Basket
Giorgia Sottana: “Europei 2019 fallimentari: ripartiamo dagli errori. Giovani sempre sui social, forse troppo”
Ci sono alcuni personaggi, nella pallacanestro e più in generale nello sport, per cui non è soltanto il palmares a parlare. Giorgia Sottana fa parte di questa categoria, perché ai cinque scudetti, alle tre Supercoppe, alle sei Coppe Italia, alle 140 presenze in Nazionale aggiunge una spiccata personalità, che non è solo quella sul parquet. Ha da tempo deciso di sviluppare diversi suoi progetti oltre il campo, dei quali si può trovare traccia attraverso il suo blog 4FourAM e la collegata iniziativa in formato magazine web IAMagazine, in cui racconta e fa raccontare alcuni sportivi che apprezza molto. Non perde mai occasione di ricordare l’importanza del prendere in mano la propria vita, più che un telefono cellulare, e ribadisce questo concetto anche nell’intervista che ci ha concesso a breve distanza temporale dal ritorno al Famila Schio, dove ha raccolto le maggiori soddisfazioni cestistiche in terra italiana tra il 2012 e il 2017.
Come mai sei tornata a Schio?
“Non c’è una motivazione precisa. C’è il fatto di volersi riavvicinare a casa, di voler tornare nel campionato italiano. Quando sono andata all’estero ci sono andata perché volevo mettermi in gioco, provare delle cose nuove, delle esperienze nuove, e voglio sicuramente tornare in Italia per vedere ‘come sono cambiata’ in un ambiente che, seppur sia altrettanto cambiato, conosco già. E poi perché, comunque, sono affezionata a Schio, a casa mia. Il presidente Cestaro è una persona che stimo molto, che ha fatto tantissimo per il basket femminile italiano, quindi se c’era un posto dove tornare in Italia, sicuramente quello è Schio. Era la prima opzione per me“.
A proposito dell’estero, tu racconti in “Io sono” (scritto con il mental coach Gabriele Bani) che l’idea di andarci non l’avevi solo quando ci sei andata effettivamente, ma anche almeno un paio di anni prima, solo che poi ti bloccavi sempre perché non eri sicura.
“In realtà sono sempre stata bloccata perché a Schio si sta bene, di fatto. Schio è una società seria, è un posto dove le giocatrici sono trattate bene e quindi è sempre difficile lasciare un posto dove stai bene per andare da qualche altra parte dove non sai come si starà. Sicuramente questo aveva influito tanto negli anni precedenti nel mio restare in Italia, però poi la voglia di provare un ambiente nuovo era maggiore della voglia di restare, e quindi sono andata”.
Sempre nel libro ricordi che dall’8 marzo 2019 al Fenerbahce non hai più giocato perché, in base alle regole del campionato turco, non hai più potuto scendere in campo in campionato e poi l’Eurolega si è fermata. Le esperienze a Istanbul e in Francia cosa ti hanno dato?
“Sono esperienze diverse perché sono in due Paesi completamente diversi, o comunque che hanno anche proprio uno stile di vita al di fuori del campo diverso. Sicuramente vivere in Turchia, e vivere a Istanbul, è stata un’esperienza bellissima perché io ritengo che Istanbul sia una delle più belle città che ci siano al mondo, almeno per quelle che ho visto io, e comunque ne ho viste abbastanza. Vivere in una città super caotica come Istanbul ti cambia le prospettive e il modo di vivere la giornata. Al contrario, in Francia ho vissuto a Montpellier (dove gioca il BLMA, alias Basket Lattes, N.d.R.) e quest’anno a Charleville-Mézières (sede del Flammes Carolo, N.d:R.). Quest’ultima è piccolina, Montpellier già è un po’ più grande, una città universitaria, molto bella, però la cosa bella della Francia è che hanno un modo di vivere la pallacanestro molto diverso e molto più avanzato rispetto al nostro. Quindi, ovviamente, a livello lavorativo la Francia è stata sicuramente un’esperienza bellissima”.
Molto più avanzato in che modo?
