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Enrico Gilardi, basket: “Nella Nazionale di Mosca ’80 Meneghin era il mostro sacro. Vorrei che un romano avesse l’obiettivo di giocare in A a Roma”

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Roma, luogo di basket, di storie e di uomini che, attraverso queste storie, hanno saputo dare alla pallacanestro capitolina un’aura di leggenda. Enrico Gilardi, senza ombra di dubbio, ne è risultato il più importante rappresentante degli Anni ’80 e uno dei più importanti in assoluto, lungo quasi vent’anni di carriera quasi tutta spesa nella Capitale. Gli esordi alla Lazio, il prosieguo con la Stella Azzurra degli anni d’oro, e poi la storica epopea del BancoRoma, dove l’urlo “Banco! Banco!” risuonava all’interno del PalaEur che ha amato in maniera viscerale quella squadra e quelle persone. Ma Gilardi è stato, ed è ancor oggi, anche un uomo che comprende e interpreta la realtà del mondo in cui si trova, dal punto di vista di quel settore giovanile che tanto è cambiato negli ultimi anni. Una lunga varietà di argomenti è stata trattata nell’intervista che ci ha concesso, in cui si passa dai ricordi alla realtà e alle riflessioni.

Cosa fa Enrico Gilardi oggi?
Enrico Gilardi oggi mantiene, all’interno del Comitato Regionale Lazio, un ruolo di consigliere, dov’è stato ritagliato ormai da più di 12 anni questo aspetto di cura dello sviluppo del settore giovanile, anche per quanto riguarda i progetti tecnici che poi sono confluiti in un programma che è stato tirato fuori da qualche anno dal Settore Squadre Nazionali, che per questa politica di qualificazione e monitoraggio dei giovani è arrivata a creare figure rappresentative per ogni regione. In questo momento ricopro anche il ruolo di referente tecnico territoriale per il Settore Squadre Nazionali. Sono due progetti nati in tempi diversi e con tanto anticipo, che però a lungo andare hanno fatto vita parallela con quest’altro tipo di attività, che poi lascia la terza con cui tutti i Comitati si devono confrontare, l’allestimento di rappresentative in funzione di tornei più o meno istituzionali. Quello istituzionale per eccellenza è il Trofeo delle Regioni, poi sono nati anche tanti altri tornei, quadrangolari tra Regioni, per dare la possibilità ai giovani di confrontarsi al di là di tutte le loro attività, delle loro società, perché crediamo che in queste situazioni mettiamo i ragazzi a confronto con realtà, modalità e prospettive diverse, anche con la loro necessità di capire che ci sono mondi diversi da quello che conoscono nella loro società, nella loro Regione. È una possibilità che rimane limitata a un discorso di selezione, ma l’impegno è su tre canali che molte volte vengono confusi, ma che sono in realtà con indirizzi completamente diversi l’uno dall’altro”.

Parlando di settore giovanile, non si può non rimarcare come oggi sia un discorso molto diverso rispetto a 40 anni fa per lo sviluppo della pallacanestro e di quello della tecnologia, che hanno modificato tante cose in corsa.
“Non solo la tecnologia. Se parliamo di una programmazione, un’attività di un settore giovanile, sono cambiati anche gli aspetti organizzativi, che hanno modificato le finalità, per esempio nel discorso per cui una volta una società mirava a ottenere la proprietà di un giocatore, per poterlo sviluppare e poi ‘monetizzare’ il lavoro che faceva. Adesso si fanno tutti i riferimenti rispetto a parametri, NAS, in proiezioni a lunga gittata, che vengono poi messi in discussione in continuazione. C’è un’influenza molto più importante delle prospettive che i genitori, le famiglie, i ragazzi che hanno un po’ di talento riescono a mettere in campo. Per cui ci sono questi movimenti forzati o non forzati per simpatie e antipatie, per ideologie, per cui è diventato un mondo un po’ più complesso. L’aspetto che rimane fondamentale è come, di fatto, impostare un settore giovanile da un punto di vista di prospettiva tecnica e contenuti in funzione del discorso dei risultati. Si sono create delle situazioni societarie che hanno, non in maniera omogenea, ricalcato una tipologia, un obiettivo, un modo di lavorare diverso dall’altro e forse a volte si mettono a confronto delle realtà che potrebbero ormai non avere niente di affine tra di loro. Il confronto sul campo rimane alla vista di tutti, ma bisognerebbe andare poi a fare valutazioni sui percorsi che (sono tutti validi) possono essere più interessanti al fine di quelli che sono gli obiettivi da voler raggiungere”.

