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Alessandra Orsili, basket femminile: “Con lo stop ho scoperto tanto di me. Sono stata con due Nazionali fortissime agli Europei Under 18 e Under 20”

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Alessandra Orsili, classe 2001, giocatrice del Basket Le Mura Lucca. La carta d’identità può dire questo, e lì finisce. Ma dietro il suo volto c’è una storia, che a 19 anni è già ricca di spunti, aneddoti e sorrisi di quelli che, da tempo, cerca di regalare al mondo tramite i suoi social. Rimasta ferma praticamente dall’inizio dell’anno a causa della rottura del legamento crociato, ha di fatto chiuso anzitempo la stagione, perché nel frattempo è sopraggiunta la pandemia di coronavirus a fermarla. I suoi obiettivi, però, rimangono di alto livello, e Lucca le ha dato fiducia confermandola nel progetto tecnico di coach Francesco Iurlaro. L’abbiamo raggiunta per un’intervista telefonica in cui, tra un sorriso e l’altro, ha aggiunto un altro tassello ai racconti legati alla doppietta Under 18-Under 20 d’oro con le Nazionali giovanili agli Europei 2019, oltre a diversi spunti interessanti che denotano come la giovane play, di essere scontata, non ne abbia la benché minima voglia.

Lo stop c’è stato, ma tu ti sei fermata ancora prima per la rottura del crociato. Da fuori non sembrava così grave: anche tu lo pensavi oppure già avevi sentito che qualcosa non andava?

“Paradossalmente succede questo: tutti quelli che si rompono il crociato ti dicono che o ti fa un male bestia o non senti nulla. Io sono tra le fortunate che non ha sentito nulla: ho sentito solo quest’improvvisa necessità di tirare, flettere verso di me il ginocchio, come se i muscoli fossero contrattissimi. Penso che dopo sono riuscita a camminare e corricchiare solo proprio grazie a questi muscoli che tenevano tutto un po’ fermo, ma appena Iurlaro mi ha guardato mi ha detto ‘tu ce la faresti a rientrare?’, e non avrei mai pensato che un giorno avrei detto ‘no’ (ride). Il giorno dopo, mi avevano detto che se si gonfiava qualcosa significa. Io ‘ti prego, fa che non si gonfi’. Quella sera, si stava ancora giocando, io ero a piangere e mi dicevo ‘no, ma tanto non sarà nulla’. Speravo non lo fosse, solo che sono tanto sensibile per quanto riguarda queste cose perché non mi è mai successo niente di questo tipo, quindi mi sono sempre considerata un po’ l’eccezione. Pensavo ‘ma vuoi che succeda proprio a me?’ e quindi ho avuto il panico. Me lo sono tenuto per i successivi tre mesi, poi però ho sottolineato dicendo che le lacrime non erano più di tristezza, delusione, malinconia, ma di commozione, perché appena mi sono infortunata un sacco di persone mi hanno scritto. Mi ha fatto tanto piacere che, nonostante fossi una giocatrice riconosciuta per le capacità tecniche, mi sono stati vicini perché mi avevano conosciuta e interpretata come una persona speciale, a prescindere da quello che mi è successo. Ho iniziato a vederla in un altro modo. All’inizio ero fissa sul pensiero di quello che non potevo fare, poi a un certo punto mi sono fatta forza, in relazione a tutti quelli che mi hanno scritto e mi hanno sopportata, e ho detto ‘vediamo quello che posso fare’. Cioè niente, perché non potevo camminare (ride). Però poi ho scoperto tante cose su di me, ho fatto nuove amicizie, mi sono interessata di più a leggere, alla nutrizione, perché in quel momento potevo fare solo la dieta, e mi ci sono messa. Ho compreso che, anche se fai una cosa e ci metti l’anima, e ce la mettevo tutta, non significa che poi la tua anima sia quello che fai. C’è molto di più dopo il basket. Io ho iniziato a cercare questo, distraendomi un po’ dal basket, vedendolo da altri punti di vista, come curare il proprio fisico, perché non avevo mai preso in considerazione quest’alternativa. Purtroppo è sia un merito che uno svantaggio, perché ti alleni, però fai quello che ti pare, dormi tardi la sera, e quindi ho cambiato proprio registro”.

Qui si mettono insieme due discorsi distanti tra loro: uno è quello tecnico, perché quest’anno a Lucca di infortuni ce ne sono stati tanti, e l’altro è quello dell’affetto. E deve aver avuto un peso il fatto che, su Instagram, cerchi sempre di fare la giusta ironia su tutto, anche quando magari le cose sono un po’ più sfortunate.

“Io penso che Instagram e in generale i social network siano una cosa molto delicata. Non sono una di quelle che posta tutto, perché significherebbe mettere anche quella parte un po’ nostalgica, un po’ oscura, non sempre simpatica, ma preferisco essere simpatica perché voglio che le persone abbiano gioia e innanzitutto il coraggio. Funziona che voglio farti divertire, fare esperienza delle mie cose simpatiche che succedono, perché di cose brutte ne abbiamo tutti abbastanza. Mi piace pubblicizzarlo in questo modo. Se posso metto le cose simpatiche, che siano vere, con la massima spontaneità e ironia”.