“Hanno un’organizzazione a 360°. In primis le atlete sono professioniste. Per quanto possa sembrare una stupidaggine, non lo è affatto perché, per esempio, in situazioni come questa che è appena successa, noi abbiamo avuto garantiti tutti gli stipendi. Gli ultimi due mesi ci hanno detto che ci davano solo l’80% perché eravamo in cassa integrazione, però comunque li avrebbero pagati. Sono dei privilegi che hai quando sei professionista, se sei un lavoratore al 100%, cosa che in Italia non siamo, e quindi tutti i privilegi che ci sono attorno a questa cosa non ci sono. Hanno un modo di vivere la partita spettacolare, per esempio con le presentazioni in stile americano; i palazzetti sono sempre pieni, a prescindere dalla prima in classifica o dall’ultima, c’è la banda. È un modo molto diverso di vivere lo sport e la pallacanestro femminile, maschile non lo so perché non sono mai andata a vederla. Però la femminile è sicuramente molto seguita”.
La differenza nei palazzetti tra Francia e Italia si sente: se lì sono praticamente sempre pieni, qui le immagini a volte parlano da sole e anche gli impianti non è che siano tanto grandi, tante volte.
“Io penso che a prescindere dagli impianti grandi o meno, serve che uno ci metta attorno un ricamo e sa vendere il prodotto in modo giusto come lo sanno fare i francesi, perché loro pongono attenzione a questa cosa, pongono attenzione allo sponsor, perché lo sponsor non è unicamente quello che ti da i soldi. È comunque una persona che fa parte, in qualche modo, del club, che ha maniera di parlare con le giocatrici, di passar del tempo con noi. Finita la partita avevamo l’obbligo di passare attraverso una specie di bar, e questo non solo noi, ma tutte le società fanno questa cosa. Sono invitati tutti gli sponsor. C’è un momento di convivialità condivisa, che ti fa anche affezionare, avvicinare a quello in cui stai investendo come sponsor. Idem per i tifosi, che hanno modo vedere le giocatrici, poterle salutare, scambiare due parole. È molto diverso rispetto al modo distaccato che abbiamo noi. C’è un lavoro bello dietro, non è semplicemente ‘sì, la gente è affezionata, va a vedere il basket’. Va a vedere perché è uno spettacolo, di fatto”.
In Italia, invece, come hai tu sottolineato più di una volta, abbiamo un problema televisivo. Ci sono LBF TV a pagamento e Mediasport Channel poco conosciuto. Si poteva trovare una soluzione diversa dallo streaming a pagamento e con un altro accordo in chiaro, sulla falsariga di anni precedenti in cui gli interlocutori erano la Rai e Sportitalia?
“Questa è una gran bella domanda. Purtroppo io non sono in Italia da tre anni, quindi non ti so dare una risposta a come ha funzionato e perché siamo arrivate a questa cosa qui. Non so neanche se effettivamente questa LBF TV ha avuto un riscontro positivo. Io personalmente non ho mai guardato una partita in questi anni perché non mi sento di pagare 40 euro per vedere uno schermo che a volte si ferma, in cui non si vede neanche il punteggio o con delle riprese che comunque non sono all’altezza. Io pago, per dire, 60 euro per vedere l’Eurolega maschile e hanno dei report, interviste, videocamera in 4k e tutto, e devo pagare 40 euro per una cosa fatta ‘su YouTube’, fatta ‘anche male’? Io penso che l’idea di far pagare può essere giusta, però dietro dev’esserci un lavoro fatto bene, che vale i 40 euro. Devi offrire dei contenuti extra, offrire qualcosa di diverso. Invece ancora questo non viene fatto, se non tramite i social qualche volta adesso perché ci siamo fermati e perché si è bloccato tutto, però così secondo me non funziona molto”.
Portavi anche l’esempio della FIBA che, su YouTube, gratis, fa vedere le partite di Eurolega ed Eurocup femminili e le manifestazioni giovanili.
“Sì. Tra l’altro la FIBA fa vedere partite che si vedono bene, ci sono delle grafiche super ed è tutto gestito in modo un po’ migliore. Ed è gratis. Mi sono guardata tutte le partite dell’Eurolega e non me ne sono guardata una del campionato italiano”.
Tornando un po’ indietro nel tempo, tu sei stata una trevigiana a Venezia per otto anni. Tanti e anche pieni: anni belli per la Reyer prima avesse problemi, benché poi sia tornata. su.
