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Stefano Gentile, basket: “A Sassari si crea quasi una famiglia. Metta? Quando fu a Cantù gran scoperta. Mio padre continua a seguire me e Alessandro”

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Gentile: un cognome che, nella pallacanestro italiana, vuol dire tantissimo. C’è Nando, con il suo passato di campione sia con i club che con la Nazionale. C’è la sorella Imma, che è stata ottima giocatrice nel femminile e ha contribuito a fare grande Napoli a metà degli Anni 2000. C’è il figlio Alessandro, che l’azzurro se l’è ripreso dopo un momento difficile. E c’è il maggiore dei due figli, Stefano, che costruendosi nel tempo ha saputo ritagliarsi un ruolo di pedina importante per qualunque formazione di Serie A voglia averlo. Alla Dinamo Sassari è elemento portante del quadro tattico di Gianmarco Pozzecco, un dato che va ben oltre i numeri (ultima stagione a 7.5 punti in quasi 19 minuti di media). Del tempo del Banco di Sardegna, dei compagni illustri, della Grecia, dei legami familiari e di tante altre interessanti questioni Stefano Gentile ci ha parlato in quest’intervista.

È vero che sono passati due mesi abbondanti dall’ultima partita, ma rimane il fatto che per tutto il contesto sia stata un po’ straniante.

È stata una delle partite più strane e particolari a cui abbia mai preso parte. Già solo i giorni prima sono stati molto strani, non ci siamo mossi dall’albergo. È stato tutto molto particolare, in certe situazioni. Non ci siamo goduti veramente l’ultima partita. È stato tutto un cercare di capire cosa stesse succedendo più che giocare”.

E non c’è stata solo l’ultima partita di Roma, ma anche tutti i problemi di Burgos. All’andata, proprio mentre Conte chiudeva tutto, c’era la gente nel palasport, al ritorno il caos.

“Al ritorno abbiamo chiesto noi le restrizioni prima che arrivassero dal Governo spagnolo, sapendo che quello che stava succedendo da noi sarebbe successo anche lì”.

Infatti poi è successo.

“Quando siamo atterrati, a Madrid, ci siamo resi conto che non c’erano controlli. Fuori dal volo dicevano: ‘Se senti alcuni di questi sintomi contatta questo numero’. Nessuno controllava la febbre, nessuno aveva le mascherine. Noi venivamo dal lockdown della Lombardia, da un periodo temporale dove tutte queste cose si stavano accumulando in Italia, mentre lì non erano ancora successe. Però era abbastanza logico che sarebbe accaduto anche lì. Dalla Cina all’Europa ci ha messo un mesetto ad arrivare, ma tra Italia e Spagna la distanza non è così ampia. Non ci voleva un esperto per capire che sarebbe arrivato molto prima”.

Ammesso che poi sia arrivato due mesi fa, perché ci sono le tante testimonianze che raccontano di un possibile arrivo anche prima.

“Certo, anche quello è sicuro”.

Quello che ha fatto arrabbiare di Burgos non è tanto il risultato, ma quel che poi ha detto il loro allenatore.

“Sì, onestamente credo che non sia tanto facile capire in questi momenti cosa succede e come comportarsi. Credo che nell’era dei social si sappia tutto subito, e quindi bisogna essere il più possibile intelligenti per capire che a volte basta dire ‘non so cos’è successo’, perché oggettivamente tante cose non le sappiamo, le stiamo scoprendo adesso su come procede la malattia. Dire una cosa del genere in un momento in cui non c’è chiarezza da parte di nessuno, neanche da parte degli specialisti sicuramente poi non risulta molto intelligente”.

La stagione della Dinamo stava andando per certi versi anche più a gonfie vele di quella dell’anno scorso. Se la scorsa stagione ci furono le 22 vittorie consecutive, quest’anno c’è stata la costanza di rendimento.

“Ci portavamo dietro la stessa squadra all’incirca, i risultati stavano venendo sotto lo stesso profilo partendo dall’inizio. Com’è normale che sia, c’erano dei periodi di flessione. Non puoi vincere ogni partita, com’era nel periodo delle vittorie consecutive. Avevamo anche la consapevolezza di dire ‘può essere che dobbiamo lottare per giocare il meglio possibile’, e di far meglio dell’anno passato”.