Viene da pensare al fatto che,mentre una volta c’erano gli allenatori che credevano nei giovani, com’è stato il Suo caso o quello di Stefano Sbarra limitandosi a Roma intesa come città, oggi sembra quasi episodico parlare di Gabriele Procida di cui Cantù si fida, Davide Casarin che viene aiutato a emergere a Venezia. Due casi, ma potrebbero e dovrebbero essercene tanti di più.
“Lì è capire se i giocatori non sono pronti o non vengono ‘lavorati’ nella maniera giusta, ma forse, come dicevo prima, qui diventa un panorama cambiato in maniera globale sul discorso dei numeri. Perché questi ti portavano anche a creare necessità, perché su 12, 2 soli erano stranieri e non c’era tutto il resto del mondo che si poteva camuffare e mettere dentro. Non dimentichiamoci che l’intermediazione degli agenti che poi hanno portato positività per molti, io non voglio lasciare l’idea che questo sia giusto e questo sbagliato, non m’interessa farlo, dico solo che la valutazione che c’era allora non può essere riportata a oggi perché sono cambiate troppe cose. A me piange il cuore, e vivo questa realtà esattamente con l’ambizione di voler immaginare che un ragazzo di Roma abbia nella sua testa l’obiettivo di dire ‘voglio e ho la possibilità di giocare nella squadra di Serie A di Roma’. Potrei dire: Casarin è chiaramente un elemento che ha validità, ha anche un percorso che per il suo trascorso familiare e societario che gli consente di valorizzarlo. Negli anni, anche quando Roma è stata in A1 con ruoli importanti, non c’era questo facile rischiare su ragazzi così. Roma ha fatto anche una politica meritoria sugli italiani, ci sono scelte che possono pagare. È chiaro che la filiera che parte dal settore giovanile e arriva alla Serie A oggi è difficile per tutti, anche per realtà importanti. Ci sono realtà ormai specializzate nel far crescere, e forse bisogna creare un percorso. E forse non è più il campionato di Serie A quello che possa rappresentare la vetrina e lo sviluppo dei giocatori italiani validi che possano poi avere un ruolo importante anche per la Nazionale. Una Federazione che deve occuparsi dal minibasket alla Nazionale A, passando per un campionato professionistico, ha delle esigenze che mutano in corso d’opera. Il percorso prima era più naturale, adesso secondo me è diventato molto più tortuoso e forse bisogna lì trovare delle strade, dei flussi forse diversi da quelli che ci immaginavamo prima, altrimenti se stiamo qui ad aspettare un giocatore che è in grado per situazioni contingenti e via dicendo di essere da giovane immediatamente portato alla ribalta, uno che abbia 18-20 anni, notiamo che si contano sulle dita di una mano. Poi si è ampliato il mercato, ci sono le prospettive estero, Stati Uniti, universitaria, NBA. Il sogno, se rapportiamo io o Sbarra o Fulvio Polesello o Roberto Castellano, diventa realtà molto difficili da replicare”.

Proprio parlando del gruppo romano dello scudetto, era formato proprio di queste quattro storie di Roma tutte diverse, ma con l’obiettivo. C’era la crescita romana: Lazio e Stella Azzurra, poi è arrivato il Banco, ma c’era una rete di contatti, le società romane avevano dei buoni rapporti, mentre oggi certe volte ci si fa la guerra.
“C’è stato anche il Master Valentino. Erano realtà che convivevano con altre come quelle citate. Tutte con una storia che ha fatto in modo tale da creare un serbatoio su cui poteva gravitare tutto il movimento, e non ultimo il fatto che veniva riconosciuto a livello nazionale che c’era effettivamente una scuola romana, laziale anche di tecnici, dove ci sono stati degli elementi di indicazione di quello che poteva essere una positività. Invece Roma, nel momento in cui si è portata avanti sulla situazione molto più di sopravvivenza economica, ha trovato forse poche risorse perché all’inizio si faceva a trovare sostegno da realtà istituzionali. Una città come Roma non ha un palasport dove far giocare le proprie squadre, e deve ritrovarsi ad avere condizioni in cui o trovi la situazione gestionale improponibile per chiunque del PalaEur, che era lo stesso problema nostro degli Anni ’80, e nella stessa situazione è venuto a mancare un impianto come il Palazzetto. E non c’è niente di diverso, niente di nuovo. E allora dove arrivi una società laziale che voglia provare a trovare un cammino, andiamo alla migrazione, se parliamo un po’ essendo di parte. È chiaro che se hai due società di Roma che devono migrare c’è un problema di non poter avere quell’appeal nella città, quella situazione che ora stiamo vivendo qui”.

