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Simona Ballardini, basket femminile: “C’è tanta psicologia, voglia di lottare dietro questo sport. Amo condividere gioie ed emozioni”

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Simona Ballardini: storia della pallacanestro femminile italiana che è ancora in volo. Questo si può dire di lei, una persona che di sfortuna ne ha avuta tanta, complici gli infortuni, ma che tanto ha anche saputo dare al nostro basket. E non lo ha fatto in anni banali: i suoi tempi sono stati quelli delle grandi difficoltà del movimento femminile, e cioè nei primi Anni 2000. Grande talento, ma soprattutto voglia infinita di stare in campo, quella che testimonia ancora oggi che, a 39 anni, nella sua Faenza, continua a dar man forte in Serie A2. Di peli sulla lingua non ne ha mai avuti troppi, e anche in quest’intervista che ci ha concesso ha scelto di non nascondersi su una vasta gamma di argomenti.

Questa di Faenza era stata una bella stagione, nel girone Sud di A2, però è finita prima. Com’è stato l’impatto della conclusione anticipata?

“Se me l’avessi chiesto 10 anni fa, ti avrei risposto in maniera diversa. Adesso ho un’altra consapevolezza. Sia chiaro, c’è sempre stata la squadra prima di tutto, ma si è trattato di un problema talmente grande che mi sembrava molto futile continuare a giocare, un po’ per la sicurezza di tutte le ragazze. Non siamo professioniste e non abbiamo alcuna via di mezzo, non siamo molto salvaguardate, e dall’altra parte con la tragedia che si stava consumando in Italia non era giusto continuare a giocare a livello di salute, fondamentale per ognuno di noi e per tutta la squadra. Peraltro veniamo tutte da posti diversi. Io sono faentina, ma c’è gente che viene da Parma, dal Veneto, da Ancona. O proibisci alle ragazze di andare a casa o è difficile contenere qualcosa che non sai come si diffonde. E la nostra era la terza regione con la maggior diffusione del virus. Era come mettere a repentaglio la salute degli altri. Come società non c’è una forza tale per poter preservare la sicurezza delle atlete come possono fare i calciatori. Che la stagione sia finita mi dispiace, perché si era creato un gruppo incredibile, un affiatamento, ma quello c’è sempre stato. Coach Paolo Rossi stava facendo bene, davvero bene. Dispiace, però ho imparato che poi quello che ti viene tolto in un modo o nell’altro ti viene restituito. È stato giusto preoccuparsi per la vita, che è più fondamentale e importante di un qualsiasi lavoro, compreso il nostro”.

E poi c’era un intero girone, quello Nord, che era composto di squadre in zona di massima diffusione del virus.

“Loro erano già indietro di tre partite rispetto a noi, ne avevano saltate. In A1 ci sono stati casi come Bologna che è andata giù in Sicilia, le hanno fermate e sono tornate su senza giocare, all’ultima giornata prima dello stop. Non era possibile. Le squadre che dovevano venire da noi ci dicevano che avevano annullato i voli, quando ancora non si era fermato il campionato. Non potevano proprio venire. Avevano trovato un volo che portava a Roma, mettevano insieme tre partite in tre giorni pur di doversi presentare. È stata una decisione saggia e giusta”.

C’è stato un momento di disorientamento totale.

“Questo dicevo. Non sono arrivate direttive di nessun genere, erano tutti spaesati. Chi chiamava per rimandare, chi per posticipare. C’erano squadre in Veneto che avevano saltato 3-4 partite perché impossibilitate ad andare dove c’era il Covid-19. Era diventato insostenibile. Non si poteva. Forse solo i calciatori potevano continuare a giocare. Spero che l’ambiente sia adatto, perché per me fermarsi e ricominciare con mille partite in un mese, indipendentemente dal soldo che prendi, a livello fisico è traumatico”.

Più che una stagione, era diventata, questa, una battaglia a tre con Campobasso e La Spezia.