Una bella stagione nonostante il problema con Jamel McLean.

“Per fortuna abbiamo avuto la consapevolezza e l’intelligenza sufficiente per continuare a giocare nonostante un momento di instabilità. Il fatto di capire se un compagno gioca o non gioca comunque si percepisce nella squadra, ma avendo giocatori di grande esperienza, che nella loro carriera ne hanno viste, ha fatto sì che si potessero anche un po’ mitigare gli effetti di questa situazione”.

Quando Achille Polonara è improvvisamente partito, destinazione Vitoria, com’è stato sentito a livello di squadra?

“Innanzitutto siamo stati sicuramente contenti per lui. È un’occasione che s’è meritato, e quindi eravamo da una parte felici e dall’altra dispiaciuti perché, oltre a perdere un compagno di squadra molto forte, perdevamo un compagno di squadra con cui avevamo combattuto molte battaglie. A Sassari si crea quasi una famiglia, perché passi più tempo con la squadra che con la famiglia effettiva. Quando va via un giocatore sicuramente sei contento se ha una grande occasione, e insieme ti dispiace perché per certi versi perdi un membro della ‘famiglia’”.

A proposito di famiglia: tuo fratello, con Trento, ha messo quella tripla…

“Non è stato molto dolce!”

Famiglia che poi è tutta intrisa di sangue cestistico: di tuo padre, Nando, la storia di campione è nota, di Alessandro anche. Meno si sa invece di tua zia, Imma, che è stata davvero forte.

“Mi rendo conto che quando hai dei membri della tua famiglia così popolari è facile che anche i tuoi exploit passino un po’ in secondo piano. Di sicuro anche con il basket femminile, che ha una risonanza leggermente minore, ci si rende conto meno facilmente di queste cose. Però anche giocandoci soltanto qui a casa ti rendi conto del talento che possedeva zia. Si vede proprio nei movimenti, nei passaggi. D’estate negli ultimi tempi continuava a livello più basso, si allenava un po’ con noi per tenersi in forma. Si percepisce che è di un certo livello, anche se non è più al top come lo poteva essere qualche anno fa”.

C’è stata una situazione curiosa in passato: Nando al Panathinaikos per una stagione. Tu hai fatto un pezzo di giovanili col Panathinaikos. Nel 2017 Alessandro è andato al Panathinaikos. Un filo verde Gentile.

“Siamo molto affezionati alla Grecia e al Panathinaikos. Nostro papà è un po’ come un mito per noi, per la nostra famiglia, perché comunque ha giocato ad un altissimo livello e ha vinto la Suproleague (nella stagione 2000-2001 ci fu la spaccatura FIBA-ULEB per la quale, in un’unica annata, furono due le massime competizioni continentali, una vinta dal Panathinaikos, l’altra dalla Virtus Bologna, N.d.R.). Era un periodo molto felice della sua carriera. È il periodo che noi abbiamo vissuto ‘meglio'”.

In Grecia, poi, c’è una cultura molto particolare per cui chi vince o lascia un segno viene spesso molto ricordato.

“Vale per il Panathinaikos come per l’Olympiacos come per altre squadre. Poi mio papà fu protagonista di una sfida storica all’Olympiacos che fu una delle rare volte nella storia in cui il Panathinaikos riuscì a vincere lo scudetto al Pireo in gara5. Una cosa leggendaria, ai tempi. I greci sono un po’ come noi napoletani, hanno questa memoria, questo apprezzamento verso chi ha portato in alto i propri colori. C’è grandissima competizione tra di loro, quindi ogni volta che l’uno vince sull’altro, chiunque sia stato l’artefice di questa vittoria ne porta i benefici, se lo ricordano per tanto tempo”.

Naturalmente poi si ricordano anche episodi collaterali di vario genere. Una volta i tifosi dell’Olympiacos buttarono una molotov in campo…

“Sì, sono piuttosto coloriti nelle cose che fanno e dicono, e che succedono in campo. Ogni tanto questa passione sfocia anche in qualcosa di un po’ troppo”.

Poi il percorso delle giovanili l’hai fatto tutto dalle tue parti, Maddaloni e Juvecaserta.