“Sono tornati in breve tempo, però non con lo stesso ritorno che c’era prima. Perché quando giocavo alla Reyer io il palazzetto era pieno per vedere noi, non per vedere i maschi. Adesso è pieno per vedere i maschi, e nessuno va a vedere la femminile. Per me questa è una grandissima perdita per loro, perché se avessero mantenuto lo standard che c’era in quegli anni in cui ero lì sarebbe stata una realtà a cui bisognava fare un applauso, perché una realtà che riesce a tenere una maschile e una femminile ai vertici e con del gran ritorno di pubblico penso che possa essere solo osannata. Purtroppo non è proprio così”.
Per lungo tempo poi è stata l’unica, poi si è aggiunta la Virtus Bologna salvando la situazione del Progresso. Però, come hai detto, la differenza di pubblico c’è: ai tuoi tempi c’erano partite di Eurolega con il Taliercio mezzo pieno.
“Pieno tutto, sì”.
E un altro palazzetto che era sempre pieno era quello di Taranto.
“Aveva tanto, tanto ritorno”.
Poi è stato brutto perderla perché era un posto diverso, aveva un calore diverso, era una variabile diversa.
“Purtroppo anche lì sono subentrati altri problemi e si è persa una realtà che comunque aveva fatto tanto, bene, aveva un bellissimo pubblico. Era una bella piazza. Ne manca una come Taranto al campionato italiano, anche se Ragusa ci è andata vicina. Però Taranto rimane Taranto”.
In questo periodo, poi, sono saltate Priolo, Parma, in parte Umbertide perché è ripartita dall’A2. Un problema c’è.
“Como. Ne son saltate parecchie. Potremmo farne una lista”.
Poi a Napoli è successo anche di peggio.
“Però lì sono dei problemi di sistema, perché se si permette a chiunque di fare delle squadre a caso, purtroppo questo è quello che può succedere e chi è che ci rimette? Le giocatrici”.
Giocatrici e anche tifosi. Quella squadra l’anno prima era andata in semifinale.
“I tifosi però poi vivono, perché loro vanno a vedere la partita la domenica. Una giocatrice che firma un contratto e non viene mai pagata, per tutto l’anno… capisci che per noi questo è il nostro lavoro, quindi è difficile quando succede una cosa del genere e queste cose non dovrebbero succedere. In Francia non succedono perché le società, prima di firmare chiunque, devono presentare il loro budget annuale. Devono far vedere che ce l’hanno. Qui invece può fare la squadra chiunque. Se io domani voglio fare la squadra, posso fare la squadra. Poi succedono queste cose e a rimetterci siamo noi giocatrici, che ci ritroviamo a non essere pagate o a essere pagate a metà”.
In tutto questo suona come una cosa positiva che l’Italia mantenga sempre Schio nell’élite, perché riesce da anni a mantenere il livello dei quarti di finale in Eurolega. Anche se purtroppo non la si vince, in Italia da 25 anni.
“Schio ha sempre fatto le cose fatte bene. Non l’ha mai, passami il termine, fatta fuori dal vaso, perché ovviamente a capo del Famila c’è un presidente che ha costruito un impero al di fuori del basket, perché è un imprenditore di successo. Nonostante abbia la sua età questo impero continua a gestirlo, e gestisce anche una società in cui ci sono persone competenti che fanno gli acquisti senza spingersi più in là di quello che possono. Hanno sempre fatto con quel molto, ma molto poco rispetto ad altre società di Eurolega, bene perché sanno fare le cose nel modo giusto, senza prendersi e prendere per i fondelli, che penso sia la base per una società che possa avere del successo”.
Nazionale: gioie e rabbie, in qualche modo. Tu hai debuttato nel 2007: Europei in casa tra Chieti e Ortona, e sgusciavi in mezzo a Stepanova e Lisina che erano alte oltre due metri. Era un’Italia che stava faticando a tornare su dopo anni bui. Ed è da lì che siete ripartite, poi.
“Sì, da quell’Europeo si è cominciato a far le cose meglio e si è cominciato a prendere un po’ di fiducia e ad avere un po’ più di risultati sul campo. Dal 2007 le cose sono iniziate ad andare meglio rispetto agli anni precedenti”.
