Basket
Massimo Bulleri, basket: “Mancano giocatori italiani di alto livello europeo. Atene 2004 incredibile, Cecina e Treviso cordoni ombelicali”
Massimo Bulleri ha rappresentato per tantissimi anni un pezzo di storia del basket italiano. Oltre ad aver fatto parte della Nazionale che ha conquistato la medaglia d’argento alle Olimpiadi di Atene 2004 da protagonista, è stato l’uomo che all’Italia ha consentito di intraprendere quella marcia, in due giorni svedesi degli Europei 2003 che sono spesso troppo poco ricordati. Ma il suo nome è legato anche alle epopee della Benetton Treviso degli Anni ’90 e 2000, in un legame che, nel complesso, è durato dal 1994 al 2012. Per lui anche esperienze a Milano, Virtus Bologna, Venezia e Brindisi. A Varese ha chiuso la carriera da giocatore e aperto quella di assistente allenatore. A Ravenna, quest’anno, al fianco di Massimo Cancellieri ha portato l’OraSì in testa al girone Est di Serie A2, prima che la pandemia di coronavirus fermasse tutto. Abbiamo raggiunto Bulleri per un’intervista nella quale ci ha raccontato molti particolari della sua carriera in azzurro e non e ha tracciato un punto sull’attuale momento della pallacanestro italiana.
Quant’è grande il dispiacere per aver dovuto fermare il campionato in testa alla classifica?
“Un grande rimpianto, perché la stagione aveva preso una piega di un certo tipo, molto positiva, di grande energia, feeling. C’erano tutti i presupposti per arrivare con un bello sprint alla fine e giocarsi veramente la promozione fino all’ultimo. Purtroppo a volte la vita ti regala quello che meno ti aspetti. Devo dire che uscendo dall’orizzonte basket ed entrando in quello comune, penso che tutti noi ci aspettassimo qualcosa, ma sicuramente non quello che sta succedendo oggi da due mesi a questa parte. Rimarrà il rimpianto, ma resterà la consapevolezza di aver messo su una metodologia di lavoro quotidiana, un’impalcatura, delle idee, che indipendentemente dal coronavirus saranno riproponibili nel futuro, nella prossima stagione, e da quelle ripartiremo con la convinzione che hanno funzionato molto bene l’anno scorso e lo faranno l’anno prossimo”.
Costruzione di un’impalcatura e anche di una squadra ben equilibrata, con “califfi” dell’A2 come Luigi Sergio, Marco Venuto e giocatori visti in Serie A, come Stefano Spizzichini.
“Chiaramente gli attori principali sono i giocatori e tutto è funzionale al fatto che loro performino nella miglior maniera possibile, quindi la struttura è fatta affinché loro sfruttino al meglio le loro caratteristiche e grazie a queste si vinca la domenica. Detto questo, è chiaro che in questo momento l’ossatura della squadra è il gas, nel senso che non sappiamo chi saranno i giocatori, nemmeno le regole d’ingaggio dell’anno prossimo, le squadre che ci saranno, A2, A, B, due gironi, un girone. Non abbiamo idea. Sicuramente ci proporremo di prendere giocatori funzionali a una determinata quotidianità, gente disposta al sacrificio, che mette il noi di fronte all’io, disposta a lasciare qualcosa dell’io affinché il noi, o quello che sta accanto a te stesso abbia qualcosa di più. Questo sarà sicuramente l’obiettivo, quello che cercheremo nei giocatori che arriveranno l’anno prossimo”.
Eppure all’inizio della stagione sembravi non destinato a Ravenna, ma ad Avellino, solo che poi è accaduto quel che è accaduto.
“La stagione 19-20 è stata segnata da episodi un po’ inaspettati. Ero già ad Avellino, ci eravamo già visti, confrontati, fra l’altro ho avuto l’opportunità di fare 2-3 giorni di allenamento con dei ragazzi in prova, ero già stato a vedere le case, avevo già la roba da Varese messa ad Avellino nel palazzetto in attesa di metterla nella casa. Però le dinamiche attorno alla Scandone, certo un po’ turbolente, la scorsa estate sono state poi un po’ drammatiche, con quello che poi è balzato agli onori delle cronache, un buco milionario nei confronti dell’Erario che ovviamente andava sanato, per colpa del quale la stagione della Serie A ad Avellino si è chiusa. Fortunatamente c’è stata l’opportunità di Ravenna, certo quella di Avellino sarebbe stata grande, però non sono in una fase della mia carriera in cui posso fare lo schizzinoso. Quello che c’è si prende, con grande energia, voglia, desiderio. Era per Avellino, è per Ravenna, sarà per il futuro”.