“Dopo la Grecia siamo stati sei mesi a Udine e sei a Reggio Emilia, dove ho ripreso a parlare italiano perché lo parlavamo solamente un po’ a casa, con la mia famiglia. Andavamo a scuola americana, quindi l’inglese era la prima lingua. Abbiamo un po’ ripreso il contatto con l’Italia, una volta tornati abbiamo fatto le giovanili a Maddaloni. Fra l’altro siamo stati veramente fortunati perché abbiamo fatto parte di annate dove la pallacanestro giovanile in Campania viveva annate d’oro. C’erano ragazzini molto promettenti, il livello era molto alto e allo stesso tempo abbiamo avuto dei bravissimi allenatori. Abbiamo avuto la possibilità di lavorare con degli allenatori di ottimo livello e comunque, quindi, crescere”.

Poi hai fatto anche delle belle annate tra B1 e A2, perché hanno tutte delle storie particolari.

“Il mio arrivo in Serie A non è stato sicuramente da protagonista. Sono entrato un po’ di soppiatto. La mia mentalità è sempre stata quella di volermi guadagnare lo spazio sul campo, e per farlo devi sudare, meritartelo, essere protagonista. Cercavo di fare quello in campo, perché sapevo benissimo che quando ci sarebbe stata l’occasione, anche di dover essere protagonista al livello più alto, se non l’avevi mai fatto non potevi inventartelo. Per cui cercavo di essere pronto prima a livello un po’ più basso per capire come funzionava. Ho fatto queste scelte di scendere di livello, ma avere più spazio, invece di rimanere a Milano, partire dalla panchina, vedere se lo spazio potevo guadagnarlo e giocare in un ruolo più complementare che altro. Ho scelto di partire dalla B1 senza problemi. Poi se mi fossi meritato la Serie A sarei stato bravo io”.

E infatti ci sei arrivato, fra l’altro in una stagione anche quella diversa, che coincise con il secondo maggior lockout della NBA. A Casale arrivò Garrett Temple, che prima e dopo è sempre stato in NBA o nell’allora D-League.

“Era il suo primo anno in Europa. Inizialmente ha fatto fatica, poi ha fatto delle gran partite. Però non è facile, soprattutto per uno straniero che arriva con un altro tipo di mentalità, di storia, ambientarsi in così poco tempo. Casale doveva puntare a salvarsi, c’era un certo tipo di pressione e non era facile fare bene. Abbiamo passato dei periodi piuttosto ‘stressanti’. Anche per noi giocatori era faticoso. Non vedevamo risultati, non riuscivamo a portare a casa le partite nonostante riuscissimo a giocarcele fino alla fine. Quindi è diventato un po’ frustrante anche per noi. Sicuramente ha fatto una carriera NBA che parla da sola”.

Temple che tendeva a ricordare le urla di Marco Crespi, anche se inserite all’interno di un contesto più ampio.

“Lui voleva secondo me puntare più sul fatto che in Europa è diverso rispetto agli Stati Uniti. Ci sono tante cose, tante variabili. E una cosa che lo aveva colpito erano le urla di Marco. Però se lui era un giocatore un po’ più maturo, un po’ più grande della mia, a Crespi io devo molto e gli riconosco di avermi probabilmente plasmato come giocatore. Ha fatto in modo che io diventassi uno di Serie A”.

Il tutto si riallaccia anche al discorso che ha fatto Gigi Datome su Zelimir Obradovic: di lui bisogna prendere non le urla, ma il tecnico.

“Come tutti i grandi che ci tengono a quello che fanno, ci sono degli allenatori che sono molto “aggressivi” per come ti dicono le cose. Ma è solo il loro modo di fare. Adesso credo che sia passata di moda come cosa, e si percepisce un po’ di più. Prima la maggior parte degli allenatori italiani era di questa scuola slava, si tendeva un po’ ad emulare questa cosa: chi urla, come urla, chi è più matto eccetera. Per quanto mi riguarda ho avuto dei grandi “benefici” da questo tipo di educazione perché sono riuscito a costruirmi come giocatore e a imparare tante cose con lo stimolo di allenatori che mi hanno sempre spronato in maniera anche abbastanza accesa”.

L’anno dopo sei tornato a Caserta, un vero ritorno a casa.

