Golf
Costantino Rocca, golf: “Non è giusto giocare la Ryder Cup quest’anno. Nessuno come Tiger Woods. Francesco Molinari ha dato il via ad una nuova generazione”
Se oggi c’è la generazione di Francesco Molinari, una buona fetta del merito deve indubbiamente prendersela un uomo: Costantino Rocca. Il bergamasco ha fatto grande il golf italiano a metà degli Anni ’90, lottando con i migliori, battendoli più di una volta, diventando il primo azzurro a vincere a Wentworth, nel 1996, il primo a giocare la Ryder Cup, per tre volte, e il primo a sfiorare la vittoria in un Major. All’Open Championship 1995, peraltro, fu protagonista di un colpo da leggenda, che Mario Camicia, in un’indimenticata telecronaca, ha contribuito a rendere ancor più celebre. Rimasto a lungo nei primi 30 del mondo, ha incrociato due generazioni: quella di Severiano “Seve” Ballesteros e quella di Tiger Woods, due leggende che hanno influenzato enormemente questo sport. Costantino Rocca, in quest’intervista che ci ha concesso, si è raccontato e, sempre con il sorriso degli anni migliori, ha ricordato il meglio del suo tempo e dato diverse interessanti chiavi di lettura sul golf moderno, sia italiano che mondiale.
Come procedeva l’attività dell’Academy fino ai giorni precedenti la pandemia e quali sono state le conseguenze della stessa al suo interno?
“Io adesso non ho più l’Academy. Sono già 3-4 anni che non la ho più. Per il resto, si era finito l’anno scorso giocando sul Senior Tour a dicembre e purtroppo è arrivata tutta insieme questa pandemia che ci ha un po’ fregati”.
Peraltro ad aver sofferto le pene dell’inferno è stata la Sua terra.
“Purtroppo sì. Non ho mai provato un’esperienza del genere, stando a casa, però sentendo le campane che suonano a morto, le ambulanze, tutto questo, il primo mese è stato veramente brutto”.
E soprattutto nel primo mese non si poteva minimamente uscire di casa.
“Io non sono mai uscito. Andavo a prendere il pane, ma lo compravo per tutta la settimana. Facevo un chilometro e mezzo e tornavo a casa”.
In pratica una sorta di rotazione in famiglia.
“Si (ride)! Ho girato abbastanza il mondo, non volevo rimanere a casa per una pandemia. Però fa bene anche starci un po’, se non c’era questo era meglio ancora”.
Come nacque, nel 2008, l’idea dell’Academy?
“Avevo trovato delle persone in Svizzera. Ho conosciuto il presidente e altri miei amici mi hanno chiesto se volevo fare un’accademia in Svizzera, a Losone, e dopo due anni l’avevo fatta anche in Puglia, ad Acaya (comune di Vermole, provincia di Lecce, N.d.R.), però purtroppo giocavo ancora e non avevo molto tempo per seguire. Forse è questa la causa per cui poi abbiamo un po’ lasciato andare. Però è stata una bellissima esperienza. Speriamo di riaverne un’altra molto presto”.
A proposito di giocare, si sente nella voce e in tante cose questo amore infinito che ha portato fino al Senior Tour. Un’avventura senza fine ancora oggi.
“Il golf ti dà questa opportunità. Se hai la voglia e la volontà di lottare ancora per qualcosa di importante. Per me lo è, mi piace il mio mestiere, se riesco a giocare fa molto piacere a me e alla mia salute”.
Parliamo, del resto, di uno sport in cui i sette chilometri buoni al giorno si fanno sempre. E, da che mondo è mondo, non c’è motivo per cui debbano fare del male.
“Sette chilometri se la tiri sempre dritta (ride)! Ogni tanto si va un po’ a destra, un po’ a sinistra, per posti vari”.
Alla voce “voglia di lottare”, basta vedere Tom Watson, che a un’età (53 anni) in cui molti avevano abbandonato a momenti andava a vincere l’Open Championship 2009.
“Mi è dispiaciuto tantissimo. Lui è il mio idolo, se lo meritava, perché ha giocato veramente un golf eccezionale in quella settimana“.
Se avesse vinto, sarebbe stata una storia al di là dello sport stesso.
