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Tokyo 2021

Olimpiadi: Mennea, Martinello, Bellutti, Mangiarotti, la vela, le fiorettiste a Londra 2012, l’arco. Il 28 luglio profuma d’oro e gloria per l’Italia

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Una giornata, una storia. Infinita. Quante medaglie d’oro olimpiche ha vinto l’Italia il 28 luglio? Ben sette! Rode-Straulino nella vela, classe stella, e l’unica individuale di Edoardo Mangiarotti (spada) a Helsinki ’52; l’ultima di uno sprinter azzurro, ovviamente Pietro Mennea, accompagnato dalla “rimonta” griffata Paolo Rosi, a Mosca ’80; e poi ancora Silvio Martinello (corsa a punti) e Antonella Bellutti (inseguimento individuale) nel ciclismo su pista ad Atlanta ’96, oltre allo storico titolo a squadre nell’arco maschile e all’altrettanto unica tripletta femminile nel fioretto individuale (Di Francisca-Errigo-Vezzali) a Londra 2012. Può bastare per definirlo un giorno azzurro?

EDOARDO MANGIAROTTI

Cinque Olimpiadi disputate, da Berlino 1936 a Roma 1960, con 13 medaglie (record per un atleta italiano) di cui sei d’oro. Per conquistare l’oro individuale (l’unico nella pressoché infinita miniera di metalli preziosi che è il suo palmarès), Edoardo deve aspettare il 28 luglio 1952, a Helsinki: dopo essersi inchinato nel fioretto al grande francese D’Oriola (che mai riuscirà a battere in carriera), conquista l’oro nella spada (di cui è campione mondiale in carica) proprio davanti al fratello Dario, il cui successo di misura nell’ultimo assalto contro il lussemburghese Buck diventa decisivo non solo per dare a lui l’argento, ma anche per consegnare l’oro a “Edo”.

VELA

E pensare che arrivava dalla montagna, quello che è stato il più grande domatore italiano dei mari olimpici. Sì, perché il comandante Agostino Tino Straulino, nato a Lussimpiccolo nel 1914, è originario della Carnia, in particolare del comune di Sutrio, dove è ancor oggi ben visibile la casa da dove il nonno, abile fabbro, emigrò in Dalmazia verso la metà dell’Ottocento. A Helsinki il grande rivale degli azzurri è lo statunitense John Wensley Price al timone di Comanche: iniziano male, gli americani, col settimo posto nella seconda regata, ma poi ottengono quattro vittorie consecutive e possono così partire in vantaggio al via dell’ultima regata. A Straulino-Rode serve un’impresa, perché devono vincere ma anche indurre in errore gli statunitensi, cui basta il terzo posto per aggiudicarsi l’oro. E qui l’intuito di Straulino disegna il capolavoro, trovando una brezza di vento media, anziché le raffiche del Baltico amate da Price, che taglia il traguardo appena ottavo. È il trionfo, davanti agli statunitensi e ai portoghesi, terzi.