Il problema del Palazzetto è a dir poco vergognoso. Fa male vedere le immagini di Basketincontro che mostrano lo stato in cui versa l’impianto di Viale Tiziano. E sul PalaEur: cambiano i soggetti ma non la situazione, perché anche il Banco, nella stagione 1982-1983, dovette battagliare per poterlo avere dalla semifinale scudetto, e anche a inizio stagione 1984-1985 era stato chiuso alla pallacanestro; ci volle un decreto in Senato per farlo riaprire con l’Armata Rossa, come allora veniva chiamato il CSKA Mosca.
“E lo aprimmo anche con la Stella Azzurra, perché anche lì fu un esperimento portato avanti prima dell’epoca del Banco di Roma, con l’emigrazione in un palasport del genere per un campionato e un playoff che poteva anche quello cambiare la storia. È chiaro che poi Roma, il risultato, la cosa, possono scatenare. Ma il problema è gestionale. Una società che deve mettere a budget i soldi che ci vogliono, fermo restando che non è detto che non lo riuscirai a riempire, si trova in un problema, perché quei costi sono gravosissimi per un club. Questo è il supporto che manca. Non si può scoprire dopo due anni la questione del Palazzetto con delle foto, il problema è che il Palazzetto si chiude e dal giorno dopo si comincia a lavorare. Non che dopo due anni si prepara il bando per poter fare i lavori. Quei pochi campi che ci sono, strutture anche per fare allenamenti, quelle pubbliche, vengono mandati al degrado. C’era un pallone che era stato costruito per gli Europei di Roma 1991 al Tre Fontane, che è devastato e se ci fai le foto è anche messo peggio del Palazzetto, dentro non c’è più niente. Il parquet è sfasciato, doppio campo con parquet, inesistente, distrutto. Era un campo che con la moria che c’è, c’era pure una tribuna laterale, poteva essere uno sfogo, un serbatoio, ancor di più. Il Comitato, la Federazione, ci hanno provato, ma a volte neanche la Federazione riesce a far superare rapidamente queste cose. E stiamo parlando del problema dell’impiantistica, che anche questa entra nel meccanismo, perché se a un ragazzo per fare allenamento puoi dedicare un’ora e mezza se va bene, perché devi ridurre i tempi per incastrare le situazioni, non è buono. Ai tempi nostri, le ore dedicate al minibasket erano dalle 3 alle 5 del pomeriggio. Esattamente. Oggi è tutto il contrario. Se non metti il minibasket dopo le 5 non riesci a farlo. Per molte società il minibasket non è solo attività, ma soprattutto attività remunerativa. Per cui sei costretto a fare allenamento a orari improponibili. Se vai a studiare i programmi di allenamento di Virtus o Eurobasket, s’allenano dall’una alle tre. Ed è colpa dell’Eurobasket o della Virtus che si trovano costrette a dover fare i conti con tante realtà? I discorsi sono complicati. La pallacanestro ora è di fronte a un problema macroscopico, però è tutta la struttura che avrebbe bisogno di una rimodulazione, che però poi deve tener conto dell’oggi, dell’attualità, di come si muove lo sport oggi, vedi le problematiche che ci sono a livello di Serie A nel creare risorse per attirare di nuovo gli sponsor, e non è che perché c’è la pandemia non ci sono più, ma non navigavamo nell’oro negli ultimi anni”.

Oggi è cambiato tutto. C’è stato un tempo in cui le sponsorizzazioni erano di grande importanza. Il Banco stesso, che era proprietario della Virtus, poi il Messaggero e le varie attività di Corbelli. Fuori da Roma, c’erano i nomi importanti di Milano. Torino con la Robe di Kappa, c’erano la Neutro Roberts a Firenze, la Panasonic a Reggio Calabria.
“Appunto, è fondamentale richiamare. Oggi il problema c’è con l’appetito per le sponsorizzazioni, come nel settore televisivo, e in questo momento forse il basket negli ultimi anni non è riuscito completamente a creare un’opportunità di interesse particolare, per cui un po’ si è pagato in questi termini. Stiamo però parlando di grandi sistemi. Torniamo a parlare di cose più terra terra in quest’ottica qua”.

A proposito di cose più terra terra, ma non troppo: com’è stato il rapporto con Larry Wright?
“È stata un’esperienza importante. Io dovevo rappresentare il trait d’union con la sua realtà. Sicuramente aveva un carattere particolare, che si portava dietro anche dalla sua esperienza di vita. Noi eravamo lontano un miglio dalle problematiche razziali, dalla Louisiana, cosa che nel nostro intimo e nella nostra realtà di quella squadra non ci sfiorava minimamente (Larry Wright veniva da una storia non semplice, da un anello NBA e dall’esser stato “dimenticato” in America, ndr). Dall’altra parte c’era la sua necessità di adattamento, ma torniamo al precedente discorso: allora erano due stranieri che si dovevano adattare a dieci italiani, perché per poter convivere trovavi la necessità di integrazione. Poi c’era anche lì un identificarsi che oggi non so quanto è più normale. Allora quando compravi uno straniero era come se prendevi un italiano che sposava la maglia, che stava là. Non riesco a pensare, come mia mentalità, che uno gioca e dopo tre mesi va a giocare con un’altra squadra, mentre il campionato è in corso. Capisco la modernizzazione dei rapporti di lavoro, ma per me è inconcepibile. Questo è forse anche il motivo per cui un allenatore lavora in funzione di? Che cosa? Del risultato, ma poco sulla costruzione, perché se qualcosa non va bene dopo due mesi tagli, non c’è problema, se puoi cambiare cambi. Quando va bene che non tagliano l’allenatore. Per cui è un problema di costruzione. Lì c’è stata, in quei tempi, la costruzione di Larry Wright con dietro Stefano Sbarra che ha potuto apprendere e crescere, e negli anni in cui Stefano è venuto fuori ha dimostrato di poterlo fare. C’era l’investimento su una guardia italiana. Prendevo un play, dovevo anche prendere un giocatore che molte volte ricopriva un ruolo che era una guardia, e l’altro era un centro. Già che investi su Polesello, e poi c’era un progetto, un progetto a lungo termine”.