“Esatto. Però c’era anche Livorno che stava facendo bene”.

E anche Ariano Irpino, Pistoia.

“Umbertide. Ma anche San Giovanni Valdarno, aveva perso tante partite ma era stata costruita con nomi, giocatrici. Non c’erano partite che si potevano prendere sottogamba. Neanche a Cagliari per noi è stato facile vincere, era un girone più competitivo dell’anno precedente, non c’erano le squadre materasso. Questo a parte l’High School Basket Lab e Viterbo, forse, che però erano veramente giovani, tutte le partite erano da affrontare con grande mentalità perché nascondevano un sacco di insidie: c’era una qualità, nel campionato, più alta rispetto agli altri anni in cui c’erano davvero delle squadre meno forti. Dicevo delle due di Cagliari, magari hanno mollato nell’ultimo quarto, però lottavano. C’era un livello medio bello. Fino alla fine non avremmo saputo se Campobasso ce l’avrebbe fatta o se saremmo salite noi. A me dispiace perché non è che ci tolgono la prima parte della stagione, ma la seconda con le partite decisive, i playoff. Ci siamo fatte un gran mazzo per arrivare, e ce l’han tolto. Però se pensi a chi doveva fare le Olimpiadi, chi si allena anni per essere nella condizione migliore e invece non le ha. Però sono cose che vanno oltre lo sport, oltre qualsiasi cosa. Come la vita, e chi la stava perdendo e la tragedia che si stava comunque diffondendo. È un dispiacere, che però non è una ferita”.

Quando sei tornata a Faenza, cos’hai trovato nel progetto di rinascita e nel far tornare in alto la città?

“C’erano i miei amici con cui sono nata e cresciuta che giocavano lì, un presidente, un signore di Lugo, una persona molto dolce, che ci ha praticamente “regalato” la società di B. Poi abbiamo trovato Mario Fermi, che è sempre stato un intenditore di pallacanestro. E da lì è partito tutto. C’erano tante ragazze di Faenza che ho sempre conosciuto, io venivo da infortuni e un anno in cui all’inizio non potevo far niente, più che altro il dirigente accompagnatore. Poi io ho fatto il patentino per allenatore nazionale, si è creato un settore giovanile nostro. Prima di tutto viene la crescita tecnica prima ancora che tattica dei ragazzini in una città in cui la pallacanestro è tanta. E da lì siamo partiti. Non abbiamo mai voluto fare il passo più lungo della gamba, tant’è che quando abbiamo rischiato la promozione in A1 io e il presidente ci siamo guardati in faccia della serie ‘mamma mia, e adesso come facciamo?’, perché nessuno di noi si aspettava dalla B all’A2 e dall’A2 all’A1 con un roster di ragazze faentine che nessuno conosceva. Avevamo gente del posto, che lavorava, che aveva una vita normale fuori e giocava a pallacanestro per hobby. È stata una scalata incredibile“.

Fra l’altro ce la stavi portando tu in A1, a suon di tiri decisivi.

“È grazie alla mia squadra che siamo arrivate al punto di poterci giocare ogni partita. Sì, ho fatto quel canestro, ma senza le mie compagne e un’organizzazione di squadra saremmo andate giù a picco, soprattutto in quel campionato e dopo tutte quelle partite giocate, mentre Vigarano (avversaria dall’A1 nello spareggio incrociato della stagione 2017-2018, N.d.R.) era ferma da un mese e mezzo, con una regola a parer mio alquanto discutibile. Non puoi togliere alla mia squadra il privilegio di salire in A1 perché mi fai giocare contro una squadra di A1 contro tre straniere, neanche due. O mi dai la possibilità di giocare ad armi pare o non capisco cosa stiamo facendo. Io da vent’anni ormai gioco in A1/A2, e mi domando semplicemente perché accadeva. Non tanto per me, quanto per le ragazze che mai si sarebbero immaginate, nei loro sogni, lo spareggio per giocare in A1. Vincere l’A2, perché alla fine noi passando da settime siamo state promosse, a una partita contro una squadra di A1. Forse però va bene così, era un passo più lungo della gamba. Sicuramente a livello societario, organizzativo, per una società nuova avere un po’ di step prima dell’A1 aiuta sicuramente. Questo mi sento di dire, senza polemiche”.