“Avrebbero dovuto cambiare certe regole, perché per fare le esenzioni sarebbe passato fino a settant’anni abbondanti per giocare il British Open (ride)!”.
Infatti ha finito, nel 2015, proprio sul ponticello. Un momento meraviglioso.
“Bello, sì”.
C’è una frase sul Suo sito: “Io capisco la grande fatica di chi gioca sul tour oggi, ma per questo è importante che dietro di loro ci sia un movimento adeguato. A loro vorrei spiegare come lavorare, far loro capire alcune strategie di gioco, spiegare colpo dopo colpo quando in gara lo score non viene“.
“Se hai tanto movimento di giovani alla base, hai più possibilità di avere giocatori sul tour. Quello è sicuro. Se ne hai pochi… io penso che dobbiamo essere orgogliosi dei nostri ragazzi che sono nel tour adesso, perché ne abbiamo 7-8. Su 70.000 giocatori. Siamo una grande realtà. Vuol dire che i maestri e la Federazione stanno lavorando bene”.
E altri ne stanno arrivando.
“Speriamo! Me lo auguro, perché vuol dire che anche quello che ho fatto io prima è servito a qualcosa, a incentivare i ragazzi a voler arrivare a quel livello”.
C’è Guido Migliozzi che potrebbe essere il futuro. E ha cominciato bene nel primo anno.
“Io vedo bene tutti. Poi è una cosa personale. Devi aver pazienza. Anche se hai vinto 3 tornei, devi cercare di vincerne sempre un altro. Ed è veramente importante, perché tutti giocano ad altissimo livello, perciò bisogna rubare un po’ il mestiere anche agli altri, magari quelli un pochettino più esperti. Questo fa parte del nostro mestiere. Io penso che ce la faranno ad arrivare ad altissimi livelli”.
Ce n’è uno che a quegli alti livelli è arrivato , e poi ha avuto tanti problemi, per tante ragioni, ed è Matteo Manassero. Qual è il Suo pensiero sulle sue problematiche?
“Ci ho parlato un paio di volte, ma non siamo mai entrati in quel discorso. Ognuno sa quello che ha fatto, quello che non ha fatto, quello che gli è successo. Lascio vivere tutti. Se uno mi chiede un consiglio, glielo do volentieri. Se uno non me lo chiede, penso che sia grande abbastanza per continuare. Ci sono in giro tante altre persone che possono aiutarlo. Non sono mai riuscito a capire bene il perché. Non vorrei dire perché ha vinto troppo presto e poi ci sono tutte quelle cose attorno che magari ti fanno perdere quell’attimo di concentrazione, però è ancora giovane. Se riesce a ripartire da zero… a me dispiace tanto vederlo così, però bisogna accettare e ripartire. La volontà penso che ce l’abbia, è un bravo ragazzo e gli auguro di ritornare molto in fretta“.
Forse, in questo periodo, il golf in Italia sta vivendo il suo momento migliore, vuoi per i due Molinari (Francesco ed Edoardo, insieme), vuoi per Andrea Pavan, vuoi per Francesco Laporta che è tornato sul tour europeo. Ci sono tante cose da poter raccontare.
“Quello sicuramente. Francesco ha dato il via a un’altra generazione e questi ragazzi penso che ne abbiano approfittato proprio perché anche lui è un bravo ragazzo e ha fatto dei capolavori, sia in America che qui, quando ha vinto il British Open, piuttosto che la Ryder Cup in Francia. Sicuramente uno dice ‘sì, c’è un campione e non arriva nessun altro’. Bisogna anche dare tempo agli altri di arrivare, non è che li fanno con lo stampino e si dice loro ‘tu vinci il British, tu il Masters, quell’altro e quell’altro ancora’. Bisogna avere il tempo, abbiamo il nostro carattere da italiani, dobbiamo aver pazienza e cercare di aiutare questi ragazzi anche quando non fanno risultato. Per noi italiani se tu arrivi dopo il 25° non giochi bene. Sei a livello mondiale, puoi arrivare una settimana 25°-30°, poi 10°, poi 2°, ti fai una certa esperienza e alla fine il torneo lo vinci”.
Anche perché con il sistema attuale vinci un torneo e schizzi in alto.
“Ma fai presto anche a tornare indietro (ride)! Bisogna camminare non sull’acqua, ma con i piedi per terra”.