PIETRO MENNEA

Per rivedere, non sono necessarie le immagini. Bastano le nove parole in crescendo di Paolo Rosi. “Recupera, recupera, recupera, recupera, recupera”. E “Ha vinto, ha vinto”. Le immagini sono insidiose perché dopo quarant’anni possono creare dubbi, interrogativi, piccoli terrori anche se quei passi tormentosi ed estatici sono stati visti, rivisti: ce la farà? Sì, ce la fa, ce l’ha fatta anche stavolta. Un dito verso il cielo e finalmente un sorriso trasognato: Pietro Mennea campione olimpico dei 200, vent’anni dopo Livio Berruti, in un’arrampicata lontana da quel volo lieve, da quella curva disegnata con un pennello fine, da quelle piccole sofferenze accusate negli ultimi metri. Pietro corse disperato, febbrile, nel solito match che ingaggiava con il mondo e con se stesso. Pietro vinse batteria e quarti in 21.26 e 20.60, sostenuto da un vento appena sotto la norma. Carlo Vittori lo spiava, misurando la carica che tornava ad animarlo. il giorno dopo la semifinale si risolse in un volata all’apparenza senza dispendio di energia. Per Mennea 20.70 era un buon allungo. La finale viene accolta con il disappunto (o l’ira) di chi, lui, Pietro, constata che gli hanno riservato l’ottava corsia. Per lui, terzo a Monaco a vent’anni, dietro a Valeri Borzov e a Larry Black, quarto a Montreal nel giorno felice di Donald Quarrie precipitando in una cupa disperazione, in una tempesta del dubbio, è l’approdo finale (non sarà così, ma Helsinki ’83 è ancora nella culla del futuro…), è l’assalto possibile. E sin dai primi appoggi l’ingegnere navale Wells lo sbatacchia come un albero mal fissato sulla tolda. Non funziona niente in quella curva: un’azione di braccia scomposta, un’andatura beccheggiante, la testa sprofondata nelle spalle, il mento come una prua che non sa fendere le onde. Wells davanti, Mennea ottavo. Sesto, quinto, in preda a un vortice di forza, di rabbia che, improvviso, lo investe, lo spinge. Piomba sullo scozzese in quegli scacchi che segnano l’approssimarsi della linea, passa, per due centesimi, 20.19 a 20.21, alza l’indice al cielo. È allora che qualcuno va a chiamare Primo Nebiolo che, dice la leggenda, non aveva abbastanza cuore per guardare e si era nascosto in una cabina telefonica e sfogliava l’elenco di Mosca, in cirillico, aspettando il boato e il verdetto. Il record del mondo era stato una passeggiata. Quell’Olimpiade non sarebbe finita lì, impreziosita anche dal bronzo in staffetta con la 4×400 insieme a Stefano Malinverni, Mauro Zuliani e Roberto Tozzi.

SILVIO MARTINELLO

Dodici anni più tardi. Il sì ai professionisti del ciclismo ha riaperto le porte olimpiche a Silvio Martinello. Il trentatreenne veneto che nell’‘84 a Los Angeles aveva gareggiato da dilettante finendo al quarto posto nell’inseguimento a squadre e sedicesimo nella corsa a punti, era diventato pro, al servizio di Mario Cipollini per lanciargli le volate. Dopo qualche dissapore con la Federazione per l’esclusione dal Mondiale del ‘94 a Palermo e il successivo chiarimento, Martinello si è messo di nuovo al servizio della maglia azzurra dal 1995: i Giochi di Atlanta, grazie alle nuove regole, erano nel mirino. Finale diretta, stavolta, 40 chilometri da percorrere e 20 sprint, con una volata ogni otto giri da 250 metri con i punti per i primi quattro. La pista era bagnata all’inizio per la pioggia caduta durante la notte; Martinello, il favorito, non ha faticato troppo per imporsi. Avvio sotto controllo, quello dell’azzurro, poi, dal sesto sprint, è andato al comando e dopo averne vinti sette, Silvio ha addirittura potuto rinunciare all’ultima volata, quella che valeva punti doppi. Martinello d’oro, il canadese Brian Walton d’argento mentre lo svizzero Risi, altro favorito della gara, aveva presto preso un giro e chiuso lontano in classifica. Martinello ha provato l’unico spavento della giornata olimpica durante il giro d’onore, quando il tricolore s’è impigliato nella corona posteriore della bicicletta…