E del resto, poi, ecco perché Bianchini fa tirare a Sbarra i liberi finali in Coppa dei Campioni, a Ginevra.
“Sì, ma al di là dell’atteggiamento. Poi rivedendo quella scelta là, non credo che a Valerio siano mancate le occasioni per raccontarla. Se la valutazione la facessi oggi, la farei in funzione del tempo residuo e anche in funzione di se avesse sbagliato il libero. Una rimessa in situazione organizzata per mantenere il pallone, non so. Però non è che Stefano ha dimostrato con quel libero di avere il coraggio e la sfacciataggine, perché è stato in campo in quella partita, non è entrato all’ultimo secondo. ‘Sfortunatamente’ per me, per lui in quella partita si è creato molto più spazio (Gilardi la finì in anticipo per falli, ma fece fare il quarto a Juan Antonio San Epifanio, per tutti semplicemente Epi, N.d.R.), lui non si era demoralizzato negli errori e ha affrontato a viso aperto la sfida che aveva davanti. Però torniamo a dire: quando fai parte di una squadra ognuno fa il suo. Se c’è il coraggio di uno, ci sono anche gli altri che stanno facendo. Credo nel senso della pallacanestro e dei risultati legati alla coralità. Se valuti un risultato con un uomo solo, non valuti il risultato, perché senza rimbalzi, difesa, tutti quanti, puoi fare ben poco“.

Oltre ai ragazzi di Roma, in quel Banco c’era anche una persona che se n’è purtroppo andata due anni fa. Lo chiamavano il Doctor J italiano, era Marco Solfrini.
“Marco era una grande persona capace, caratterialmente, di adattarsi alla situazione. È uno inserito dentro a un progetto, e lui aveva le caratteristiche per rientrare nell’humus della città, del gruppo, della disponibilità. I soliti discorsi: la costruzione della squadra. Io sono convinto che parta anche dalle capacità, dalle diverse storie, con il massimo rispetto e l’importanza che chiunque altro portava in quel gruppo. L’assoluto convincimento che stavi lì, potevi dare e davi il massimo, il tuo massimo era esattamente quello di cui gli altri avevano bisogno e tu avevi bisogno del loro massimo, del loro modo di essere, di quelle caratteristiche là. Perché era l’unico modo di costruire un puzzle che arrivasse poi in una certa situazione. Non è che quando siamo partiti a inizio anno abbiamo capito ‘ah, siamo dei fenomeni’. No. È una squadra che è andata in costruzione, passo dopo passo, e in consapevolezza. Vedevi che i pezzi si mettevano bene e che usciva fuori alla fine la figurina giusta”.

E non era solo l’A1 a essere competitiva tanto da dare quel tipo di confronto ai giocatori che ci entravano, ma c’era anche, e questo è anche un Suo vissuto per via dell’anno di Napoli, un livello di A2 enorme. In cui andava a giocare Oscar, che proprio in quella stagione 1990-1991 andò a giocare a Pavia.
“Oscar è stato più un numero 3-4, io ai miei tempi chiaramente penso a tutte le guardie prima di me, da Yelverton in poi, tutta gente in un mercato in cui c’erano gli italiani, c’era Brumatti, c’era Carraro (Lorenzo, non Franco, ndr). C’era Antonello Riva. Poi si è alzata la fisicità, si è tolta un po’ la questione del ruolo. In quel contesto di squadra Bianchini, al Banco, mi ha consentito e ha pensato di inventare un ruolo di guardia di un certo tipo, anche realizzativa, ma che poi diventasse da costruzione, finanche ad arrivare a fare il famoso play aggiunto, all’organizzazione della squadra, dove prima si valutavano in campo le scelte e i tempi nei ritmi in cui si giocava, le scelte dello schema, quale fosse in quel momento la cosa migliore da fare. Oggi fai fatica a capire se c’è tanto una differenziazione, perché il gioco è diventato più atletico, un 1 contro 1 all’infinito con l’obiettivo all’infinito del tiro da tre punti. Nella mia storia è arrivato nel 1984, ma è chiaro che cambia completamente tutto. Io con i giovani faccio un giochino molto stupido. Vediamo chi prende la palla per cominciare a giocare. Fate un tiro e vediamo chi fa canestro. Tu prendi un ragazzino, la prima cosa: va a provare a canestro per vincere il pallone per poter giocare, va fuori dalla riga dei tre punti e tira da tre punti. Che probabilità ha questo ragazzo di realizzare per vincere quel pallone? Sbagliano. Ho detto che bisogna tirare da tre punti? No. Tirare da due, che ugualmente non fanno, ha meno prestigio, meno senso. Secondo me per i giovani sotto certi aspetti, poi ognuno ha le sue politiche, devi dire che quella diventa una prospettiva, ma quello non è il tuo utile, perché non farai mai canestro”.