Sembra però che in tanti si siano scordati che un buon movimento italiano c’era già 25, 30, 35 anni fa. C’erano quelli che per molti sembrano tempi così tanto lontani per quelli che guardano oggi.
“Forse eravamo un po’ meno allora. Poi c’era anche meno comunicazione, meno televisione e per noi era molto difficile prendere e andare in giro a giocare. Senza sponsor non è facile. Però c’erano anche allora dei buonissimi giocatori. Magari si sono lasciati andare perché non hanno visto i risultati che si aspettavano, ma ce n’erano di molto forti anche allora in Italia”.
Vale la pena ricordare Silvio Grappasonni, Massimo Scarpa, Alessandro Tadini.
“Penso che siano arrivati nel 1987-1988-1989, in quel periodo lì. C’era anche Emanuele Canonica“.
Tutti quelli del dopo Baldovino Dassù.
“E Massimo Mannelli”.
Oggi quelli che vedono il Suo ruolino di marcia negli Anni ’90 non pensano che la fatica che Lei ha fatto per entrare nell’Ordine di Merito sia stata tantissima: nove anni.
“Sono entrato nei primi 50, perché c’era un altro tipo di Ordine di Merito in quei tempi. Però quando ho preso la mia carta, dal 1989 in poi, nel 1990 ho fatto una buona stagione, nel 1991 ne ho fatta un’altra, nel 1992 un’altra ancora, poi dal 1993 ho iniziato vincendo due tornei in Francia, giocando la Ryder Cup. Non era facile perché allora non ce n’erano 80 che potevano vincere un torneo, però c’erano quei 10-15 che erano fortissimi”.
C’erano dei mostri. Nick Faldo, Mark Calcavecchia, Seve Ballesteros, Bernhard Langer, Greg Norman.
“Tutti quelli che ho incontrato. E’ stato bello perché ho imparato qualcosa anche da loro”.
Non era mai scontato quello che succedeva. Non si poteva mai sapere come andava a finire.
“A quei tempi, con le attrezzature che avevamo, quello che sapeva approcciare e manovrare la palla aveva molte più chance di altri”.
Si parlava della Francia. Una Francia benedetta, in quel 1993.
“Io non lo so come mai in Francia ho quasi sempre giocato benissimo. Ho anche due secondi posti, un terzo posto, quarto, quinto, sesto all’Open di Francia, un paio di volte a Lione. Non lo so come mai. Forse l’aria, o le lumache che mangio (ride)! Lumache, le rane”.
Una vita in mezzo agli stagni.
“Poi di acqua in quei campi ce n’era abbastanza!”.
Poi ci fu quella prima Ryder Cup fu un po’ sfortunata. Non ci furono tante soddisfazioni sia sul piano personale che su quello di squadra.
“Purtroppo lì i grandi che c’erano dentro, quelli che avevano più esperienza, avevano steccato. Anzi, abbiamo steccato, come squadra. L’ultimo giorno abbiamo perso malamente”.
Due anni dopo: “Almeno i due putt, almeno i due putt, vai dentro… non è possibile! E’ scritto”.
“British Open 1995. Quella è stata una bellissima esperienza. Devo dire la verità: non avrei mai pensato, almeno all’inizio, quando ho iniziato a giocare sul tour, di poter arrivare a competere per vincere un Major. Però è arrivato. Sono stato veramente vicino. Peccato”.
Con un torneo condotto praticamente sempre nelle parti alte.
“Ho giocato molto regolare in quella settimana, ho giocato veramente bene perché potevi trovare magari nove buche con il sole, poi poteva venir giù il temporale. Quelle situazioni lì. In Scozia non sai mai come va a finire la giornata, devi essere molto concentrato e non mollare mai”.
A maggior ragione a St. Andrews.
“Esattamente. E’ sempre bello quando torno, anche se non da vincitore. E’ un bel ricordo della mia vita”.
Cos’accadde nel playoff con John Daly?
“Ho fatto tre putt, lui ha imbucato, mi ha preso due colpi. Lì i playoff sono a quattro buche, è la loro somma. Alla 17 sono entrato nel bunker perché volevo tirare alla bandiera. Sono stato leggermente sfortunato e purtroppo è finita lì dentro”.