La decisione di passare dal campo alla panchina a Varese è stata spontanea o già ce l’avevi in testa?
“Coltivavo il sogno, l’ambizione, ad oggi è un sogno e spero diventi un’ambizione, di fare l’allenatore. Varese è stata una grandissima opportunità in primis perché mi ha dato l’opportunità di chiudere la carriera di giocatore su un palcoscenico molto prestigioso, in una società pluridecorata, una delle leader, cardine del movimento della pallacanestro italiana, quindi questo è stato super. Ancora più super perché proprio nel momento in cui ho deciso di smettere di giocare loro mi hanno dato questa possibilità, che io avevo dentro, di cui avevo parlato con la dirigenza, in primis il team manager Claudio Coldebella e Toto Bulgheroni, e loro sono stati felici di assecondare questa mia volontà e di mettermi nello staff di Attilio Caja“.
Un passo parecchio indietro. Da Cecina al minibasket, a Livorno con le giovanili, poi anche a Treviso. Tre grandi salti, tre realtà, tre modi di vivere il basket simili, ma allo stesso tempo diversi nel loro essere simili.
“Cecina è il paese in cui sono nato, in cui vivo, dove ci sono i miei amici, dove c’è mia moglie, dove sono nati i miei figli. Ho sempre un cordone ombelicale molto forte con Cecina, negli anni, nonostante oggettivamente spenda poco tempo qua, però i miei grandi affetti sono qui. Da qui siamo partiti. Cecina al tempo era, molto più di oggi, una realtà molto familiare. Al tempo c’era la Promozione, la Serie D, oggi è terra di casa della Serie B. Una società dove vengono lanciati spesso giovani, di Cecina ma non solo. Questo è quello che succede oggi, non succedeva ai miei tempi. Al tempo c’era ancora il cartellino e Cecina era nell’orbita delle società della Pallacanestro Livorno, conosciuta nelle cronache come Allibert, Garessio 2000, Tombolini e via dicendo. Loro avevano la possibilità, per una serie di accordi, di pescare nei settori giovanili e presero me e un altro ragazzo della stessa squadra e andammo a giocare a Livorno. Facevo la terza media. Era il 1990, sono stato a Livorno fino al 1994 facendo la terza superiore. Nel 1994 passai a Treviso, feci gli Europei con la Nazionale giovanile d’estate con l’anno più grande. Due anni juniores fino al 1996, con il debutto in prima squadra, allenamenti e tutto il resto. Poi dal 1996 fui messo sotto contratto con la Benetton e cominciai il giro della Serie B per tornare poi nel 1999 a Treviso. Sicuramente Cecina è una realtà molto familiare, Livorno era professionistica, ma un professionismo che si stava spegnendo, perché poi abbiamo visto la fine che ha fatto dopo la fusione con la Libertas, per arrivare poi a Treviso che invece era l’apice del professionismo, in un ambiente in grandissima crescita, con delle ambizioni equilibrate, con grandissimi traguardi poi in parte toccati. Sono stati tre step importanti, fondamentali di crescita per capire come fare pallacanestro e cosa serviva per diventare quel giocatore”.
Di Livorno dispiace per tanti motivi. Intanto perché ha avuto una tradizione enorme con non una, ma due squadre, e poi perché adesso hanno tante società nel sottobosco, ma nell’alto livello c’è un palasport bellissimo, il PalaAlgida, che è inutilizzato al punto tale che quando hanno tentato di portare la Nazionale c’è stato il problema delle attrezzature che non c’erano.
