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Lino Lardo, basket: “Nazionale femminile, un onore allenarla. Sento la responsabilità. Per me è fondamentale il rapporto umano”

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Da poche settimane Lino Lardo si è insediato in qualità di allenatore della Nazionale femminile di basket. Arriva sulla panchina azzurra dopo un lunghissimo percorso nel settore maschile, che lo ha portato in buona parte delle più celebrate società del nostro Paese. Per lui, però, l’approccio a questo settore non è completamente nuovo: come racconta nell’intervista che ci ha concesso, c’è stato qualche abboccamento precedente in altre situazioni. Dal timone raccolto dalle mani di Andrea Capobianco alle principali esperienze, il racconto è quello di un uomo che ha potuto incontrare tanti mondi diversi, compreso quello che ha portato, come vedremo, a un’attuale stella NBA.

Quello con la Nazionale non è il primo approccio con il femminile.
“Quando ero a Udine e allenavo l’A2, la mia compagna, che ha allenato una squadra delle giovanili di Udine per due anni, al terzo ha fatto il capo allenatore della squadra di A2 femminile. Mi dicevano che era un caso unico che una coppia allenava nella stessa città le due maggiori squadre. Poi il mio contratto con la maschile è terminato, però è stato simpatico. Ci vedevamo la mattina con la lavagnetta a fare i programmi di allenamento”.

E prima ancora un altro abboccamento.
“All’inizio della stagione 2011-2012 ero stato contattato da Schio, ero anche andato a parlare con il presidente Cestaro. Mi attirava l’idea, perché Schio faceva l’Eurolega. Poi ho avuto la chiamata della Virtus Roma e sono andato lì. Però da sempre sono abbastanza dentro al basket femminile anche se non l’ho mai allenato”.

Quali sono le motivazioni che hanno spinto ad accettare il ruolo di allenatore della Nazionale?
“Io da sempre sono stato un tifoso della Nazionale e nei miei sogni di ragazzino c’era quello di indossarla. Quello non è avvenuto, perciò con qualche anno di ritardo è arrivata la chiamata. Quando mi ha chiamato il Presidente federale e mi ha chiesto di allenare la Nazionale femminile, subito è stata una sorpresa, perché non me l’aspettavo, ma è stato un attimo. Per me è stato un onore e l’ho presa con molta serietà ed entusiasmo. È chiaro che sento la responsabilità di guidare una squadra senior, a livello nazionale, so benissimo le perplessità che possono scaturire per un allenatore che viene dalla maschile, ma l’ho presa veramente bene. Mi sono tuffato nell’universo femminile, ho iniziato a studiare. Come dicevo, un po’ non sono digiuno, ma è chiaro che l’ho presa con molto orgoglio ed entusiasmo”.

Il posto di allenatore della femminile è stato, tra gli altri, in mano a persone come, oltre Capobianco e Crespi, Nello Paratore, Giancarlo Primo, Bruno Arrigoni, Riccardo Sales.
“Per quello ancora di più è un onore, perché questi nomi hanno fatto la storia della pallacanestro. Sento il senso di responsabilità e nello stesso momento mi stimola molto”.

Lei ha già avuto modo di confrontarsi con i predecessori?
“Abbiamo avuto qualche riunione subito dopo la mia nomina, ho parlato con Capobianco che è stato molto gentile e disponibile nel farmi capire un po’ com’è il panorama e si è messo a disposizione per collaborare insieme, anche perché ora è l’allenatore del 3×3 e ci sarà sicuramente una collaborazione futura. Uno dei miei assistenti sarà Giovanni Lucchesi, che è responsabile del settore giovanile da tantissimi anni e mi darà una grossa mano a capire tutte le dinamiche e soprattutto le ragazze, visto che le ha viste e allenate tutte”.

Del resto lo chiamano lo scultore delle giocatrici.
“Per questo sarà un grande aiuto”.

