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Raffaella Masciadri, basket: “WNBA grande macchina organizzativa. A Schio volevamo Natasha Cloud da tempo. Le maglie azzurre tutte belle”

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Raffaella Masciadri, nel basket femminile italiano, è uno di quei nomi a cui si può associare la parola leggenda. Campionessa senza tempo, ha vissuto vent’anni ricchissimi, dagli esordi alla Pool Comense fino agli anni felici del Famila Schio. Ed è stata una delle sette giocatrici italiane ad avere l’onore di giocare in WNBA. Protagonista di tantissimi momenti azzurri, dagli anni difficili a quelli della rinascita della Nazionale maggiore, oggi ricopre il ruolo di team manager proprio a Schio, ma è anche presidente della Commissione atleti del CONI. L’abbiamo raggiunta per un’intervista telefonica, incentrata in particolar modo sui temi cestistici della sua vita, tra passato e presente, con uno sguardo al futuro azzurro.

Per come quest’anno Schio è stata costruita, sembra puntare molto in alto, più che in Italia dove ci punta da tantissimi anni, in Europa.

“E’ ovvio che la squadra, giocando l’Eurolega, bisogna costruirla per quella competizione, perché al di là della qualità delle altre squadre in Eurolega giocare due campionati gioca un grande dispendio di energie fisiche e mentali, e bisogna per forza avere un roster di 10-11-12 giocatrici. Non è tanto perché uno vuole sfondare da una parte o dall’altra, ma è proprio per una questione fisica e logistica: servono forze per affrontare i dieci mesi della stagione e portare il miglior risultato possibile in ambo i campionati”.

In questo riveste grandissima importanza non soltanto il ritorno di Giorgia Sottana, ma anche e forse soprattutto l’ingresso di Natasha Cloud, forse il più importante colpo dell’intera sessione di mercato italiana.

Ci sono stati moltissimi movimenti interessanti, anche la stessa Venezia con Temi Fagbenle e Yvonne Anderson, però Cloud è un colpo che siamo riusciti a fare. Ci stavamo dietro da un po’ di tempo, e finalmente quest’anno siamo riuscite ad acquisirla. E’ un play atipico, un po’ dei vecchi tempi, cui piace far giocare la squadra, che ha ampie visioni, e che in una squadra multitasking come la nostra può essere la ciliegina sulla torta. Poi c’è appunto anche il ritorno di Giorgia Sottana, ci sono tante conferme, come il ritorno di Valeria De Pretto, perché è nata nel nostro settore giovanile, ed è bello vedere una giocatrice scledense che finalmente riesce a vestire la maglia della Serie A1″.

Lei poi è proprio scledense tout court, nel senso che ci è proprio nata.

“Esatto, lei è originaria di qua”.

A proposito di colpi che potevano essere, ma non sono stati, è storia nota di quello, che sarebbe stato davvero clamoroso, chiamato Elena Delle Donne (che poi ha rinunciato per star vicino alla sorella). Quanto sarebbe stato bello?

“Quella è un’occasione che capita una volta nella vita. Doveva esserci due anni fa. E’ chiaro che portare una giocatrice del suo calibro in Italia è un vanto non soltanto per la società che riesce a portarla, ma, ovviamente, per tutto il movimento. Avrebbe comportato una crescita abnorme in tutto il movimento femminile italiano. Però ripeto, è chiaro che siamo italiani, quindi cerchiamo anche di far sì che il movimento cresca grazie alle ragazze italiane stesse”.

Il ruolo del team manager, che ora è il tuo, fin dove si espande?

“Diciamo che non ci sono regole precise. Il mio ruolo è quello, principalmente, di prendermi cura delle ragazze da tutti i punti di vista, da quello organizzativo a quello manageriale, tecnico, perché comunque l’allenatore me lo permette, perché mi permette di stare in panchina durante le partite e posso dare quelli che sono i miei suggerimenti a livello tecnico, perché il tattico lo lasciamo sempre agli allenatori. Fungo anche poi da ponte tra ragazze, allenatori e società, perché sono la portavoce sia delle ragazze della società. Una sorta di mediatrice tra le varie parti, però per la maggior parte mi occupo di più delle ragazze, di quello che concerne loro, dal loro arrivo a Schio, alle loro sistemazioni, agli allenamenti, alle trasferte, mi occupo di prendere contatti con le squadre di Eurolega, con gli arbitri, quando vengono qui o quando andiamo noi in trasferta. Diciamo che è un ruolo quasi da general manager”.

A proposito di Eurolega, quest’anno poteva essere un bell’anno, ma a Praga non sono successe cose bellissime. E non solo lì.