“La Pallacanestro Livorno era una società di grande tradizione di settore giovanile e anche di prima squadra facendo un po’ l’ascensore tra A1 e A2, più A2 che A1. Da questa società sono usciti Claudio Bonaccorsi, Stefano Tosi, Massimiliano Aldi, Sandro Dell’Agnello, per fare i nomi più altisonanti. Livorno oggi, com’è sempre stato, vive un conflitto interno. In primis c’è poca disponibilità economica, e questo, eccetto il periodo della presidenza D’Alesio, quindi legati al mondo del porto e soprattutto della raffineria (stagno), momenti che sono stati i migliori, con la finale della Libertas persa all’ultimo tiro, quello di Forti, contro Milano. Questa era la Libertas del mondo dei ricchi di Livorno. Il mondo dei poveri era la Pallacanestro Livorno, che viveva con questa sorta di ascensore. Non c’è una forte disponibilità economica di qualcuno che può mettere sul piatto del denaro importante. Il secondo problema è che Livorno è tuttora legata alla tradizionale rivalità ricchi-poveri, Libertas-Pallacanestro. Tutto quello che è avvenuto dopo non è mai riuscito a entrare troppo nel cuore dei livornesi, perché se sei livornese o sei della Libertas o sei della Pallacanestro. Il resto sì, siamo più o meno, andiamo a vedere la partita, se la squadra va bene, ma non è mai entrata dentro. Il livornese è una “razza” molto sanguigna. Se non lo riesci a prendere dentro, non ti darà mai quello che è riuscito a dare alla Libertas o alla Pallacanestro. Brevissima istantanea: i derby storici che sono stati organizzati sono stati eventi vissuti dalla città in maniera totale, con la gente che ritornava negli stessi posti, con gli stessi sfottò, da una parte all’altra. Questa è la vera livornesità. Altri ci hanno provato, ma non sono mai riusciti a entrare nella pelle dei livornesi come la Pallacanestro e la Libertas. Ad oggi non c’è neanche più il Don Bosco, da tanti anni. Livorno è una città di pallacanestro, dove viene vissuta, ma non più sui palcoscenici che per certi versi meriterebbe”.
Treviso, invece, è una storia che, comprendendo tutte le varie sfacettature, dura 18 anni, dalle giovanili alla prima squadra stabile, al ritorno del 2009 via Milano e poi al periodo 2010-2012.
“Parlavamo prima del cordone ombelicale con Cecina; il secondo, per quanto mi riguarda, è con Treviso. La parte più importante, il più alto livello della mia storia di giocatore è sicuramente legata a Treviso, per prima cosa perché ci sono ‘nato’, perché ho avuto la possibilità di giocare nel posto giusto al momento giusto, e poi perché ci vuole anche chi ti ci mette in quelle condizioni, e le crea affinché sia così. In questo Treviso, nell’epopea di Maurizio Gherardini, è stata un modello non solo in Italia, ma anche a livello europeo. Hanno spiccato il volo verso la NBA dirigenti, preparatori, giocatori, italiani e non. Quando poi gli obiettivi di Treviso si sono fisiologicamente abbassati sono passati giocatori che poi sono entrati nella più alta vetrina europea, i vari Ramunas Siskauskas, Trajan Langdon, Marcus Goree e via dicendo. A Treviso ho un sacco di amici e ricordi. Poco prima dello scoppio della pandemia di coronavirus c’è stato l’Old Star Game, dove si sono riviste 3-4 generazioni di giocatori di Treviso, da Paolo Pressacco a Ezio Battistella, a Riccardo Pittis, a Tyus Edney, Matteo Soragna, Denis Marconato. È stato bellissimo, con la gente che veniva a vederci è stato un flash molto toccante. Rimarrò legato a Treviso a prescindere da dove abito”.
Pittis che poi si potrebbe definire lui stesso 3-4 generazioni contemporaneamente.
“Esattamente. Lui ha cominciato nel 1984 e si è ritirato nel 2004, un’uscita di scena in grande stile come tutta la sua carriera, dove volle ritirarsi in un momento in cui non era più all’apice, ma era comunque ancora un grande giocatore, ad altissimo livello. È stato un personaggio fondamentale, prima che diventassimo compagni di squadra e poi, in seguito, a maggior ragione proprio perché lo siamo diventati”.
È corretto dire che la fase più tormentata della carriera possa definirsi l’Olimpia Milano?
“Sì. Parlavamo prima del fatto di trovarsi nel posto giusto al posto giusto, Milano a conti fatti non è stata esattamente il posto giusto al momento giusto. Poi i presupposti per andarci c’erano tutti, una scelta che era stata ponderata e che rifarei, poi chiaramente le cose non sono andate esattamente come speravo o come pensavamo, o come volevo. Però c’è stato grandissimo rispetto, non ultimo il fatto che quando mi sono ritirato mi hanno invitato e regalato la maglia, durante una partita di playoff. Sono stato in grandissimo rapporto con la proprietà, sia quella Corbelli che quella Armani. In campo non ci sono stati i risultati che volevamo, ci siamo andati più o meno vicini, però il rapporto e la stima professionale sono stati dal primo giorno un cardine grazie al quale ancora oggi quando vado a Milano, o quando vedo tutto quello che è il mondo Olimpia, c’è sempre grande affetto tra di noi”.