Tante volte vengono chiamati allenatori del settore maschile senza esperienza nel femminile, però maschile o femminile è sempre allenare ed avere un tipo di rapporto umano con le persone, che poi è l’aspetto che conta forse ancor più di quello tecnico.
Per me questo è fondamentale. È un po’ quello che io cerco di trasmettere alle mie squadre, soprattutto il rapporto umano. Credo che esser stato giocatore professionista ad alto livello mi abbia aiutato nel mio lavoro di allenatore, perciò cerco sempre di avere un rapporto molto buono con i ragazzi, e ora le ragazze, cercando di tirar fuori il loro meglio, trattandoli non solo dal punto di vista in cui devono eseguire, ma anche come parte del progetto. Creo un po’ un clima di collaborazione. Credo che sia la mia forza, quello che mi ha aiutato nella mia carriera ad avere risultati e soprattutto, alla fine di ogni stagione, a poter avere fatto qualcosa per aver fatto crescere i giocatori e, spero, nel futuro anche le giocatrici. Questo punto che hai toccato del rapporto umano per me è fondamentale, grandissima collaborazione. Per quanto riguarda il discorso tecnico non voglio dire che la pallacanestro è uguale, però vorrei portare la mia pallacanestro, che credo possa andare molto bene nella femminile, perché poi dal punto di vista tecnico è una. Non vedo l’ora di confrontarmi. Purtroppo da allenatore della Nazionale non avrò molto tempo per trasmettere le mie idee, però non vedo l’ora di allenare queste ragazze”.

Viene definita spesso la differenza grande tra maschile e femminile nell’avvento della fisicità da parte del maschile, mentre il femminile riesce a far vedere tanto del discorso tattico.
“Tanti colleghi che hanno allenato sia il maschile che il femminile mi hanno detto che la differenza è proprio questa: c’è la possibilità di giocare più di squadra, le ragazze rispettano di più quello che si è preparato, mentre nei maschi a volte si da più spazio all’estro personale. Da questo punto di vista stimolerò le mie giocatrici a credere nel sistema di gioco, a giocare insieme perché un’altra delle mie idee è del gioco di squadra, dove tutti sono coinvolti e possono sentirsi protagonisti giocando insieme e passandosi la palla, ma senza limitare il talento delle giocatrici. Come dico spesso alle mie squadre, rispettiamo le strategie, i giochi, ma non dimentichiamoci del nostro talento, che va messo a disposizione della squadra”.

Anche perché, come Lei ha detto, è vero che si può anche dar spazio all’ottima generazione giovane recente, ma è altrettanto vero che abbiamo delle giocatrici di grande talento, e da quello si può generare tutto quello che può essere il futuro della Nazionale.
“È vero. Noi abbiamo delle buone giocatrici, dobbiamo sfruttarle nel modo giusto e non limitarle solo a un’idea di gioco. Fra l’altro ci sono delle giovani molto interessanti e, come Federazione, è una nostra idea quella di ampliare la rosa della Nazionale senior proprio per permettere a queste nuove leve di iniziare a respirarne l’aria. Però mi devo ripetere: sicuramente ci dev’essere disciplina nell’idea di giocare insieme, di squadra, ma dobbiamo anche mettere in grado le giocatrici di talento o con determinate caratteristiche di dare il meglio per la squadra”.

Ritornando al discorso maschile, Lei ha allenato tante squadre e tantissimi giocatori, creando anche un pezzo di storia del basket italiano. Il momento in cui lo scudetto è stato più vicino: 2005. Con la famosa gara4 di Olimpia Milano-Fortitudo Bologna, con il tiro di Ruben Douglas.
“Io venivo da due stagioni straordinarie a Reggio Calabria, ero stato allenatore dell’anno. La chiamata di Milano, al primo anno di sponsorizzazione Armani, è stata uno stimolo enorme. Al primo anno mi si chiedeva di raggiungere i playoff e riempire il PalaLido, dove si giocava ai tempi. In una sola stagione abbiamo riempito il Forum con sette pienoni da quattordicimila e raggiunto la finale scudetto. La piccola ferita è di quel tiro che purtroppo è andato dentro per tre decimi di secondo, c’è stato il rammarico, purtroppo, di non esser riuscito a entrare, da giovane allenatore, nella storia dell’Olimpia Milano. Però devo dire che ogni volta che vado al Forum c’è sempre molto riconoscimento nei miei confronti. È stata un’esperienza straordinaria. In quella serie finale ci fu per la prima volta l’instant replay. Non mi è andata tanto bene, però il canestro era valido. Però è stata una rinascita dell’Olimpia, molti tifosi si sono riavvicinati e si è respirato di nuovo il vero spirito Olimpia, è stata una grande soddisfazione aver riportato la pallacanestro a Milano”.