A1-A2, ma anche Francia: un mese l’hai fatto anche a Bourges. Com’era, per quel poco che hai potuto vedere, il basket francese del 2012?

Sono molto organizzati. Noi italiani non siamo da meno, però quello francese è un basket con una fisicità maggiore, perché le stesse francesi sono più ‘fisiche’ di noi. Noi in Italia abbiamo le straniere con quel fisico, lì americane o francesi sono degli armadi. Mi spiace perché la straniera che ero andata a sostituire non ci sarebbe più stata. Mi avrebbero fatto il contratto e tutto, poi mi sono rifatta male e ho avuto una serie di sfortunati eventi che mi hanno un po’ caratterizzato la carriera. Però diciamo che adesso, dopo quasi 13 anni, sto iniziando a mandar giù quel boccone amaro che a volte ritorna. Ho dato tutto e non so se dalla pallacanestro mi sia stato dato indietro tutto quello che ho dato. Amo profondamente questo sport della palla, e dall’altro lato ci sono molto inc****ta, o forse con me stessa, non lo so. So solo che una serie di sfortunati eventi ha compromesso parecchio la mia carriera, ma forse non tutto il male vien per nuocere. Se c’è questo detto, vorrà dire qualcosa. Questo è quel che provo per la pallacanestro, per quella che è stata la mia vita in quel momento”.

E forse è anche questo il motivo che ti spinge a continuare ancora un anno.

“Anche se il mio corpo si fa sentire, il motivo è questo. Amo profondamente l’adrenalina che provo su quel campo, condividere gioie ed emozioni, anche se sono molto dura con le mie compagne. Amo profondamente quella gioia della partita vinta e del gruppo. Faccio fatica a lasciar andare, perché ho speso anni, anni importanti. Sono ancora un po’ in combutta, però prima o poi lo dovrò fare”.

Anni importanti come i primi fuori Faenza, nella prima Schio, che stava iniziando a diventare grande.

“Poi mi sono rotta nel momento peggiore, più avanti la Nazionale mi ha detto di no per quell’estate perché l’Europeo c’era quella successiva, a me hanno detto di no, io l’estate successiva ho saltato sia la WNBA che gli Europei in Italia. È stato proprio come essere al posto sbagliato nel momento sbagliato. Non son qui a gridare che non mi dovevo far male perché succede a tanti, però cinque operazioni in sei anni… è difficile tenere botta più con la testa che con le gambe. Non è facile. Sono andata più a picco con la testa. Ringrazio le persone che sono state vicino a me in quegli anni bui, che si sono protratti a lungo. Dopo, ovviamente, ti entra quella sfiducia che non è facile mandar via. Quindi sì, mi sono rintanata a casa mia perché dopo si iniziano a costruire le squadre e si pensa: ‘Sì, ok, ma è rotta, preferiamo una meno brava, ma sana’. C’erano delle umiliazioni che sono abbastanza forti. Sono tornata a casa, tra la mia gente, le mie mura, le mie amicizie, la mia famiglia. Alla fine se anche gli amici si possono chiamare famiglia vera, c’è un motivo: sono i primi ad esserci soprattutto quando hai bisogno. Ho ricominciato dall’ultimo gradino a risalire le scale. Anche lì ho imparato tanto. È stata esperienza accumulata e la dovevo passare per capire altre cose, questo sì. C’è anche vita fuori dalla pallacanestro, e per me la vita era solo quella. E non è giusto pensarla solo così: nessuno è invincibile, io c’ho messo un po’ per capirlo. Alla quinta operazione ho iniziato a capirlo. Per il resto non ho rimpianti o rimorsi, perché dirlo adesso a quarant’anni è facile, se avessi scelto e non quest’altro. In quel momento non ho fatto una scelta sbagliata, nel senso che in quel momento mi sembrava la scelta più corretta. Poi di sicuro non avevo un carattere facile, avevo molta rabbia dentro. È la classica frase che dicono di me, ‘estro, fantasia, carattere un po’ del cavolo’. Il mio carattere mi piace, e se non l’avessi avuto non sarei arrivata dove sono arrivata. Sicuramente avrei potuto reagire in modo diverso tante volte, questo sì. C’è una canzone di Mannarino che dice: ‘Ma il mondo non cambia spesso, allora la tua vera rivoluzione sarà cambiare te stesso’ (il titolo è ‘Vivere la vita’, N.d.R.). La gente mi diceva fai così, fai così, ma era anche il mio approccio, il mio essere che era sbagliato. Iniziare a smussare un po’ di più il mio carattere faceva sì che le cose cambiassero. Ma così è andata, non ho rimpianti, ho dato l’anima, il cuore, tutto, ho fatto una vita da soldato. Puoi chiedere da quanti anni rincasavo prima del “coprifuoco” per la pallacanestro. È andata così. Questo è. Adesso sono qui a Faenza a divertirmi e a vedere quanto la fatica può essere ripagata. Perché vivi delle emozioni, ti viene una felicità molto più grande quando vedi che ti impegni, migliori e poi vinci. Questo va benissimo”.