Armani che stava, nella sostanza, già entrando nell’epoca della presidenza Corbelli.
“All’inizio era sponsor, con proprietà Corbelli, e dopo tre anni Corbelli vendette e loro comprarono la società al 100%”.
Poi ci sono stati il piccolo periodo a Bologna, l’anno a Venezia e i due anni a Brindisi, anche quelli particolarmente intensi.
“A Brindisi sono stati due anni molto belli. Parlo anche dei risultati, perché chiaramente tornava in Serie A non con la storia, con il blasone di Milano, Treviso, Varese e compagnia bella, ma con un libro da scrivere che tuttora stanno scrivendo con capitoli importantissimi e al tempo abbiamo scritto dei capitoli importanti: le prime presenze ai playoff, la semifinale di Coppa Italia, il primo posto in regular season nel girone d’andata, le due semifinali di Coppa Italia, i playoff dell’Eurochallenge, quindi due anni veramente importanti. Peccato perché nel primo anno, dove eravamo primi a fine girone d’andata, mi sono rotto il ginocchio e ho dovuto lasciare sul piatto un’occasione molto ghiotta. Non credo che avremmo mai vinto lo scudetto, però ci saremmo potuti togliere delle soddisfazioni in più quell’anno, dove c’era la chimica giusta dentro e fuori dal campo. Avevamo un bell’equilibrio tecnico e morale. Le cose andavano bene, c’era un giocatore come Jerome Dyson che era inarrestabile, avevamo un supporting cast importante, gli italiani erano nel posto giusto al momento giusto, Piero Bucchi aveva la situazione sotto controllo. Peccato, ma succede”.
Bucchi e Dyson che quest’anno si sono anche ritrovati a Roma, senza che però le cose andassero come allora.
“Sì, è vero. Difficile però entrare in queste dinamiche da fuori. A quel tempo era una stagione importante dove poteva togliersi delle soddisfazioni importanti. Facemmo comunque i playoff, dove perdemmo 3-0 con Sassari, la semifinale di Coppa Italia, però in condizioni normali magari avremmo potuto raccattare qualcosa di più. Chi lo sa”.
Come venne l’idea di giocare a Ferentino quella stagione in A2?
“Fondamentalmente la seconda stagione di Brindisi, con il rientro dall’infortunio al ginocchio, non fu eccellente, anzi. Nonostante i rapporti umani dentro la squadra e nella città fossero eccellenti, il mio rendimento in campo era mediocre. Oggettivamente quando mi sono rotto il ginocchio la mia carriera in un certo modo è finita. Poi sono riuscito ad andare avanti per esperienza, per la costanza, il lavoro e il nome, sono riuscito per altri due anni. Però non riuscivo a performare in un certo modo, non perché avessi avuto strascichi dall’infortunio, ma perché semplicemente il rendimento era calato. A 37 anni avevo appena fatto 8 mesi di rieducazione ed è un’esperienza che ti segna non tanto a livello morale, perché comunque sei avvezzo a un certo tipo di difficoltà a livello fisico. Non avevo appeal per la Serie A, quindi ci fu quest’opportunità di Ferentino, una società piccola, ma estremamente ambiziosa con un’avventura e compagni importanti come Angelo Gigli e due stranieri come Tim Bowers e BJ Raymond, che hanno scritto pagine importanti dell’A2. Una stagione normale, niente di incredibile, iniziata con un infortunio proprio all’inizio del 2016. Avevamo iniziato bene, poi cascammo in un buco e faticammo a uscirne, cambio dell’allenatore che dette una sterzata e alla fine andammo a giocarci i playoff con Treviso e fummo ingenui, ma soprattutto sfortunati. Perdemmo due partite, la terza e la quinta, veramente in maniera ingenua e anche un po’ sfortunata, altrimenti avremmo fatto ancora più strada di quella che facemmo. Fu una stagione perfetta per quello che era il mio momento della carriera”.
Molti dimenticano che abbiamo sì vinto il bronzo agli Europei 2003 e l’argento alle Olimpiadi 2004, però senza quella tua partita da 24 punti contro la Bosnia-Erzegovina l’Italia sarebbe stata eliminata.