Parlava di Reggio Calabria: stagione 2002-2003, quarti di finale contro Treviso che aveva appena giocato la finale di Eurolega, 2-0 e anche lì una gara4 beffarda.
“Un finale particolare, con davanti un PalaPentimele stracolmo di gente, ma la storia l’avevamo già fatta. Eravamo partiti per salvarci. Si giocavano quattro turni di playoff, a sorpresa vincemmo con Roseto che era una grande squadra, poi quella serie con Treviso di Messina, Garbajosa e gli altri. Bello perché vai a vincere a Treviso, vai sul 2-0, poi è chiaro, in gara4 ci tremavano le gambe, ma fino a 5 minuti dalla fine eravamo davanti. Poi è logico che la maggior esperienza di Treviso è venuta fuori, ma quel sogno regalato ai tifosi della Viola è indimenticabile”.

Un’altra delle avventure è stata Rieti nel ritorno ad alti livelli.
“Rieti è stata una scelta. A me piace molto mettermi in discussione. Potevo aspettare una bella chiamata, anche in Europa, ma ero affascinato dalla chiamata del presidente di Rieti, Papalia, che voleva riportarla in A dopo 24 anni. Queste sono sfide che mi attirano tanto. Abbiamo vinto la Coppa Italia e raggiunto la promozione in A al primo anno, riportandoci una piazza storica come quella. È stata una bellissima avventura”.

A2 che poi è diventata un terreno di caccia, con gli anni di Trapani, poi quelli di Udine ancora diversi e infine Scafati prima di San Severo.
“Udine è stata un’altra sfida ancora. Era in Serie B da parecchi anni, e molti si sorpresero del fatto che ci andai, ma per me era una sfida riportare Udine in Serie A. Il primo anno di A2 non era disponibile il Carnera, che era in ristrutturazione, ma portammo sempre pienoni a Cividale, un palazzetto bellissimo, poi anche il Carnera pieno. Queste sfide mi piacciono tanto. Adesso la mia sfida è San Severo, una bellissima realtà e una città che vive di basket, una società appassionata e solida. Sono veramente contento di far parte di questa società che può fare molto bene e consolidarsi in A2. Anche quella è una bella sfida”.

A proposito di sfide, c’è quella dell’Amchit, in Libano.
“Quella è stata una mia scelta. Dopo Roma mi ero fermato, volevo aiutare la famiglia, mio padre non stava bene e allora non avevo iniziato il campionato. A metà anno ho chiesto al mio agente se mi cercava qualcosa all’estero. È venuto fuori il Libano, che non avevo considerato, e invece è stata un’esperienza straordinaria. Si parla di un Paese dove storicamente il primo sport è la pallacanestro, e perciò è stata un’esperienza di vita bellissima. Poi anche di basket, perché ho scoperto un panorama cestistico che non conoscevo, giocatori di un bel livello. Ho allenato giocatori molto forti, mi sono trovato Bagaric che era il pivot della Fortitudo dello scudetto. Rido perché era nella squadra dove sono andato ad allenare e dopo due-tre settimane l’ho tagliato. Dicevano, scherzando, che m’ero vendicato, ma in realtà Dalibor aveva un problema fisico. È venuto poi Hassan Whiteside, che ai tempi nessuno conosceva, ma è poi diventato una stella NBA con i Miami Heat. Questo per dire quanti vengono in Libano, allettati chiaramente dai buoni stipendi, ma anche perché è un campionato dove c’è un buon livello di gioco”.

Quale Whiteside c’era lì in Libano?
“L’avevo già visto l’anno prima alla Summer League di Las Vegas. Era una prima scelta dei Sacramento Kings, poi è finito a giocare in Cina, in Medio Oriente ci sono anche poi altri campionati dove i giocatori vanno per contratti e per finire le stagioni. Lo prendemmo poco prima dei playoff. Si vedeva e sapeva che era un giocatore di alto livello, e la cosa bella è averlo visto diventare una stella NBA”.

Kobe Bryant, pochi giorni prima dell’incidente mortale, raccontò una cosa molto particolare. C’erano tre grandi stelle WNBA, Elena Delle Donne e Diana Taurasi, che secondo lui avrebbero potuto giocare nella NBA. Il femminile è ovviamente diverso dal maschile, ma delle giocatrici imparano davvero cose “da basket maschile”. E spesso cominciano coi maschi, da piccoline.
“Ci sono tantissimi esempi. Continuo a frequentare i campetti, ho visto ragazze giocare contro i maschi ai campetti e dar loro filo da torcere. Assolutamente ce ne sono di altissimo livello, che giocano con intensità, con tecnica da fare invidia ai maschi. Hai nominato tre stelle, e due di esse hanno discendenza italiana”.