“Ho avuto la fortuna di trovarmi in una situazione molto particolare, all’interno di un cambio di proprietà. C’erano pochi stranieri, un budget ridotto. Alla fine quest cosa mi ha avvantaggiato, perché avevo più spazio rispetto a una situazione normale. Sono stato bravo e fortunato, perché ho avuto più spazio e più possibilità di sbagliare. Alla fine le cose stavano andando bene, anche grazie alla spinta del pubblico. Del resto un Gentile, a Caserta, fa sempre il suo effetto. Anche grazie a questo sono riuscito a fare un passo avanti nella mia carriera”.

A proposito di passi avanti, c’è poi quello di Cantù, con due belle stagioni.

“Un po’ la prova del nove: una cosa è arrivare e venire dal ‘nulla’, nel senso che non hai nulla da perdere, nessuno ti conosce o marca, ti sottovalutano, non ti considerano, un’altra è che sei già affermato. I giocatori ti conoscono, sanno quello che fai e vogliono fermarti, il che rende tutto più difficile ed è un passo ulteriore. Ovviamente credo che nella vita non si smetta mai di imparare, però è anche vero che devi cercare un po’ di darti degli obiettivi, ma allo stesso tempo di porti dei modi per crescere in situazioni dove puoi farlo”.

Credit: Ciamillo

Poi lì hai avuto un signor compagno: l’uomo che recentemente ha cambiato per la terza volta nome. Metta Sandiford Artest, alias Ron Artest, alias Metta World Peace, con The Panda’s Friend come ulteriore soprannome.

“Lui è stato una grandissima scoperta. Lui arrivava con la nomea di quello di essere quello dell’anno di squalifica, di Malice at the Palace (la rissa del 2004 in Detroit Pistons-Indiana Pacers, N.d.R.), invece si è presentato e pareva un buddista, con le meditazioni, con la dieta vegana, una persona che cercava di essere il più possibile equilibrata. Non ha fatto richieste strane, non ha voluto nessuna villa, rideva come noi giocatori, aveva la macchina della società. Veramente una persona molto umile e, devo dire la verità, lui ci ha svoltato la stagione. Con il suo carisma è riuscito a riunirci tutti“.

La sua miglior partita italiana, a Roma: 25 punti con 6/7 da tre, che aiutò anche in chiave playoff.

“Sì, poi ci fu anche il classico inizio con fallo tecnico”.

Poi ci fu anche l’altro tecnico a Venezia, in cui semplicemente rimandò in tribuna una bottiglia che era volata in campo, senza violenza.

“A Venezia è stata una gara5 che ricordo in maniera molto controversa. In campo sono successe cose non dico al livello di Panathinaikos-Olympiacos, ma per l’Italia son cose gravi. Lanci di bottiglie in panchina non sono cose belle, e allo stesso tempo ricordo che non furono sanzionati in nessun modo. Ci sentivamo poco protetti. Metta ha sentito il bisogno di proteggersi da solo facendo quel gesto lì”.

Che poi non era cattivo.

“Però non bello, perché non si risponde al pubblico, specie in quel modo. Ma quello che stava succedendo era oltre il limite”.

E gli arbitri parevano avere un occhio speciale per lui, quando invece, molto semplicemente, venne e dispiegò talento. Parliamo di uno senza il quale i Los Angeles Lakers forse non avrebbero vinto gara7 delle NBA Finals 2010.

“Noi siamo diventati molto amici, perché io ero uno dei pochi italiani in squadra e lui era molto curioso, mi chiedeva, voleva sapere molto per quanto riguarda l’Italia, il basket italiano, le storie. Poi era venuto a sapere che mio papà aveva giocato contro Michael Jordan e quindi legammo molto. Lui mi diceva sempre: ‘Quando ho raggiunto una certa maturità sono riuscito a mostrare quello che sapevo fare, però sento che mi sono molto autolimitato negli anni, perché avrei potuto fare molto di più'”.

Poi a Reggio Emilia altra avventura ben più che discreta.

“Partita benissimo e poi sfortunata nella progressione, perché ho avuto infortuni piuttosto importanti, che mi hanno portato via tanto tempo”.

Soprattutto nel secondo anno.