Credit: Ciamillo

Com’è andata esattamente la storia del tuo passaggio in WNBA?

“L’allenatore della Nazionale di quel momento mi ha detto che non sarebbe stato possibile andare in WNBA, anche se quell’anno non c’erano appuntamenti. C’era un torneo organizzato, a Chieti, di 12 squadre, e avrebbe avuto piacere, e voleva che io stessi lì quell’anno perché sarebbe stata la squadra che nell’anno successivo, il 2007, avrebbe giocato gli Europei. Con molto dispiacere ho strappato il contratto per la WNBA e sono rimasta qua. Poi mi sono rotta il 25 aprile, ho saltato la finale scudetto con la mia squadra, ho saltato la WNBA, ho saltato gli Europei in Italia a Chieti. Non è stato un grande anno. E ancora senza dar colpa a nessuno, io ero quella, ma se fossi andata in America e ne fossi sbattuta sicuramente sarei stata messa in croce più di altre. Io con il mio carattere facilitavo la gente. Ho detto no e ho accettato, perché l’amore per la maglia della Nazionale c’è sempre stato. Poi è saltato anche quello”.

Chi scopre e sa della tua carriera vede nel ruolino delle squadre Venezia, Umbertide, Taranto, Priolo. Tutte società che prima o poi hanno avuto un certo tipo di percorso. La tua Reyer era quella delle finali scudetto, scesa per poi risalire. Taranto l’hai vissuta vincendo il tricolore, e poi ci sono stati i problemi che l’hanno fatta sparire. Priolo ha avuto la sua brutta fine. Umbertide si è autoretrocessa.

“Penso che sia il problema di tante società. Se vogliamo che il basket femminile non sparisca, questa rivoluzione deve partire dall’alto. Devi aiutare le società, non chiedere soldi quando non ce ne sono per il basket femminile. È difficile trovare sponsor. Non abbiamo la visibilità del calcio e neanche del basket maschile o della pallavolo femminile”.

Bisognerebbe però cercarla, magari su un canale televisivo importante.

“È quello che io dico. Non puoi continuare a pretendere dalle società cose e cifre, e adesso ancor più dopo il Covid sarà un casino. Cos’è che puoi offrire allo sponsor? Un po’ di visibilità sui social? Tutto è difficile. Io ricordo quando il basket femminile andava da Dio. Oggi e domani mi dai i soldi per paura di rimanere senza, ma non si può creare un movimento privo di soldi. È tutto il movimento che dev’essere rifatto, risistemato, a favore di quei presidenti che hanno voglia di farsi il mazzo per uno sport che non ti porta a chissà che guadagni”.