Tutti i meriti, però, a John Daly, perché parliamo di uno che ha fatto tanto.
“Non diciamo che l’ho perso io, ma che l’ha vinto lui”.
E poi fa sempre parte di quella categoria “mostri”.
“Non ha vinto molti tornei, però due Major sì”.
In quell’anno una delle cose che si tende a non ricordare è la buca in uno in Ryder Cup.
“Eccome, invece, se la ricordano! E’ stato bello, una bella emozione perché anche durante la settimana l’ho sempre messa molto vicina. Ci credevo. Lì è stato un bellissimo colpo di feeling. Sicuramente di precisione, però non ho giocato il ferro che giocavano gli altri. Invece di giocare il ferro 8, ho giocato il ferro 6, 5. Perciò è stata una bellissima soddisfazione, perché avevo appena imbucato un putt di quattro metri nella buca precedente per vincerla e fare buca in uno subito dopo, con Davis Love III che l’ha messa a un metro, mi son permesso di dirgli: ‘Davis, mi dispiace, è data’. (ride) Però è un grande amico, fantastico”.
Per fare buca in uno si dice sempre che ci vuole sì la precisione, però…
“Ci vuole anche la fortuna”.
1996. Si può dire che il Volvo PGA Championship sia stato la più grande soddisfazione?
“Vincere in Inghilterra è stato fantastico. Vincere a Wentworth, un campo molto delicato, con Faldo, Mark McNulty e altri 2-3 di quei grossi giocatori… Nelle ultime buche eravamo pari, sono riuscito a fare due birdie alla 17 e alla 18 e a portarmi a casa la vittoria, che è stata fantastica. Una soddisfazione enorme”.
Vengono quasi i brividi a mettersi nell’albo d’oro in mezzo a Langer, Olazabal, Woosnam (prima) e al tris di Montgomerie (dopo).
“Non è che te lo inventi, per l’amor di Dio. In quel campo devi giocare con serenità e molta furbizia. I vincitori sono sempre stati dei personaggi molto forti. Perciò mi son messo dentro anch’io. Per una volta!”.
Anche il 1997, con il quinto posto al Masters, ha vissuto il grande momento.
“Mi è dispiaciuto per i due bogey alle ultime due buche. Non potevo vincere, ma secondo potevo arrivare”.
Nessuno poteva vincere, c’era Tiger…
“Per come giocava in quel momento era un po’ dura. Avrei dovuto fare 63, ma non avrei manco vinto ugualmente”.
Il primissimo Tiger Woods era un personaggio che dominava ovunque, quando voleva e come voleva.
“Giocava forte. Aveva un gioco corto fantastico e poi la tirava veramente lunga. C’era John Daly che la tirava lunga, ma lui tirava veramente forte. Lo posso garantire, avendoci giocato insieme l’ultimo giro”.
E giocandoci insieme anche in Ryder Cup, vincendo il confronto.
“Quella non è stata una rivincita, però sono riuscito a star calmo, a giocare il mio gioco e metterla sempre vicino alla bandiera. Magari non molto vicino, ma in posizione, dato che lui tirava sempre per secondo i par 4, a metterla più vicina. Perciò è andato anche un po’ sotto pressione”.
Quella stessa pressione che lui ha imparato a mettere sulle spalle di tanti, essendo sempre stato un giocatore molto psicologico.
“Se gli davi un dito, ti pigliava tutto il braccio, la spalla, tutto. Perché è veramente forte mentalmente. Non solo per come tirava la palla, ma anche caratterialmente per come si comportava in campo non mollava mai”.
Dove si potrebbe collocare Tiger Woods in un’ipotetica graduatoria dei golfisti più importanti di tutti i tempi?
“Con gli altri sì, ho giocato insieme, però erano già un po’ più anzianotti. Penso che Tiger sia uno che, per come tira la palla, si comporta in campo, non molla mai, anche se non tira per la vittoria, vuole sempre fare meno colpi possibili. Questa è la dimostrazione per cui è rimasto 9 anni su 10 numero 1 al mondo. Ce ne sono pochi che han fatto questa cosa. Lo metto nei primi tre di sicuro, se non il primo“.
Ci furono anche il venerdì e il sabato, in quella Ryder, con Olazabal, che furono notevoli.