“Il primo anno sono stato fuori un mese e mezzo con un problema al ginocchio, il secondo quattro mesi. Non ho mai trovato quella continuità necessaria per affermarsi in un ambiente nuovo. Quando arrivi in un ambiente nuovo devi essere costante, per prendere il ruolo importante in squadra l’unico modo è quello. Purtroppo così ho avuto difficoltà perché non ero davvero in campo e potevo avere poco impatto. È finita che ho dovuto cambiare aria. Era partita bene perché avevamo vinto la Supercoppa, uno dei primi trofei della Pallacanestro Reggiana, contro Milano. La squadra c’era tutta, poi abbiamo fatto una finale scudetto”.

Il cambio di aria, ma comunque a poca distanza visto che si trattava della Virtus Bologna nell’anno del passaggio definitivo al PalaDozza in quanto la società aveva rotto definitivamente con Sabatini e la Unipol Arena. Una stagione del ritorno in A, peraltro, in cui hai potuto giocare con Alessandro.

“Sì. Io sono arrivato a fine stagione di A2, 2016-2017, facendo i playoff. Esperienza incredibile, sembrava di fare le finali scudetto. C’era una squadra in missione, un ambiente che chiedeva di nuovo la Serie A e la meritava, con tutto il seguito che aveva. È comunque una grande responsabilità, e anche una cosa piuttosto difficile, perché un conto è vincere lo scudetto e una cosa è vincere quando sei favorito. E anche vincere in A2 diventa una cosa un po’ più complessa, che comunque comporta della pressione”.

E quella Trieste aveva due signori americani, Javonte Green e Jordan Parks.

“Di cui uno, Green, adesso gioca in NBA. Erano due squadre di altissimo livello e siamo riusciti a portarla a casa 3-0, quindi avevamo fatto davvero un gran lavoro”.

Quella Virtus s’è tenuta, tra gli altri, Kenny Lawson.

“Davvero uno di grandissimo talento Kenny”.

Poi c’è stata la scazzottata con Gutierrez contro Trento (ma fu il messicano ad esagerare).

“L’ho rivista seicento volte quella situazione. Mi hanno spiegato che anche lui era una persona molto particolare, che si faceva prendere da queste cose, dal nervosismo. Perché io non ho capito per quale motivo si era innervosito in quel modo. Ci sono stati dei contatti, ma ci stavamo contendendo la palla, nessuno si era toccato. A un certo punto l’ho visto che caricava questo destro, e per fortuna mi ha mancato. Poi è successo quello che è successo”.

Alessandro t’ha visto in quella situazione e ha pensato che non fosse il caso che qualcuno toccasse suo fratello.

“Non ha apprezzato molto”.

Poi si è scusato, ma lo disse anche lui che, avendoti visto in quella situazione, era quasi normale l’istinto di protezione.

“Già è un compagno di squadra, poi è pure mio fratello. È successa una cosa simile a parti invertite in Nazionale. Facemmo un torneo prima delle qualificazioni agli Europei e successe una cosa simile. Fu aggredito da un giocatore bulgaro. Intervenne tutta la panchina. In quel caso fui io che andai a proteggere lui. Abbiamo questo ‘pericolo’: se qualcuno vuole prendersela con l’uno, deve vedersela pure con l’altro”.

Poi alla Dinamo è successa una cosa se vogliamo anche bella: hai ritrovato Marco Spissu, che era tuo compagno alla Virtus quando ci fu la promozione.

“Sì, ci siamo davvero ritrovati. Dopo l’anno di Bologna, dove abbiamo fatto una ‘impresa’, ne abbiamo fatta un’altra a Sassari. Raggiungere la finale scudetto, vincere la prima Coppa europea della storia della Dinamo, io la reputo come un’impresa da un certo punto di vista”.

Ed è vero che si dice peste e corna della FIBA Europe Cup, ma intanto va vinta.

“Vincere, a qualsiasi livello, non è mai scontato e nemmeno facile. Anche perché quando le squadre arrivano in fondo, anche se all’inizio il livello non è così alto, sono sempre squadre di un certo valore, che hanno profondità, una quadra. Sono difficili da affrontare”.

In mezzo c’è anche stato il cambio tra Vincenzo Esposito e Gianmarco Pozzecco, che come allenatore è qualcosa di diverso da moltissime cose viste in precedenza.

“Abbiamo avuto un insieme di cose, perché Esposito ha fatto un grandissimo lavoro e bisogna riconoscere che tanti meriti vanno anche a lui. Ha messo insieme la squadra e un certo tipo di linee guida sono rimaste quelle. Poi è chiaro che una volta che hai l’entusiasmo del Poz, è riuscito a sbloccare questo potenziale che avevamo”.