ANTONELLA BELLUTTI

Dall’atletica al ciclismo in un amen. L’amore per le due ruote è nato tardivo, dopo che il cittì della pista, Dario Broccardo, che abitava proprio a Trento, l’ha notata quasi per caso. Dopo soli tre mesi di allenamento, la Bellutti si è piazzata al quarto posto ai Mondiali di Palermo del ‘94 nell’inseguimento. Il nuovo amore sportivo di Antonella era diventato una passione irresistibile e inarrestabile. Tutto era studiato nel minimo particolare: la bicicletta, la posizione, la ricerca dell’aerodinamica nella galleria del vento, la posizione della testa. Ha lavorato con tale intensità e scrupolo, la Bellutti, che tre mesi prima dei Giochi di Atlanta ha fissato il record del mondo sui 3 chilometri con 3’31”24. Era lei la favorita per la medaglia d’oro. La competizione olimpica ha mostrato la condizione dell’azzurra: prima in batteria (3’34”130), ancora meglio nei quarti (3’32”371, record olimpico). In semifinale contro la britannica Yvonne McGregor, senza spingere al massimo e con la pista bagnata, il distacco è stato di sei secondi. Era in finale e da affrontare aveva la francese Clignet, ragazza nata negli States prima di tornare in Francia, il Paese dei genitori, anche a causa di una lite con i tecnici americani. Mezz’ora dopo la gara di Martinello, Antonella Bellutti nello stesso velodromo non ha lasciato scampo alla rivale. Sempre al comando, un secondo di vantaggio dopo due giri, un divario che è aumentato diventando di cinque alla fine. E  a Sydney 2000, come lo stesso Martinello, trionferà nella corsa a punti…

ARCO AZZURRO

Marco Galiazzo, Michele Frangilli e Mauro Nespoli hanno consegnato all’Italia il primo successo olimpico di Londra e lo hanno fatto con la squadra. Galiazzo, ventinovenne di Padova oro individuale 2004, Nespoli, ventiquattrenne di Voghera, e Frangilli, lombardo di trentasei anni di Gallarate già bronzo ad Atlanta e argento a Sydney sempre con il team. La vittoria è stata importante perché il tiro con l’arco, sport squisitamente olimpico, ha da sempre la Corea del Sud padrona della specialità. E gli asiatici, forti anche della tradizione, cercavano a Londra il poker d’oro di fila. Tutto era dalla loro parte, le 72 frecce di ciascun componente nelle qualificazioni sono andate a segno: record del mondo. Tutto ok tranne in semifinale per i coreani, che hanno accusato un colpo a vuoto: hanno perso contro il team degli Stati Uniti 219-224. Addio sogni di gloria per loro mentre gli italiani hanno cominciato a sperare nel successo. I tre arcieri, tutti atleti dell’Aeronautica che si sono allenati nel centro federale di Cantalupa, nel torinese, utilizzando la tecnologia studiata in collaborazione con la Ferrari a Maranello, hanno messo in campo la loro determinazione. L’Italia, che in qualificazione era stata sesta, ha cominciato battendo con facilità Taipei (216-206); poi, contro la Cina si è qualificata in rimonta (220-216) così come nella semifinale con il Messico (217-215). In finale la gara sembrava una sfida a senso unico per gli Usa, ma i nostri hanno piazzato subito 10 a raffica e a metà gara l’Italia era a +4. Ellison, Kaminski e Wuiki hanno tentato la disperata rimonta e alla penultima freccia Galiazzo ha fatto solo 8. Per vincere occorreva la precisione di Frangilli e il suo 10 è valso il 219-218 della medaglia d’oro.

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TRIPLETTA COME FICHTEL-BAU-FUNKENHAUSER A SEUL 1988

A Londra è stato monologo  azzurro come lo era stato con gli spadisti nel ‘36 e poi nel ‘56: Di Francisca prima, Errigo seconda e Vezzali terza dopo leggendaria rimonta sulla Nam. È stata una corsa verso il successo fin dalle prime fasi del tabellone. Elisa ha battuto 15-2 la libica Shaito poi 15-9 sia la tedesca Golubystki, soffrendo, in rimonta, che la giapponese Sugawara. In semifinale, mentre la Errigo ha fermato il sogno della Vezzali battendola 15-12, la Di Francisca ha saputo rimontare il -4 a un minuto dalla fine contro la coreana Nam. In finale scontro in Casa Italia: Elisa e Arianna per il trono. Tutto facile per la Di Francisca? Sembrava, ma dal 7-3 si è ritrovata 8-11 a 45” dal gong. È arrivato il pareggio (11-11) prima del colpo d’oro nel supplementare.

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gianmario.bonzi@gmail.com

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Foto: LaPresse

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