Considerando poi che tre volte è stato sfiorato il Campionato del Mondo. Nel 2009 non c’eri, nel 2013 a due minuti dalla fine eravamo avanti con la Serbia e poi pari con la Repubblica Ceca a inizio ultimo quarto, e nel 2017 “gli otto secondi”, come li chiami nel libro. E lì rimarchi il fatto che l’antisportivo contro Cecilia Zandalasini non c’era, che era dubbio in quel contesto, ma c’erano ancora proprio quegli otto secondi. In quegli otto secondi Raffaella Masciadri prende, va di là e tira. Se entra quel tiro viene giù tutto.
“Però non è entrato, quindi… onestamente io non sono una di quelle a cui piace tanto parlare ancora di questa cosa. Ne ho parlato fino allo stremo”.
Anche perché per esprimere quelle cose c’è già stato, per chi vuole ancora andarselo a rivedere, un post su Instagram e quello parla.
“Sì. Onestamente quello è stato scritto a caldo perché l’ho scritto la sera stessa o il giorno dopo, adesso non mi ricordo di preciso. Però, se vuoi un mio pensiero a riguardo, io ne ho abbastanza le palle piene di continuare a parlare di quell’evento se poi ci sono altre cose che abbiamo fatto di cui non si parla. Abbiamo fatto un Europeo di ***** la scorsa estate, perché è stato fallimentare, e io penso che sia il caso di cominciare a parlare di quello invece di un evento di tre anni fa. Perché noi italiani siamo bravissimi a continuare a piangere su un evento di cento secoli fa. Quel fallo l’hanno fischiato, siamo stati arrabbiati, punto, basta, è ora di guardare avanti. Se continuiamo ancora a piangere su quello non ne usciamo mai più”.
Europeo, quello del 2019, in cui fra l’altro c’era stata Zandalasini stessa con problemi per tutta la preparazione, ma c’erano anche delle nuove scommesse, ammesso che Lorela Cubaj si potesse chiamare una scommessa essendo già nota la sua forza. Cos’è che poi non è riuscito a quadrare, oltre all’infortunio in corsa di Francesca Dotto?
“Ci son tante cose che non hanno quadrato la scorsa estate. Adesso puntarne fuori una, due o tre penso sia ‘inutile’. Sicuramente il fatto che Cecilia si era fatta male ha cambiato tanto perché noi abbiamo fatto tutto il raduno senza di lei. Poi ha cominciato a giocare con noi una settimana prima dell’Europeo. Ovviamente una come lei ha un peso e tutto quello che avevamo fatto prima è stato cambiato in 5-6 giorni. La squadra aveva comunque trovato un equilibrio diverso che è stato stravolto quando lei è ritornata. Purtroppo è andata così, ci sono state tante motivazioni che non ci hanno fatto raggiungere il risultato sperato. Bisogna imparare da quello che si è fatto male e andare avanti”.
Andare avanti, come sta facendo Capobianco cercando di fare il ricambio. Sta facendo entrare le ragazze dei gruppi nuovi, 2000-2001-2002. Può essere questo gruppo nuovo qualcosa di bello? In particolare, a Cagliari c’era Sara Madera, ma anche le 2001 e le 2002 ci sono ogni tanto nei raduni. Magari non giocano, però stanno salendo anche loro dalle giovanili.
“I raduni li han fatti anche con Crespi. Panzera l’ha fatto, Natali l’ha fatto, adesso Madera l’ha fatto con Capobianco. Sicuramente abbiamo tante giovani che possono far bene e che sono promettenti. Io penso che per far crescere queste giovani c’è bisogno di una programmazione, c’è bisogno di fare le cose con un senso, programmando, perché se no tante si perdono. Fare il salto dalla Nazionale giovanile a quella senior non è così scontato e facile. Mi auguro che chi di dovere faccia una progettazione un po’ a lungo termine”.
Quanto è importante che tante di queste ragazze abbiano spazio e minuti in Serie A1?