“Fu un grande match, con Olazabal, il sabato pomeriggio, che poi abbiamo finito domenica. Era il foursome contro il mio amico Davis Love III e Fred Couples, che lì aveva giocato un gioco fantastico. Eravamo alla 14 quando abbiamo vinto ed eravamo 6 sotto il par. Vuol dire che giocare in foursome, ed essere 6 sotto il par a Valderrama, devi giocare veramente bene”.
Valderrama che è stata la prima volta della Ryder Cup fuori dal confine britannico, per rendere l’idea di quanto contasse Seve.
“E’ stato fantastico, poi con lui capitano. Magari a qualcuno non piaceva, veniva e ti faceva giocare il colpo che voleva lui, poi se sbagli son cavoli tuoi. Però ci teneva molto e questa vittoria penso che se la sia meritata per quello che ha dato al golf europeo e mondiale”.
Si può dire che sia un piccolo rimpianto quello di non aver mai vinto l’Open d’Italia in 33 tentativi?
“Purtroppo sì. C’è un po’ di rammarico, ma nessuno è profeta in patria. Prendiamo questa scusa (ride). Ci ho sempre messo un grande impegno, però sei sempre un po’ più sotto pressione. Ce l’hai anche negli altri tornei, però in quelli di casa tua è di più. C’è sempre stato qualcosina, o una giornata, che non mi girava bene. Però va bene, bisogna accettare quello che si è fatto sul campo e basta”.
Ancora a proposito del golf italiano, viene in mente il ruolo che ha avuto non un giocatore, ma un grandissimo telecronista: Mario Camicia.
“Eravamo molto amici. Poi era un personaggio. Purtroppo se n’è andato, però ci ha lasciato tanti bei ricordi. Quando c’era lui dicevi: ‘Se non ci fosse lui, bisognerebbe inventarlo’. Riusciva a intrattenere le persone per 6-7 ore tranquillamente. E’ stato un grande personaggio per il golf italiano”.
Anche a costo di rischiare di strozzarsi. Cosa che rischiò di fare veramente quando Francesco Molinari infilò un eagle da distanza siderale, dal fairway.
“Tifava molto. Nella telecronaca metteva tutto il cuore. Riusciva quasi a portare la gente sul campo e questa è una cosa bellissima”.
Tornando sulla carriera: 1999, ultima vittoria in Irlanda. E dietro c’era Padraig Harrington, uno che sarebbe diventato significativo con i tre Major in due anni.
“Io me lo ricordo perché già allora si vedeva che era un grande giocatore. Aveva tecnica, una grinta in campo anche lui. Ci avevo giocato l’anno prima, quando era amateur, in un European Tour sempre in Irlanda, e mi aveva impressionato con il gioco corto. Ho detto: ‘Se questo qua mette a posto il gioco lungo, bisogna dargli i soldi subito, prima di partire’ “.
Poi c’è stata anche una bella amicizia con Gary Player.
“Mi chiamava ‘Pastamatic’. Si ricordava di Roberto Bernardini, Delio Lovato, Silvio Grappasonni, che ai loro tempi andavano giù in Sudafrica e lui faceva loro la pasta. Questo mi diceva. E’ un grande personaggio anche lui, ha fatto tanto per il golf e continua a farlo sotto forma di beneficenza. Una bravissima persona e un grande campione”.
C’è un personaggio del golf italiano che è sempre lì per scalare le classifiche, ma non ci riesce: è Renato Paratore.
“Renato lo conosco più in televisione che di persona. L’ho incontrato tre volte. Però lo seguo quando trasmettono il golf, e penso che lui sia un giocatore istintivo. Non deve pensare troppo, deve farsi secondo me ancora un paio d’anni d’esperienza, che farà magari senza mettersi a cambiare swing. Se si impegnasse tre secondi in più prima di tirare, magari due o tre colpi li risparmierebbe a fine torneo. Però è un talento e i talenti sono un po’ pazzi. Però ha il suo movimento, il suo modo di vedere il gioco. Un torneo l’ha già vinto, se adesso arriva a fare la sua esperienza, secondo me ci va facilmente vicino a rivincere”.
Una cosa dell’attenzione italiana al golf ha lasciato un po’ interdetti, quando Francesco Molinari vinse l’Open: i giornali generalisti sembrano aver trattato l’importanza della notizia, per certa misura, in maniera più congrua rispetto a quelli sportivi.