“Eravamo non a un passo, ma a mezzo dito dalla più grande delusione della storia della Nazionale di pallacanestro: uscire dagli Europei senza aver vinto una partita non era mai successo e quella con la Bosnia era uno spartiacque tra entrare nella storia o no. Peccato che saremmo entrati nella storia dalla parte sbagliata. Fortunatamente non entrammo nella storia dalla porta sbagliata, ma anzi fu il preludio per entrarci dal portone principale. Fu una partita a livello personale importante, ma fu soprattutto il levarsi di dosso questa scimmia del non essere bravi, al livello, ma anche dopo dimostrammo che potevamo competere in maniera eccellente a quel livello come dimostrò poi il finale di quegli Europei e la successiva estate”.
Sempre su quegli Europei, ci fu anche la partita degli ottavi con la Germania, in cui l’Italia fu sempre sotto di molti punti per tre quarti e poi improvvisamente rimontò e vinse, con l’annessa trasferta da Lulea a Norrköping.
“Fu il giorno dopo. La sera partimmo, facemmo tardissimo la notte, caricammo il nostro aereo privato, messo a disposizione dall’organizzazione alle squadre che dovevano muoversi per fare il barrage. Scaricammo tutto, arrivammo in albergo la notte, la mattina fummo un attimo in campo e poi giocammo la sera. Fu un’esperienza emotivamente molto intensa, perché in 4-5 giorni ci giocammo dalla possibilità di non vincere mai e tornare a casa col peggior record di sempre al farlo con il bronzo e la partecipazione alle Olimpiadi”.
E poi ad Atene c’è stata quella gioia enorme per moltissimi. Peraltro giocasti varie partite buone, come la prima con l’Argentina nel girone e i quarti con Porto Rico.
“A livello personale e di squadra fu un’esperienza incredibile. La mia presenza dentro la squadra era importante, feci delle buone partite ma, tralasciando il fatto della medaglia, quello che già caratterizzava quella squadra era il fatto di avere protagonisti diversi in momenti diversi, e questo è poi quello che hanno le squadre che arrivano al risultato. Non dipendono mai da uno, ma ci sono più attori che salgono in cattedra e recitano da primattori. Quella squadra funzionava così. Poi, ovviamente, c’era, come sempre succede in queste situazioni, un’ottima chimica fuori. Ci trovavamo bene insieme e siamo rimasti amici con molti, non tutti perché la vita poi ti porta in posti e luoghi diversi, ma con molti dei ragazzi del 2003 e 2004 ci vediamo ancora. Sono quelle esperienze che ti segnano a vita”.
E in mezzo anche la notte di Colonia contro Team USA. Gli aneddoti raccontano del passaggio dalle previsioni pessimistiche del giorno prima a quello che è successo in campo.
“Più che aneddoti più o meno veritieri, di base c’è che nessuno si aspettava di vincere. Di fronte alle previsioni più o meno pessimistiche stento a ricordare qualcuno che prima di giocare avesse detto ‘stasera vinciamo di 17 a mani basse con gli Stati Uniti’. Le previsioni erano quelle di fare la nostra figura dignitosa, giocarcela a viso aperto, come sempre abbiamo fatto, con lo spirito del grande rispetto, ma non del timore, e poi vedere come sarebbe andata. Nessuno, su questo non ci sono aneddoti che tengano, aveva pronosticato una nostra vittoria di 17. Ci terrei ad essere smentito”. (ride)
Nel periodo successivo, nonostante poi non si siano più raggiunti i risultati precedenti, sei spesso risultato trascinatore della Nazionale. Viene in mente, tra le tante, la partita degli Europei 2007 con la Slovenia ad Alicante, in cui poi Jaka Lakovic segnò il buzzer beater della vittoria.
“A volte gira storta. Oggettivamente non meritavamo di vincere quella partita, eravamo stati sempre sotto, ma era vinta. Lakovic fra l’altro fece una partita abbastanza indecorosa, però da grande campione tirò fuori il jolly. A conti fatti quei due punti avrebbero potuto fare una grossa differenza nel morale, poi nella classifica non so quanta differenza avrebbero fatto, perché anche con quelli avremmo dovuto vincere l’ultima partita con la Germania. Poi non l’abbiamo vinta e siamo stati eliminati. Però aver iniziato gli Europei con una vittoria sarebbe stato diverso rispetto a una sconfitta, anche contando che il giorno dopo avremmo dovuto giocare contro la Francia, dove perdemmo e poi ci giocammo tutto con la Polonia per poi andare alla seconda fase. Erano i ripetuti segni che qualcosa non andava a livello di Nazionale“.