“Sicuramente è molto, molto, molto importante. È un primo passo per acquisire esperienza, per poi portarla anche in Nazionale. Ovviamente io sono della vecchia guardia, sono ormai ‘vecchia’ e penso che la Nazionale si debba meritare sempre. Quindi dire che una è forte, deve essere in Nazionale sicuramente sì, c’è chi lo merita, però poi bisogna anche meritarsi di starci”.
Tu, sul blog 4FourAM, hai scritto un pezzo, alcune settimane fa, sull’uso del cellulare. Secondo te questo problema quanto sta condizionando la crescita dei ragazzini? Inteso come: sta emergendo sempre di più un problema motorio ancor più che tante altre cose, perché la digitalizzazione sta facendo sì che questi ragazzini comunque non tendano a fare tante delle cose che hanno fatto quelli dell’attuale generazione dei trentenni.
“Io sono abbastanza contro il cellulare. Nel senso: lo uso, ma credo che, come hai detto tu, abbiamo vissuto una vita dove il cellulare non c’era. Sappiamo com’è stare senza. Dai ’95 in poi sono cresciuti e hanno sempre vissuto con un telefono in mano appena potevano. Io penso che oltre ad avere dei grandi problemi motori cresceranno con un problema di comunicazione non da poco, perché i loro mezzi sono postare la foto, mandarsi il messaggino, poi quando ti ritrovi a dover fare un discorso faccia a faccia è difficile comunicare ed entrare in empatia con loro, perché hanno dei canali comunicativi molto diversi rispetto ai nostri. Poi purtroppo io credo anche che la tecnologia ti spinga a diventare un po’ ‘addicted’, drogato di questa cosa, che non riesci a star senza. Controlliamo il cellulare ogni tre secondi, dobbiamo scrollare per forza Instagram ogni due secondi, quando siamo annoiati prendiamo il telefono e guardiamo cosa sta facendo Tizio e cosa Caio, invece di imparare anche a stare da soli senza fare niente. Imparare ad essere annoiati. Imparare a convivere con il sentimento del ‘cosa faccio adesso?’. Purtroppo tutto questo sta svanendo e svanisce di conseguenza anche la creatività. Questo è ovviamente un mio pensiero, non sono una psicologa. Però non penso di andare tanto lontana dalla realtà”.
C’è di più: se poi con una persona si litiga, la cosa ideale non sarebbe continuare a bisticciare per messaggio.
“Adesso funziona che mettiamo la storia, aspetta che devo scrivere il commento alla storia, messaggi intrinsechi che speriamo che quell’altro lo capisca. È tutto un mondo diverso da come siamo abituati noi”.
Come sono nate le idee delle interviste, sempre su 4FourAM, a Josh Owens e Matteo Piano (del quale fai una bella descrizione di ragazzo con il sorriso)?
“In primis è nato dal fatto che a me piace molto scrivere, e quindi ovviamente per me è un modo anche mio di esprimere la mia creatività. Essendo stata spesso, come in questo caso, dall’altra parte di chi fa le domande, devo sempre rispondere alle interviste. Non ne ho mai fatte. Ho sempre pensate si debba rispondere sempre alle solite domande. Ed è raro che trovi qualcuno a livello mediatico che ti faccia delle domande un po’ diverse. Quindi ho pensato che, visto che in questo periodo di quarantena, non avevo tutti i vincoli che ho generalmente durante la stagione tra orari, allenamenti e partite, di cominciare questo progetto”.
Oltre a quel progetto, c’è anche quello dei libri. Le letture si può dire che siano quelle non più popolari, ma più con un significato dentro?
“Io non lo so, nel senso che io leggo quello che a me interessa. Leggo le cose che mi appassionano e ricerco spesso nei libri le cose che voglio sapere o che comunque hanno un’affinità con quella che è la mia vita o anche no. Nel senso che mi è capitato di leggere dei libri che non pensavo potessero interessarmi, o meglio dei quali mi interessava l’argomento, però non ero sicura che fossero dei libri per me. In realtà poi sono stati dei libri bellissimi, che mi hanno insegnato qualcosa, che mi hanno fatto vedere un altro modo di vivere, delle altre prospettive, degli altri interessi. Sicuramente nell’ultimo periodo non sto leggendo tanti romanzi, sto leggendo tanta roba vera, nel senso di biografie, autobiografie, fatti reali, perché mi piace imparare da chi ha già fatto le cose e da chi le ha fatte bene”.