Quella infatti è una caratteristica che si allena, non che si prova a caso.
“Ma il problema è che quando hai dei ragazzini di 14 anni, la struttura fisica, il peso del pallone, le impostazioni sono talmente tanto variabili che tu puoi trovare il fenomeno che fa sempre canestro da tre, però devi saperlo fare nel momento in cui lo puoi fare. Però non è che ci sono tanti che tirano bene da tre. Tu costruisci giocatori che sappiano tirare bene. Io parlavo dell’aspetto psicologico. Se io ti dico ‘fai questo così vinci’, scegli di fare il salto mortale o il saltino?”

Teoricamente il saltino, nei limiti di quello che viene concesso.
“Per cui il problema entriamo nell’ottica di mentalità e via dicendo. Io litigo e discuto coi ragazzi e dico ‘guarda che se la tua soluzione è un passaggio arriva uno scarico e tu sei in quel punto del campo devi tirare. Non fai canestro? Non fa niente. Sei fuori dalla linea dei tre punti? Non fa niente. Tiri e non fai canestro, ma quello è il tiro che devi fare’. Quello è il tiro che devi insegnare, ma non il fatto che quella è la finalità del gioco, perché se la è è un altro sport”.

Non a caso un grande come Sergio Tavcar diceva una cosa su Drazen Petrovic: ritiene sempre che il miglior Drazen si sia visto prima dell’introduzione del tiro da tre punti. Dopo, dice che lo ha “ammazzato”. Era un altro giocatore prima. E parliamo di Drazen Petrovic, con tutto quello che è riuscito a fare.
“Siamo purtroppo nella mia era, nei nostri confronti, dove la linea del tiro da tre non esisteva e dove l’ottimizzazione del risultato la cercavi attraverso penetrazioni, soluzioni diverse, spazi diversi da dover trovare. Oggi i ragazzi (non voglio parlare dei professionisti, non m’interessano) giocano guardando la riga per terra. Se stanno dentro la riga devono fare il passo indietro e davanti hanno il vuoto”.

Negli Anni ’80 c’era la pallacanestro italiana con le squadre che vincevano le Coppe europee. C’era Rieti che riusciva a vincere la Coppa Korac, c’era Cantù che vinceva la Coppa dei Campioni, c’era Milano, c’era il Banco. C’era la Nazionale che vinceva l’argento a Mosca ’80, l’oro di Nantes, il bronzo in Germania Ovest, l’Olimpiade sfortunata di Los Angeles.
“Sono una parte di storia della pallacanestro che ha una connotazione per cui quel modello è stato assolutamente positivo e fortunatamente anche vincente. La stessa Nazionale di quel ciclo che è partito da Mosca fino al bronzo dell’85 aveva esattamente quelle caratteristiche di cui parlavo a proposito del Banco, io ritrovavo esattamente le stesse cose. Non vorrei abusare della parola amicizia, io dico rispetto. Gente con cui tu non ti puoi sentire, abbiamo preso tutti strade diverse dalla Nazionale a quelli del Banco. Abbiamo tutti sfide diverse e strade diverse. Basta incontrarsi, parlarsi, dieci secondi, e tu riaccendi esattamente quel tipo di sintonia e di rispetto e di fondamentale legame che è entrato. In quella Nazionale c’era Meneghin che era il mostro sacro di tutti, con giovani come me e Brunamonti dentro, Antonello Riva. Marzorati e Meneghin con tutto il resto del mondo. In mezzo c’erano giocatori che hanno fatto storia come Villalta, dal grande riscatto come Meo Sacchetti. Meneghin sapeva quanto potesse essere importante, anche Gilardi”.

Meneghin, che è uno che fino a 44 anni ha detto la sua, cosa che oggi si farebbe fatica a immaginare.
“Lui è stato un elemento un po’ particolare. Io ho fatto scelte esattamente contrarie. Lui aveva le strutture fisiche, capacità, possibilità. Dan Peterson ha capito a un certo punto come poteva utilizzare al meglio la figura dopo il ciclo mitico dell’Ignis Varese, come poter riciclare in qualche maniera e farlo diventare ancora più importante anche in un’età avanzata. Però questa è una caratteristica dovuta alla capacità, al carattere, al modo di essere, di dire, quello che dava sul campo. Tutte le storie vanno raccontate per il momento in cui sono collocate. Quella era la chiave giusta di lettura di quella che era in quel momento la pallacanestro, quello che era il movimento, la possibilità, e quello è stato sfruttato al massimo e si è tirato fuori il meglio di quello che si poteva tirare fuori in quel momento lì. Oggi quel modello è desueto, non credo sia facilmente ripercorribile, ma uno dovrebbe avere l’ambizione di provare e di dire che qualche cosa di quelle tracce là andrebbe ripercorsa e se ne dovrebbe tener conto. Poi ci sono realtà societarie che lo fanno, e trovi delle altre realtà con altri tipi di prospettive. E allora ci sono confronti che sembrano come se facessi giocare la NBA con una squadra universitaria. Lo sa chiunque che la struttura di gioco della NBA non è quella delle università, credo che sia banale”.