Questo del femminile poi è un mondo diverso e sarebbe anche da vedere, perché c’è un tipo di ambiente che, una volta che si segue, è difficile lasciare perché c’è tanto di buono.

“C’è più familiarità, c’è più sport. C’è più legame di squadra. C’è un sacco di psicologia dietro, tanta voglia di lottare. Se ogni anno continuiamo a iscriverci, è perché crediamo in questo sport. Ci dev’essere però data una mano. Non è facile. Presidenti come Campobasso, ce ne fossero. Adesso c’è più modo di rendersi visibile. Ci sono un sacco di modi per dare visibilità”.

Ai tempi di quando c’è stata Taranto, l’emozione dello scudetto, con un palazzetto in cui c’era tanto pubblico. Una delle cose migliore dell’A1.

“Ho avuto la fortuna di giocare nei palazzetti di Taranto e Faenza, e per me rimane tale. Arrampicarsi sulle finestre per vedere le partite, in una città che è la mia, è un’emozione vera. Le emozioni tributate, a Taranto, dai tifosi pazzi e scatenati in senso buono. Poi la finale scudetto con Faenza. Dovevamo riuscire a non fare i playout e abbiamo perso con due infortunate. Anni fantastici. Quella finale scudetto è stata al pari del vincerlo con Taranto per qualità della squadra. A Taranto eravamo una squadra forte. E abbiamo fatto squadra e gruppo nonostante fossimo tanti talenti e super giocatrici. Emozione fantastica”.

C’erano Sottana, Vaughn, Mahoney.

“Michelle Greco. Giauro, Gianolla, Siccardi, Pascalau”.

I nomi per cui vengono i brividi.

“Una SQUADRA con tutte le lettere maiuscole”.

E c’erano, nelle altre squadre, Chicca Macchi che ancora oggi la spiega, Penny Taylor.

“Penny per me è stata fantastica, fenomenale, un esempio, una sfida, un orgoglio poterla difendere e marcare. C’erano giocatrici grandi, questo sì”.

S’è ritirata di recente Kathrin Ress, ed è bello che ci sia ancora Chiara Pastore ad avere la voglia e la forza.

“Lei comunque è più giovane, è di quella generazione. Il primo anno che è andata via di casa è venuta a Faenza e c’ero io. Chiaretta Pastore. Ha una dedizione per questo sport, per il suo fisico. Ha sempre una gioia incredibile negli occhi, che sprizzano gioia. Ce ne fossero di giocatrici così”.

In altre tue interviste hai raccontato dell’importanza di gente come Giampiero Ticchi e Lorenzo Serventi. Uno è andato a Venezia dallo scorso anno, l’altro è approdato alla Virtus Bologna. Forse si è iniziato a capire che prendere valido materiale umano aiuta.

“Quello che penso anch’io. Sono peraltro allenatori che ho avuto. Ce ne sono tanti di giovani, e alla fine gira e rigira sono sempre quelli. Serventi è un super allenatore, Ticchi anche. Hanno due stili completamente diversi, ma sono due super persone. Finché si ha a che fare con persone, io penso che una soluzione a un problema si possa sempre trovare”.

C’è anche un altro allenatore di quelli giovani che sta emergendo, ed è Francesco Iurlaro.

“Non lo conosco di persona, so chi è, e so che è buono”.

C’è proprio una scuola che parte da Giovanni Lucchesi, che è stato definito ‘lo scultore delle giocatrici’, visto con quante ha lavorato nelle giovanili.

“Ha fatto un settore giovanile nazionale super. Ha portato annate a vincere tutto quello che non si vinceva da tempo”.

E adesso anche con la 2002 che è un’annata pazzesca.

“Assolutamente”.

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Credit: Ciamillo

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