Tu hai scritto anche, in sintesi, che le distanze del Covid-19 raccontano segreti che non sono più segreti. Si tende a scorrere, scrollare, vedere quello che sta facendo l’altro, il piatto che mangia qualcuno, queste cose. È stato forse uno dei post più sofferti che hai scritto?
“Più che sofferto, direi, è stato un post che mi ha un po’ messo davanti la realtà. E quindi, ovviamente, ho cominciato molto a fare caso a questa cosa, perché costantemente si vede quello che fa l’altro. Sta diventando un po’ vecchia ‘sta faccenda, nel senso che non è necessario postare quello che mangiamo ogni giorno. Però ripeto, questo è il mio modo di vedere, di vivere. A me in realtà piacciono i social, perché penso che se usati in un certo modo siano interessanti, ti possono dare delle informazioni interessanti, ti possono avvicinare alle tue passioni, possono essere, e dovrebbero essere utilizzati, per come la vedo io, in un modo produttivo, nel senso che se tu posti cos’hai mangiato oggi obiettivamente che produttività ha? Non credo che ne abbia moltissima. Non per il senso che do io alla mia vita, alle mie cose. Capisco che magari per altri ormai è diventata talmente un’abitudine insediata. A me capita di ritrovarmi spesso a cena con gli amici, e capita che durante la cena siano tutti al cellulare. Bene ma non benissimo. Sono più preoccupati di postare che si è a cena con gli amici che di divertirsi per la loro presenza”.
Tu e Gigi Datome siete sulla stessa linea, perché nel suo ‘Gioco come sono’ dice esattamente questo: si è accorto, a un certo momento, che tante persone guardano il cellulare in modo fisso a cena.
“Anche lui posta parecchio!” (ride)
A proposito di responsabilità, ma su un tema completamente diverso: tu consideri molto importante averla fin da ragazzi. Hai raccontato quell’episodio in cui, a 15 anni, dicevi di non voler andare all’allenamento e tua madre ti ha detto l’equivalente di “fai un po’ come ti pare”, e poi ci sei andata. E da lì sei arrivata fin qui.
“Sicuramente avere il senso di responsabilità penso sia una delle cose più importanti che una persona può avere e deve cercare di assumere il più velocemente possibile. Ultimamente siamo, credo, troppo protettivi nei confronti dei ragazzi, e il senso di responsabilità loro sorprende noi quando in realtà sarebbe il caso che si sorprendessero loro. Quanti genitori di ragazzi di 15-16 anni chiamano gli allenatori per dire ‘no, mio figlio deve studiare, non viene’? No, cavolo, chiamalo tu. Purtroppo questo succede troppo, troppo spesso e i genitori tendono ad essere un pelo troppo protettivi nei confronti dei figli. Queste sono esperienze tramite il mio camp, mio fratello che allena ragazzi giovani, mio padre lo stesso, quindi sono fatti d’esperienza, non inventati. Purtroppo penso che si stiano crescendo dei ragazzi un po’ poco responsabili, che non vuol dire cattive o bravissime persone. Dico semplicemente che ognuno dovrebbe prendersi le proprie responsabilità delle proprie scelte, delle proprie azioni, delle proprie cose”.
Un pensiero finale sulla pallacanestro e in particolare su Chicca Macchi, che ha lasciato Venezia dopo due stagioni. Diceva che l’ultima doveva essere questa, però il Covid-19 ha rimesso in discussione tutto. Cosa pensi che vorrebbe fare?
“Penso, onestamente, che di quello che decide di fare Chicca non metto bocca. Che lei finisca domani, o avesse finito un anno fa, o finisse tra un anno, non cambia chi è Chicca, la sua carriera, quello che ha fatto, quello che non ha fatto. Qualsiasi scelta lei faccia, il suo l’ha fatto. Quindi quello che fa, fa bene a lei e buon per lei. Se decide che questa stagione è la sua ultima o vuole farne un’altra, onestamente a me basta che lei stia bene, sia contenta e faccia quello che ritenga più necessario per lei”.
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Credit: Ciamillo