Sono anche storie spesso molto belle: quella di Delle Donne, legata alla sorella, e quella di Maya Moore che ha combattuto e vinto la battaglia per la giustizia per un uomo che non aveva commesso il reato per cui era stato condannato, per la quale ha anche smesso di giocare per un lungo periodo.
“Chi fa questo sport sicuramente ha dei valori in più che può mettere a disposizione di altre persone, o che vanno sicuramente valorizzati”.

Ci sono molte ragazze che hanno una grande capacità di saper coniugare la pallacanestro con gli studi, ed è molto importante.
“Negli ultimi tempi ho conosciuto e allenato ragazzi e giocatori maschi che effettivamente stanno iniziando a pensare al futuro non solo cestistico, anche tra gli uomini ci sono ragazzi che finiscono gli studi e stanno attenti al dopo. Molto probabilmente le donne hanno anche più determinazione dei maschi, e questo esempio lo testimonia. Oggi le nuove generazioni da questo punto di vista sono molto più attente a crearsi un futuro e aver la forza di fare entrambe le cose”.

Anche perché, sapendo di non avere il professionismo dalla loro parte…
“…sono stimolate di più”.

Non si può non citare inoltre Giorgia Sottana, che non è solo una giocatrice di pallacanestro. Ha creato un proprio sito internet, racconta le proprie sensazioni, allarga i confini. Il traino della Nazionale è sempre il traino della Nazionale, ma le storie dei personaggi aiutano.
“Lei ha tanta esperienza e tante storie da raccontare nel modo giusto. Lei ha anche scritto un libro. Ben vengano”.

Ed è un libro che racconta quel che c’è dentro i giocatori. Si pensa che vadano in campo e stop. Non è così.
“Effettivamente, a tutti i livelli lo sportivo passa per uno fortunato. Lo sportivo che gioca ad alto livello è una persona speciale che deve fare molti sacrifici. La gente vede solo la superficie, le luci della ribalta, e invece bisognerebbe spiegare quanta vita c’è, quanti sacrifici ci sono per arrivare e rimanere a certi livelli. Se c’è la possibilità di raccontarlo, fa bene sicuramente ai più giovani, che pensano magari che tutto sia così facile”.

A proposito di giovani, oggi c’è una differenza importante legata alla crescita con tanta tecnologia, che ha molto cambiato anche i rapporti umani.
“Io su questo ho studiato un po’. Purtroppo o per fortuna ho vissuto varie generazioni. Ho iniziato a giocare sul campetto, mettevamo il maglione e guardavamo dove tirava il vento sulla retina per capire dove spingere la palla. Ho visto varie generazioni di ragazzi e non possiamo sempre prendere a esempio i valori di un tempo. Oggi il mondo è diverso, e noi di un’altra generazione dobbiamo stabilire un contatto con loro. Da allenatore non accettavo, fino a qualche tempo fa, che un ragazzo avesse un approccio diverso, magari un po’ più pigro, e ho invece imparato che c’è bisogno di ascoltare. La comunicazione è importantissima. I ragazzi di oggi fanno fatica a comunicare. Basta entrare in spogliatoio. Una volta era una scuola di vita, si rideva, si litigava, si parlava. Oggi è un po’ più silenzioso perché c’è il telefonino. Però è giusto che entriamo in questo mondo e troviamo una chiave per comunicare con loro, attraverso la nostra esperienza, ma anche andando loro incontro. Oggi mi trovo molto bene, ho scoperto che questi ragazzi hanno tanto da dare, bisogna stimolarli e soprattutto ascoltarli”.

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Marco Calvani, in una conferenza stampa dopo una partita della Virtus Roma della stagione 2012-2013, disse che non può costringere i giocatori a cambiare delle abitudini in modo continuativo che alla fine fanno “scoppiare” il loro corpo perché non abituato a quei ritmi. Il bello è riuscire a far giostrare tutto in modo tale da far quadrare le cose, per un giocatore, in modo armonico.
“Non vorrei parlare di compromesso, ma di entrare in sintonia con i ragazzi di oggi che hanno una visione un po’ diversa da giocatori di altre generazioni. Allenando un 35enne e un 30enne c’è una differenza di vitalità enorme. Però secondo me dobbiamo essere bravi, rigidi, ma bravi a entrare in sintonia. Qualche anno fa ero molto più critico, ora sono più sereno perché ho trovato una chiave di comunicazione per ascoltare le loro problematiche. Attraverso la mia esperienza, cerchiamo di trovare una sintonia che vada bene per tutti”.

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Credit: Ciamillo / FIP

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