa principale è che eravamo tutte unite, anche grazie al fatto che l’allenatore dava modo di farci sentire in questo modo”.

Quali sono le giocatrici che hai affrontato che ti hanno lasciato la più grande impressione e le compagne di squadra con cui ti sei trovata meglio?

“Per quelle con cui ho potuto giocare insieme, in quel poco tempo nel quale siamo state compagne di squadra a Napoli, Chiara Pastore. È stata una delle poche giocatrici con cui mi sono trovata benissimo perché mi cercava sempre, e per una tiratrice avere un play che la cerca sempre è fondamentale. Mi sono trovata però bene con quasi tutte le giocatrici con cui sono stata. Per quanto riguarda il giocare contro, Maya Moore, Diana Taurasi, sono tanta roba”.

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Credit: Ciamillo

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