“Stiamo migliorando nel portare i giocatori nel tour, però siamo sempre un Paese un po’ distaccato ancora dal golf. Non siamo ancora riusciti a capire che il golf non è uno sport che possono praticare solo certe persone, o che sia solo per vecchi e facoltosi. Invece è un gesto atletico molto delicato, molto difficile da fare e impostare. Questa però rimane un po’ la nostra pecca: vedere i nostri giocatori che entrano in campo, girano tutto il mondo, tutto l’anno, fanno competizioni da tutte le parti anche con ottimi risultati (tantissimi), ecco, qualcosina in più la si potrebbe anche mettere. Uno dice ‘la Ryder Cup’. Per arrivare a fare la Ryder Cup bisogna arrivare a fare dei tornei, entrare in un certo Ordine di Merito mondiale. Per fare queste cose devi giocare bene ad alto livello. Penso che bisognerà migliorare ancora un po’ e speriamo che la Ryder del 2022 o 2023 ci porti a pensarla un po’ più positivamente sul nostro sport”.
Sempre parlando del rapporto con i media: per anni c’è stata la continuità della trasmissione di Sky, per qualche periodo anche la Rai ha trasmesso alcune prove, anche a livello di PGA. C’è stata una bella copertura di Rio 2016. Adesso c’è GolfTV, con escursioni su Eurosport. Come si può considerare il fatto che il golf si sia trasferito quasi in blocco su GolfTV, almeno in Italia?
“Sicuramente le multinazionali della televisione danno a questo, prendono all’altro e possono fare quello che vogliono. Sta a noi in Italia, se ci fosse la televisione statale che mi fa vedere non solo il calcio, ma anche il golf, ma anche che so, le bocce, il tiro con l’arco, il nuoto, lo sci. Sono programmi che sono a pagamento e non riesci mai a combinare tutte le cose messe insieme. Se riuscissimo a vincere altri due o tre Major magari qualcosina potrebbe cambiare”.
Va anche detto che la Rai sta migliorando in questo senso.
“Prima c’erano la Rai e Tele+2, che trasmettevano il golf. Non sempre, però c’erano i Campionati italiani, l’Open d’Italia e queste cose. Ci vogliono anche lì tanti investimenti perché non è facile riprendere il golf, servono delle persone esperte. Sono però abbastanza positivo sul fatto che qualcosa si risolverà”.
Speriamo che la Ryder Cup, in qualunque anno si svolga, possa continuare a creare un movimento. Finora si sono sentite tante polemiche strumentali, su cose che con il golf non c’entrano niente.
“Come ho detto prima, non abbiamo ancora la mentalità di questo sport. Lo riteniamo ancora uno sport che non fa parte della nostra ideologia di italiani. Però secondo me c’è parecchia gente che vuole avvicinarsi al nostro sport. Avere dei campi pratica con tre buche pubbliche sarebbe una cosa importante, perché uno si avvicina, vede se gli piace o non gli piace. Se non hai la possibilità di avvicinarti diventa molto difficile. E poi in Italia vedo cose un po’ differenti da molti altri Paesi, nel senso che lo sport nella scuola non c’è. Mettendo lo sport nella scuola, magari su 1000 persone, 1000 studenti, 10 vogliono giocare a golf. Però bisogna dare la possibilità di avvicinarcisi. Questo perché, secondo la mia opinione, il golf potrebbe fare molto bene anche al turismo, ai posti di lavoro e queste cose. Bisognerebbe guardare un filino di più a queste cose. Magari anche il Sud Italia, costruendo campi da golf, potrebbe diventare anche come il sud della Spagna”.
Il problema della scuola è molto importante. Alle volte le palestre non ci sono, poi ci sono anche le questioni dei tempi e del come. Di materiale ce n’è.
“Sono d’accordo. Ogni tanto, quando vado in giro, per esempio in Svezia, dove giocano a golf sei mesi all’anno (e devono svernare per giocarci), fanno sport nelle scuole, fanno di tutto, giocano a calcio, sciano, golf, tennis. Secondo me è una parte importante anche per i nostri giovani”.