“Purtroppo quest’allarme del Covid-19 ha creato del panico un po’ ovunque perché non è stato gestito nella maniera ideale all’inizio. A Praga, purtroppo, abbiamo subito dei comportamenti poco corretti da parte loro. La parte principale è stata che Paolo De Angelis (il direttore generale del Famila, N.d.R.) è finito in ospedale sotto tampone, quando aveva semplicemente avuto un’intossicazione alimentare. Nessuno però si era mai preoccupato di mandare un medico per venire a valutare effettivamente le sue condizioni. L’hanno portato in ospedale e stava benissimo. La società di Praga perciò non si è comportata nella maniera ideale, da squadra di Eurolega che ha partecipato a numerose Final Four. Da una squadra prestigiosa com’è ci saremmo aspettate un po’ più di professionalità, però purtroppo questo coronavirus ha fatto impazzire un po’ tutto”.

Pierre Vincent come l’hai vissuto dal lato della giocatrice prima e da quello della team manager poi?

“Devo dire che Pierre è stato una bellissima scoperta da tutti i punti di vista. Mi sono trovata subito a mio agio da giocatrice con lui, e anzi mi spiace di averlo trovato solo negli ultimi anni della mia carriera perché un allenatore come lui sarebbe bello trovarlo a 20-25 anni, quando sei nel pieno del tuo apprendimento della pallacanestro. E’ un allenatore che a livello tecnico-tattico insegna veramente tanto, ma soprattutto a livello umano e personale ce ne sono pochi come lui. Ha studiato tanto i comportamenti e le relazioni umane, quindi sa benissimo come comportarsi ed essere lì all’interno di un gruppo, quindi veramente questa cosa sto cercando di applicarla dal lato team manager, perché anche lì è un allenatore cui piace condividere esperienze, opinioni. Quando ha un pensiero, un’idea, fa sedere tutti intorno a un tavolo e chiede a ognuno la propria idea e si arriva a una soluzione. Questo lavorare in gruppo, assieme, è una cosa che mi è sempre piaciuta di lui: da giocatrice era la stessa cosa. Lui predilige il gruppo, e soprattutto a livello di allenatore fa emergere i singoli talenti a favore della squadra”.

Sempre parlando di allenatori, ma andando più indietro nel tempo, ce n’è uno che è stato probabilmente quello che ha lasciato il segno, ed è Fabio Fossati.

“E’ stato il mio mentore, oltre che allenatore. L’ho incontrato da giovane ed è quello che, dopo Corno e Ricchini, mi ha messo in campo e dato la possibilità di giocare subito ad alti livelli sia in campionato che in Eurolega sia con la Comense che a Schio. A lui chiaramente devo tanto, ma soprattutto sento che siamo sempre stati molto simili come mentalità del lavoro, nel fatto che il lavoro quotidiano, quello fatto settimanalmente paga, e soprattutto bisogna mettere energie nelle cose che effettivamente servono e non perdere energie in stupidate o in piccolezze che ci possono essere all’interno di un gruppo, di una società, di una squadra. Mi sono sempre trovata veramente bene con lui, molto allineata per le idee che lui portava in campo”.

Il tempo di Como è sempre da ricordare, perché va ricordato cos’è stata la Comense. Il debutto lì l’hai fatto in mezzo a campionesse come Mara Fullin, 15 campionati anche lei, Viviana Ballabio e chi più ne ha più ne metta. Cos’è stato crescere tra loro?

“Lì è stata veramente la scuola di sport e di vita, perché trovarmi a 16 anni a esordire con giocatrici di quel calibro e non solo è stato il regalo più bello che la pallacanestro mi abbia mai fatto perché ero come una spugna, e in ogni allenamento, in ogni partita cercavo di carpire tutti i loro segreti, non solo dal punto di vista tecnico, del campo, ma soprattutto caratteriale, la mentalità vincente, il fatto di legarsi a una squadra, di saper esprimere la fedeltà a una maglia come Viviana Ballabio che è stata la capitana per anni, ed è stata un po’ il mio esempio, è quello che ho cercato di fare qui a Schio. Ogni giorno della mia carriera, fino all’ultimo, io ero l’insieme di tutte loro. Ogni cosa che ho sempre fatto in campo e fuori l’ho fatta grazie al loro insegnamento. E’ stato veramente fantastico. Le cose non sono sempre andate lisce, ho preso anche io le mie urlate in faccia e i pugni sui denti, però sono quelli che ti aiutano a crescere e maturare”.

Certo che è vero che una società come Como manca, per quello che ha costruito.

“Assolutamente”.

Che cos’è il mondo WNBA visto da dentro?

La WNBA è una grande macchina organizzativa. E’ una società di calcio nostra, è un’azienda. Al di là della squadra in cui giochi ti senti veramente parte di un sistema, di un’organizzazione che lavora per te e fa tutte le cose per migliorare la visione del basket femminile e delle singole giocatrici. E’ stata veramente una gioia poterci stare dentro per qualche anno, perché sono cose che bisogna prendere da esempio. E’ chiaro che loro hanno la NBA, una struttura e cultura sportiva totalmente diversa dalla nostra, una visione più ampia. Però è chiaro che le nostre federazioni e leghe debbano prendere a esempio la WNBA”.