Ci sono degli aneddoti un po’ particolari che sono capitati in quegli anni?
“Niente che penso sia il caso di lasciare alle cronache”. (ride)
Cosa pensi della Nazionale azzurra di ora e più in generale della situazione attuale del movimento italiano?
“La salute del movimento azzurro è figlia dei risultati, in primis. Però non solo. I risultati non necessariamente arrivano quando il movimento è sano, così come non necessariamente se non ci sono risultati il movimento non è sano. Ad oggi credo che, dopo 15 anni senza risultati questa è la cartina tornasole del fatto che qualcosa non va. Ognuno ha la sua ricetta, la sua medicina. Sicuramente quello che oggi cambia è che troppo pochi giocatori italiani sono protagonisti a casa loro in squadre di primo livello, cosa che nelle altre nazioni non succede. Quando poi si gioca d’estate la differenza sostanziale è lì. I giocatori NBA più o meno ce li hanno tutti, ma non sono più quelli che veramente fanno la differenza perché ce li hanno tutti. La differenza sta nei giocatori di alto livello europeo. Oggi la nostra scuola non produce più con costanza un numero sufficiente di giocatori di alto livello. Questo penso sia innegabile. Cosa fare e cosa non fare non lo so. Senza dubbio la riduzione dei posti a disposizione dei giocatori italiani secondo me è un danno, poi si possono dare mille letture, che il posto garantito non stimola la crescita, però vorrei vedere un mercato in cui i posti per gli italiani non ci sono, è tutto libero, quali società andrebbero a investire per far giocare gli italiani. Questa è una controprova che ad oggi non c’è, vedremo se ci sarà nel futuro. Per quanto mi riguarda i giocatori, per rendere ad alto livello ci devono giocare. Non c’è altra soluzione. Poi giocare per merito o perché sono i ‘panda’, questo non lo so. Penso che la soluzione sia nel mezzo, però di sicuro c’è bisogno di più spazio per gli italiani. Che, allo stesso tempo, se lo devono ampiamente meritare”.
Citi l’alto livello, che non è necessariamente quello NBA, ma anche quello di Eurolega, dove c’è il vero grande problema. Sono in pochi a giocare con ruoli in qualche modo da protagonisti: gli ultimi Della Valle, Moraschini e un po’ Polonara, oltre naturalmente a Gigi Datome.
“Abbiamo Datome al Fenerbahce, fino all’anno scorso c’era Nicolò Melli che è andato in NBA. Polonara sicuramente sta facendo un’esperienza importante al Baskonia, ora non conosco nello specifico il minutaggio, ma non credo vada oltre gli 8-10 minuti a partita (12 e mezzo, N.d.R.). C’è una differenza quantificata in minuti e, di conseguenza, responsabilità. Se giochi 25 minuti a partita sicuramente hai un certo tipo di responsabilità nella squadra, se ne giochi 12-13-14 hai un altro tipo di responsabilità. Che non vuol dire che tu non sia importante per la squadra, però che giochi con un tipo diverso. Quello di cui oggi la Nazionale ha bisogno è di giocatori che, quandoci vengono, sono abituati al carico delle responsabilità. E questo va calibrato sul livello più alto, che è la NBA, e dopo c’è l’Eurolega. Noi siamo, non solo da oggi, un po’ indietro. Questo lo paghiamo poi d’estate con la Nazionale”.
Se volessi ricostruire in campo un quintetto ideale di giocatori con cui meglio ti sei trovato in campo, chi metteresti?
“Come guardia metterei Trajan Langdon o Gianluca Basile, da ala piccola Riccardo Pittis, da ala grande Jorge Garbajosa, Marcelo Nicola o Giacomo Galanda, come centro Denis Marconato. Con quest’ultimo siamo letteralmente cresciuti insieme, essendo stati compagni anche nel settore giovanile, e avendo fatto tutta la trafila del mondo Benetton dentro e fuori dal campo. Poi lui è arrivato ancora prima riuscendo con merito a vincere più di me, poi dopo quando abbiamo giocato insieme sia in Nazionale che nel club è il giocatore al quale sono legato di più”.
Praticamente è un Treviso All Star.
“Più o meno sì, sono loro quelli a cui sono legato di più”.
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Credit: Ciamillo