E poi c’è un tipo di mentalità diverso, perché diverse sono le cose a cui hanno accesso.
“Diciamo che siamo sempre stati adattati a un modello che era molto più palesemente riconducibile alla pallacanestro universitaria, con l’aggiunta di qualche straniero, e abbiamo (necessariamente?) trasformato il tutto andando a fare un campionato che entrava nella mentalità, nell’atteggiamento, nella struttura, nella concezione della NBA. Chiaramente lì si è creato il punto di difficoltà, perché si doveva cambiare anche la struttura di costruzione, mentalità, prospettive. Questo se vogliamo scimmiottare gli Stati Uniti”.

Oggi sono veramente pochissimi i giocatori che riescono a essere persone fuori dal basket. Lei teneva una rubrica sul Messaggero, ai tempi del Banco. E poi viene in mente anche un confronto sul basket europeo e quello universitario, fatto molto recentemente da Rick Pitino dopo l’avventura al Panathinaikos, che ha detto che in attacco l’Europa gli ricorda tantissimo la sua NCAA.
Questo discorso va posto esattamente in questa maniera: proporsi nelle realtà e creare realtà che devono avere una propria identità, un proprio modo di configurarsi con l’obiettivo che ti vuoi porre. Se l’obiettivo è fare la NBA europea, non so quante squadre italiane sono in grado di essere pronte a strutturarsi nell’ottica di NBA nazionale. Qualcuna c’è. Però poi diventano partecipanti a uno stesso campionato con obiettivi diversi. Diventa chiaro che altre realtà possono far fatica. Oppure vanno e seguono quel modello là. La NBA apparentemente non si preoccupa di costruire giocatori”.

Se ne occupa, ma in modo diverso, nel senso che il suo reale tipo di lavoro è un altro.
“Andando a prendere quello che viene da un’altra attività. Ma noi come facciamo a pensare che le squadre di Serie A siano quelle che devono produrre giocatori validi per giocare lì? Perché non è lo stesso processo. Perché non tutti i giocatori di una squadra vanno a fare la NBA, è normale”.

E questo perché ognuno ha il suo massimale, il suo limite.
“Il suo modo di, individualmente, entrare in un sistema. Continuo a dire che il conflitto è stato quando, per ambizione e forse anche per interesse, c’è stato quel momento. E infatti secondo me la vera riforma andrebbe finalizzata, con tante difficoltà, nel rimodulare quello che c’è sotto. Prendi il modello americano, ma in America il modello universitario viene considerato una cosa non importante?”.

È considerato fondamentale: primo, si va a giocare, secondo, si diventa uomini.
“Il ‘segreto’ sta proprio lì: trovare un instradamento per cui ci sia una realtà che sia come parametro quello che, ai miei tempi, era una struttura societaria con obiettivi tecnici, del settore giovanile, che andavano a convogliare, davano spazio, portavano alla maturazione, com’è il limite che si pone il settore universitario, dopodiché c’è tutto il resto. Poi voli e vai, e vai a giocare in squadre in cui ci stanno anche nove stranieri, quello se tu sei capace e hai le capacità lo farai. Per cui il problema è che noi dobbiamo ripartire dalla valorizzazione del percorso sotto che c’è. Oggi si continua a discutere se si deve fare o no un campionato Under 20 perché a 20 anni o sei bravo o puoi smettere, e non ha senso. O a 20 anni stai in panchina perché hanno l’obbligo di fartici stare, in squadre di Serie C dove ci sono due, tre stranieri”.

Nelle parole precedenti sembra di aver sentito un riferimento, in termini di punto di rottura, anche all’epoca in cui il basket italiano davvero si voleva avvicinare alla NBA, che erano quelli di De Michelis.
“Il problema è: vedi la Virtus Bologna, l’Olimpia Milano. Devono riuscire a fare l’uno e l’altro, ma ci sono pochissime realtà che lavorano per il settore giovanile. Realtà manageriale? Sbagliata? Non lo so. La Virtus Roma delega da anni il suo settore giovanile. È obbligata a farlo. L’Eurobasket, che era nata per un settore giovanile, da due anni delega. Per cui l’altra realtà, adesso, è la Stella Azzurra, che è una cosa talmente a parte, anomala, che non voglio farne una descrizione e Dio me ne scampi e liberi. Però è un altro progetto completamente non in linea con quello che ci siamo detti noi”.