Si spera che alla fine di questi problemi si possa tornare sui campi. Del resto il golf è uno degli sport più sicuri, perché in fin dei conti gli spazi sono tanti e di contatto non è che ce ne sia così tanto, si può anche andare senza caddie.
“Poi non è che tutti la tirano dritta in mezzo al fairway. Uno a destra, uno a sinistra, uno al centro, uno al centro a sinistra, uno al centro a destra, minimo sono 10-15 metri di differenza. Quando si arriva sul green, uno sa a cosa va incontro. Se vai per giocare, non vai ad abbracciare quell’altro, che magari alla fine ti frega nel punteggio alla fine delle nove buche”.
A livello internazionale il golf sta vivendo una stagione un po’ incomprensibile. C’è stato un periodo dominato da Brooks Koepka, poi è ritornato in auge Rory McIlroy e sta salendo tanto Jon Rahm. E stanno arrivando i giovani da Hovland in giù.
“Jon Rahm è un grande giocatore. Brooks Koepka, lui ce l’ha bene con i Major. Ne ha già vinti quattro, è fantastico. Però McIlroy secondo me poteva essere il numero 1 da 5-6 anni. C’è un po’ quello che vedo io: il carattere di Tiger non lo batte nessuno. Ogni tanto si vede che Rory si perde in campo. E’ ancora giovane, però è un grandissimo giocatore. Ha un talento enorme che ogni tanto si perde”.
Diciamo che ha quelle giornate in cui, ogni tanto, non gli gira bene niente.
“Quando non gira, lui non reagisce molto bene. Per confrontarlo con Tiger, quando non gli girava bene lui la faceva svoltare a suo favore ancora. Lui magari si lascia andare un attimino, magari dice ‘non vincerò oggi, vincerò la prossima settimana’. Tiger voleva vincere tutti i giorni. Quella forse è la differenza tra loro due”.
Cosa può aver inciso sul periodo negativo di Francesco Molinari?
“C’è stato un anno pieno di grande gioco e di momenti di pressione altissima. Tre Ryder le ho giocate anch’io. L’anno dopo eri sempre un pochino più rilassato, perché se sei uno che ci tiene tanto a giocare in Ryder quella settimana ti costa dieci tornei. La pressione che hai addosso è il doppio. Non è che giochi da solo. Lì giochi per la tua squadra, per il tuo Paese, per l’Europa. Perciò non è facile poi riuscire a mantenere quella pressione alta di concentrazione”.
Quest’anno sarà inevitabilmente molto particolare per il golf, perché ha perso l’Open Championship, ha visto riorganizzarsi tutto.
“Non è facile per nessuno quest’anno. Penso che debbano farlo un po’ di transizione. Io penso di non forzare troppo il dover giocare i tornei o roba del genere. Possono essere tutti giovani, ma se cominci a prenderti delle malattie non vai in giro così facilmente. Tutte le settimane ci sono dei trasferimenti. Gli hotel nuovi, il mangiare differente, tutte queste cose non sono facili. Penso che se allungano ancora un attimino fanno bene, anche per rispetto verso i giocatori. Perché se non vengono gli spettatori è come andare a giocare a una Pro-Am dove non c’è nessuno, solo i tuoi compagni e basta”.
Fra l’altro bisognerà andare a capire come faranno con il ranking: il PGA Tour comincia l’11 giugno, l’European Tour riparte a luglio, e a quel punto che facciamo?
“Per quello dico che non dovrebbero giocare la Ryder Cup quest’anno. Ti trovi a giocare una competizione come la Ryder e non hai giocato per cinque mesi. Diventa dura per tutti”.
E se ne va a ramengo anche il sistema di qualificazione.
“Non ritengo giusto farla quest’anno. Quando hanno cambiato nel 2001 e l’han fatta nel 2002 c’era il problema delle Torri Gemelle. Adesso ci sono problemi di centinaia di migliaia di persone morte”.
C’è qualche aneddoto particolare capitato negli anni di carriera, di quelli che si ricordano?
“Ce ne son tanti! Si fa così, si fa in giro, si fanno le cavolate nel senso buono. Ho visto tanti colpi fantastici giocati dai miei avversari, i miei compagni, e questa penso che sia una delle cose più belle”.
L’aver vissuto questo mondo. Una cosa semplice e grande.
“Esattamente”.
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Foto: LaPresse