Fra l’altro sei stata lì con il tramite di uno come Michael Cooper e con Chicca Macchi al fianco.

“Ovvio che l’esperienza fatta con Chicca è stata più semplice e facile, perché dal punto di vista anche umano e personale avere una tua compagna di squadra a vivere la stessa esperienza è chiaro che ti aiuta. Anche nei momenti in cui non eravamo in palestra eravamo sempre assieme, perciò ci sono stati dei periodi che ci hanno legati per sempre”.

C’è stata un’iniziativa molto bella fatta da te sulla pagina Facebook del Famila, quella di riunire tutti i volti storici del club, oltre ad avere qualche extra come Gallinari. Com’è nata?

“Quando c’è stata l’emergenza Covid, con la società abbiamo pensato di fare delle dirette che tenessero un po’ accesa la gioia e tutti i valori positivi che lo sport trasmette ai tifosi e alle ragazze del settore giovanile, per cui passare dallo stare tutti i pomeriggi in palestra allo stare a casa è stato un trauma. All’inizio abbiamo intervistato le giocatrici attuali della Serie A1, e di lì l’idea è nata da me, perché era bello ripercorrere, visto che avevamo tempo, gli ultimi 15 anni di Schio. Avendo contatti con tutte le mie ex compagne di squadra ho provato a mettere insieme queste decine di interviste, che sono state molto apprezzate, perché al di là dei tifosi, che non vedevano da tanto alcune giocatrici, hanno avuto riscontro anche a livello personale con appunto le ex giocatrici come Penny Taylor, Bethany Donaphin, Cintia dos Santos, le giocatrici straniere un po’ più datate che effettivamente era tanto tempo che neanche io vedevo. E’ stata un’emozione, come se fossimo di nuovo tutte quante in palestra assieme”.

Ritornando sul fronte allenatori: Lino Lardo come allenatore della femminile come lo vedi?

“Sinceramente non lo conosco. O meglio: conosco il suo trascorso nel maschile, ma non come persona. Staremo a vedere quando lo conosceremo dal vivo, se sarà in grado di fare il suo lavoro”.

Certo è che non è detto che un allenatore che viene dalla maschile debba far male nella femminile. Basta vedere Capobianco, o Riccardo Sales.

“Io non ho mai fatto discriminazioni in questo senso, un allenatore è un allenatore. Sono tutte storie il fatto che allenare la femminile è diverso dalla maschile. La pallacanestro è quella, si tratta di mettere in piedi delle relazioni umane. Che siano donne o uomini, le relazioni, se una persona è capace di relazionarsi, le sa fare con l’una e con l’altra”.

Le maglie azzurre più belle della tua vita?

“L’oro ai Giochi del Mediterraneo: è stata una bella vittoria in casa, a Pescara. Ma chiaramente tutte le partite. Non posso toglierne qualcuna. La più bella, ma forse la più amara, è stata quella dell’Europeo con Capobianco, il Mondiale era ad un passo e sarebbe stata la ciliegina sulla torta della mia carriera personale. Poi era un gruppo che stava bene insieme, che aveva lavorato tanto, che poi purtroppo non ha potuto materializzarsi sul campo con il Mondiale. Però a livello mio personale, cestistico e per il fatto che rivestivo il ruolo di capitano, quell’anno lì è stato proprio quello in cui ho dato il meglio di me. Quell’Europeo lì lo incornicio”.

Mondiale sfuggito non una, ma tre volte, perché anche nel 2009 e nel 2013 era lì.

“Esatto”.

Adesso c’è una generazione che sta crescendo potentissima, con tutte le medaglie under e il lavoro di Giovanni Lucchesi e dei suoi colleghi. Il futuro sembra più che buono.

“Il futuro è sempre stato più che buono. Il discorso è che bisogna aiutare queste ragazze a fare il salto di qualità: la differenza tra il basket giovanile e professionistico di Serie A1 è ampia. Da un lato bisogna far sì che tutte le società e la Federazione siano pronti a far giocare, entrare nei loro roster queste giovani, dall’altro le giovani stesse devono avere un po’ più di pazienza e non aspettarsi tutto subito. Non è perché hai vinto una medaglia con la Nazionale giovanile che allora hai diritto a 40 minuti in Serie A1. Bisogna guadagnarsi ogni cosa, però è chiaro che ci sono ragazze con talento e con voglia di lavorare, per cui speriamo che questi risultati si trasformino presto in risultati in Serie A1″.

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E spesso non viene loro negato, perché tante giovani lo scorso anno ne hanno avuto di spazio.

“Assolutamente”.

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Credit: Ciamillo

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