Lì è proprio costruzione umana.
“E secondo altri tipi di prospettive, di mercato estero, anche italiano in alcune situazioni di giocatori. È tutto un altro processo. Ma allora dove può essere che la società in Serie A sia quella che lavora per portarsi dietro quello che va in Serie A. Bisogna avere il coraggio di separare la Serie A, e farla come la NBA, dichiararla quasi in quel modo, e noi dedichiamoci a creare una realtà italiana, dilettantistica, che dia la possibilità di tornare a lavorare nel senso di crescita, nei settori giovanili, dando la possibilità di un confronto anche valido di categoria. Un giovane che dice ‘gioco in Serie D’, ma contro chi gioca? Contro chi gioca in Serie C? Devi riuscire a riorganizzare e modulare dei campionati che diano. Dev’esserci un tipo di focus che non dev’essere quello della promozione, perché se l’ottica è quella allora il modello diventa lo stesso della Serie A. Perché se l’ambizione è quella di salire, com’è sempre stato in Italia lo sport, in quel modello che serve per riuscire a salire ed essere pronto a fare la Serie A perché la struttura è quella, è chiaro che ti perdi per strada tutto il movimento di crescita dei giovani, perché non lo adatti più. C’è difficoltà nel riadattarsi. Qualche società ha scelto di farlo, sale, scende, si assesta, qualcuna è stata brava. Però se sono poche le società che lo fanno in Italia, è chiaro che il serbatoio diventa più scarso”.

Viene in mente anche un discorso legato alla Virtus Bologna, che ha effettuato cambiamenti importanti nel settore giovanile.
“Quanti giocatori del settore giovanile della Virtus Bologna oggi stanno nella prima squadra?”

Pajola.
“Per cui, se vediamo che Pajola è un giocatore conosciuto e noto già da almeno 2-3 anni, anche gli investimenti sono di conseguenza. Non è che devono nascere tutti a Bologna o tutti a Roma, però se fai degli investimenti crei dei giocatori che possono crescere. Credo ci siano tante società che lavorano bene, per migliorare i risultati bisognerà cercare di creare degli obiettivi più di prospettiva per tutto il movimento, perché se molti fanno l’errore di scimmiottare, prendere e non investire sulla crescita tecnico-umana, di coinvolgimento, torniamo alle regole del settore giovanile dove è importante non pensare che se tu alleni 12 ragazzini alleni 12 fenomeni. Però magari potresti già creare una realtà dove 12 ragazzi sanno avere rispetto del gioco di squadra, pensare sia importante quello che fai, nei minimi termini in cui lo fai in relazione a quello che fa l’altro. Riconoscere a tutti il merito del risultato e non pensare che ci sia uno che fa il salvatore e gli altri gli spettatori”.

E poi ci sono tante situazioni come Pecchia e Bortolani che crescono a Milano, ma devono poi fare la strada altrove, Spissu che fa il viaggio ovunque e poi torna a Sassari (ma è già un caso un po’ diverso), Treviglio che ha come obiettivo far crescere i giovani.
“Quello è il senso. Non ho detto che devono alzare il sedere dalla propria società e andare in Serie A. Però sentirsene parte. Non credo che si siano mai sentiti scaricati quando hanno deciso di fare esperienze in realtà che hanno permesso loro di crescere. Abbiamo giocatori che da Roma sono partiti e sono andati e hanno fatto le cose, però sono partiti e sono diventati di altre realtà. Non sono mai partiti per fare esperienze e poi tornare, e sentirsi legati al fatto della loro crescita per poi ritrovarsi ed essere pronti ad avere più spazio”.

Caso più famoso: Andrea Bargnani, cresciuto alla Stella Azzurra, andato a Treviso.
“Al di là del nome Stella dietro, Treviso dice che Bargnani l’hanno fatto loro. Noi abbiamo un giocatore come Mattia Palumbo, che nasce alla Tiber, poi passa per la Stella Azzurra, è un giocatore che fa cose anche nelle Nazionali giovanili, e che in quelle esperienze che starà facendo diventerà un giocatore importante. Spero che un giorno in cui Palumbo (da poco andato alla Fortitudo Bologna con quadriennale, ndr) sarà a Roma, il ragazzino che inizia a giocare dirà ‘cavolo, vedi, ha iniziato qua a Roma con me, ora gioca in Serie A'”.

Anche Tambone poteva essere quel tipo di giocatore, Calvani credette in lui in quella stagione della finale scudetto tanto che non volle avere altri. E fece pure cose importanti.
“Ma anche il Bonessio della situazione, ci sono giocatori che potevano essere tutti in grado di tenere almeno il campo. La Virtus ha anche fatto progetti sugli italiani, prendendoli da fuori. Adesso stiamo facendo un discorso generale. Speriamo che i giovani abbiano davanti a loro la prospettiva e le condizioni per poter continuare a crescere e migliorarsi e andare avanti. Se prendiamo giocatori che prendono, partono, e vanno per mezzo mondo, a me non piace molto. Mi stride un po’”.