Nel futuro come ti vedi?

“Sto cercando di utilizzare al meglio questo tempo che abbiamo per rientrare nella condizione migliore possibile, per essere al 100% o anche un pochino oltre. Mi piacerebbe poter fare un anno senza alcun tipo di fastidio e stare bene, e dimostrare ancora quello che sento di saper fare. Questo è il mio primo pensiero. Il secondo sarà quello di tornare in campo. So benissimo che sarà una cosa difficile, ci vorrà del tempo, cercare di capire un po’ tutta la situazione intorno, che cosa succederà, come si potrà giocare, se a porte chiuse, aperte, semichiuse, con i distanziamenti, due sedili, tre sedili. Non è facile, però il mio obiettivo è farmi trovare più pronto possibile e cercare di migliorare in questo tempo che abbiamo a disposizione”.

Cosa pensi del progetto della FIP con il Politecnico di Torino in merito alla creazione di mascherine sportive, emerso in Consiglio Federale?

“Chissà. Potrebbe essere proprio la cosa di cui abbiamo bisogno. Se riesci a limitare gli scambi di aria… comunque non è facile tenere una cosa sul viso. Bisognerà capire. Se è l’unico modo di continuare, certamente ci si adatterà. Io spero che a breve si possa risolvere questa situazione, credo che comunque adesso avremo i primi dati per quanto riguarda l’andamento del contagio di ritorno. Una volta che li avremo potremo iniziare a capire in maniera un po’ più specifica come andare avanti. Se riusciamo a trovare una cura, pian piano si può tornare alla normalità, che è la cosa che tutti vorremmo”.

Parlavi dell’importanza degli allenatori delle giovanili. Se dovessi parlare di uno che ti ha dato l’impronta, di chi parleresti?

“Ho avuto la fortuna di averne tanti bravi. Ricordo che a Milano avevo Enrico Montefusco, a Maddaloni avevo Gennaro Di Carlo, mio papà ha allenato sia me che mio fratello. Abbiamo una percentuale uguale a tutti. Mio padre a suo modo continua a seguirci, in tutto quello che facciamo. Abbiamo avuto la fortuna di avere lui, sia io che mio fratello. Nel panorama cestistico di oggi sicuramente il fatto di avere una persona che ti può consigliare in maniera disinteressata è un valore inestimabile. Avere una guida che possa fare una cosa del genere non è scontato, e ti cambia davvero la carriera”.

Hai citato anche il breve passaggio in Nazionale: sei sempre rimasto lì nell’orbita, ma con meno convocazioni di quel che si potrebbe immaginare. Però è sempre nei pensieri.

“Quello è sicuro. La strada per la Nazionale è quella del club. Bisogna sempre dimostrare in campo. Quando poi hai in famiglia qualcuno che ha una gran fame, quello che fai tu magari può essere messo un po’ in secondo piano. Penso sia un po’ quello che è capitato a me”.

Fra l’altro nel tuo ruolo c’è una guerra di posti che non finisce più.

“Noi italiani non siamo altissimi (ride), e nonostante ci piaccia molto il basket abbiamo una penuria di pivot. Però con le guardie siamo coperti a tutti i livelli, NBA e via dicendo”.

Tant’è che in Nazionale il 5 lo fa Melli, che è adattato.

“Ai Pelicans infatti fa il 4-5 e in Nazionale diventa il 5 titolare”.

In stile Erazem Lorbek, altro di una scuola di lunghi atipici non più così atipici.

“Nel basket di oggi devi saper fare un po’ tutto. Se ti trovi i lunghi che sanno palleggiare sono quasi la normalità”.

Poi ci sono quelli di classe superiore, come il tuo compagno Miro Bilan.

“Assolutamente, un giocatore con grandissimo talento e delle capacità di lettura delle situazioni e del gioco, passaggi, capacità di uno contro uno dal post. In Italia uno così forte tecnicamente l’abbiamo visto poco, perché adesso ci sono più i 5 atletici che possono cambiare sul pick&roll, hanno un focus un po’ diverso rispetto al pivot di una volta”.

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federico.rossini@oasport.it

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Credit: Ciamillo

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