Anche nel femminile sta accadendo una cosa abbastanza simile, in cui tante stanno andando all’estero.
“Entrano dei meccanismi. Era impensabile che io mi svegliassi la mattina con la voglia di andare a giocare in una squadra estera. Oggi però non credo che uno si alzi e dica di volerlo fare. È chiaro che se uno ha la possibilità di andare, di avere prospettive, lo fa. Della Valle va in Spagna. Noi dal nostro campionato perdiamo giocatori italiani che dovrebbero essere esattamente la molla e lo stimolo per tutti i ragazzi, per dire ‘se ce l’ha fatta Della Valle, posso arrivarci anch’io’. Ritorniamo a monte: perché in quella condizione quel progetto ha funzionato o no? Mi ritrovo i grandi di ieri che continuano a dire ‘io in quella realtà mi sono identificato per quella che era la rappresentatività della mia città, del mio sport, mi sono avvicinato alla pallacanestro, mi sono sentito uno che poteva essere uno di voi’. Questa è la chiosa di tutto questo. Oggi quel tipo di modello fa fatica a essere riproposto. Si possono tifare le squadre, basta che vincono, ma se non vincono non interessano a nessuno”.

Quello però è un problema di cultura.
“Quella la costruisci nel momento in cui dai le cose. È la maniera in cui tu ti proponi, e quello che tu dai, offri per avere indietro le situazioni. Se ti leghi solo alle situazioni dei vincenti allora è finita la storia. Chi vince è uno, gli altri che fanno?”

Il discorso dell’estero poi sta riguardando anche gli allenatori, per i quali abbiamo una signora scuola. Ettore Messina, Sergio Scariolo, Andrea Trinchieri.
“Infatti la scuola c’è, c’è il fiorire di cose. Parliamo di gente che la pallacanestro l’ha fatta, la farà. Questo è il segno dei tempi. Amici allenatori mi parlano del Bangladesh, dell’Africa. Tutte le realtà. È normale, la qualità c’è tutta. Tu fai una scelta professionale, adesso non è che possiamo dire che di allenatori in Italia non ce ne abbiamo abbastanza. Nel settore giovanile c’era la problematica riguardante a chi affidare i giovani. Sono scuole di pensiero universitarie: ai grandi santoni, che sanno come si costruiscono giocatori e uomini, o a giovani allenatori che non siano proprio ragazzetti? Quest’ultima cosa accade più facilmente nelle piccole società, dove all’Under 14-15 affidi il ragazzetto di primo pelo che, invece, in quel momento dovrebbe avere un altro tipo di struttura. Adesso anche allenatori importanti si ritrovano a prendere gruppi Under 14, Under 15, perché quella è la fase critica, in cui l’impostazione tecnica, caratteriale e di atteggiamento è la chiave. Poi ci sono le gestioni legate ai risultati o alla crescita, le scelte sono di ogni società per il percorso che si ritiene più utile”.

E i settori giovanili saranno quelli con il più grande problema adesso con la questione del Covid-19, per via delle disponibilità degli impianti che mancano.
“Di fatto abbiamo ripassato tutti questi argomenti, dove programmare e organizzare diventa un problema. Facile dire ‘fai lavoro individuale, di squadra’. Quando fai l’allenatore e gli dici che ha tre allenamenti di un’ora e mezza a settimana, devi fare il lavoro individuale (che non vuol dire che non giochi con gli altri, il gioco è pallacanestro, dopo che hai imparato i fondamentali devi giocare con gli altri, se no è un altro sport). Quegli spazi devi utilizzarli anche in funzione di qualcuno che ti chiede i risultati. Chi si può permettere di preoccuparsi meno di perdere di tanto perché dedichi tempo ad altre cose, e diventa insufficiente in altre situazioni. Poi dopo ti scontri anche con risultati più o meno scarsi, arrivano i genitori che se vanno alla società dove mi danno prima il risultato, al figlio neanche insegnano a tirare, ma magari giocano la partita e vincono di più rispetto ad altre realtà cominciano a dire ‘quelli sono più bravi e belli, m’interessa andare di là’. Oggi lo sport si lega anche sul discorso delle quote pagate da giovani, cosa che io non ho mai fatto per giocare nelle giovanili”.

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Al massimo si pagavano i palloni.
“Non è che sono un privilegiato, io ero in una realtà diversa. Se adesso vedi, fai una squadra, chiedi la quota per partecipare arriva il genitore, che però dice ‘pago perché mio figlio giochi’. È tutto un sistema. Ogni società, individualmente, è chiamata a confrontarsi con quelle che sono le proprie realtà, cercando di mettere insieme i discorsi, quelli adatti a loro, ma non ci può essere un’omogeneità. Ci vuole organizzazione strutturale, e la pallacanestro secondo me ora paga questa difficoltà di avere un modello non dico unico, però che il grande flusso potrebbe facilmente percorrere. E la pandemia creerà su questo flusso, che non è quello delle società più strutturate, ma tutte le altre, un impatto difficile da affrontare. Però credo che con volontà e passione tutto si potrà risolvere“.

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Credit: Ciamillo

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