Comprese quelle espressioni facciali che, diciamo così, ti piacciono.

“Non bisogna vergognarsi. Son furba. Metto questo su Instagram, poi chi mi vede su Instagram dice ‘oddio, ok’, poi mi vede dal vivo e dice ‘cavoli che bellezza!’ (ride)“.

Quando hai scelto Lucca, perché ci sei andata?

“Mi sembrava una piattaforma adatta a me. Ho conosciuto la società e il modo in cui lavora, erano disposti a fare un progetto a lungo termine per me e il mio obiettivo non era esplodere al primo anno, ma una cosa graduale. Mi è piaciuto il progetto perché basato su sacrificio, lavoro e meritocrazia. Poi Iurlaro lo conoscevo e mi allineavo perfettamente a questo tipo di processo. Io sono una disposta al sacrificio e questo valore l’ho conosciuto e sviluppato a Civitanova. A Lucca ho deciso di andarci e mi sono scrollata di dosso tutti i dubbi. Se poi mi guarderò indietro e dirò ‘se avessi fatto questo?’ allora avrò concepito la scelta come sbagliata. Se invece vado sicura sulle cose che scelgo saranno per forza quelle giuste, perché sono quelle che sono accadute”.

Filosofia che è alla base del tuo rimanere e credere, anche in questo momento in cui le cose sono state diverse dall’immaginato, nel progetto, nonostante tutto quello che è saltato, compresi gli Europei giovanili.

“Io mi sto preparando, il basket si prepara. Ci sarà modo di recuperare tutto prima o poi”.

S’è anche creata quella situazione per cui l’Under 18 andrà direttamente a fare i Mondiali Under 19 da ranking FIBA.

“Io non li farò, sono fuori età. L’annata 2002 sì. Io avrò l’Under 20”.

Tu la scorsa estate, a proposito, hai fatto qualcosa di incredibile: Europei Under 18, vinti. Europei Under 20, vinti. Integrandoti piano piano, cercando di capire ed esprimendo anche tu la tua personalità.

“Nell’Europeo Under 18 sapevamo che saremmo andate molto bene così come le persone si aspettavano. È andata bene, abbiamo vinto. Per l’Under 20, lo dico sinceramente, ero spaventatissima quando sono arrivata perché queste le avevo viste in tv e ora erano lì che mi stringevano la mano e mi sono integrata molto facilmente, mi sono sentita fortunatissima. Si sono impegnate per far sì che in meno tempo possibile fossi già parte della squadra. Poi quando è iniziato il torneo mi sono sentita a mio agio, con le compagne che sembrava avessi conosciuto da una vita e il risultato è stato poi quello che è stato. Invece di dire che ho vinto due ori, preferisco dire che ho partecipato con due squadre e abbiamo vinto degli ori, perché non ho fatto tutto da sola, ma ho fatto parte di due delle Nazionali giovanili più forti che abbiamo. Sono molto contenta soprattutto per il risultato dell’Under 20 che ci era sempre andata vicinissima. L’anno prima era arrivata quarta, inaspettatamente, perché ha perso in semifinale di pochissimo e nella finale 3°-4° posto all’overtime. Poi fortunatamente è andata così. Abbiamo smosso l’Universo e poi è successo il casino del coronavirus (ride)“.

Under 20 che aveva già avuto tantissime annate forti, sempre a un passo nel 2013 con Francesca Dotto, nel 2016 con Zandalasini, e poi la gioia.

“E alla fine ce l’abbiamo fatta”.

Partendo con quelle prime due partite perse.

“Infatti dico sempre che siamo proprio st***ze (ride), in amichevole prendiamo sempre 20 punti dalla Spagna e poi la freghiamo proprio all’Europeo”.

In tutto ciò, al gruppo 2000-2001-2002 si è interessato la Nazionale maggiore, perché venite spesso chiamate.

“Esatto. Costanza Verona è stata chiamata nel miglior quintetto dell’Europeo, ai prossimi raduni ci sarà, perché l’Under 20 è davvero il trampolino di lancio. Natali ci è stata, le 2002 ci sono state. Parliamo di 18 anni”.

Ed è vero che magari nei club se non ci sono i soldi c’è la creatività. Quando si riescono a far crescere le giovani (e a Lucca un mezzo progetto giovani s’è visto, a Vigarano c’è stato, a Costa Masnaga metà roster è giovane), si capisce che in Italia ci si riesce a lavorare.

“Penso sia questa la differenza tra maschile e femminile: nel maschile girano tanti soldi, ma molte squadre hanno difficoltà a inserire i giovani nelle rotazioni della squadra maggiori, a parte alcuni esempi come Nicolò Berdini della Reyer Venezia, che ha già Casarin e Possamai in prima squadra, che adesso è andato in A2, ma parliamo di un 2003. Nel femminile è già più diffusa quest’idea di far partecipare fin da subito, ma anche perché ne hanno le capacità di saper stare subito sul campo delle grandi. Moltissime squadre di A2 e A1 hanno un vivaio di livello. Civitanova Marche ha sempre giocato con le giovani e da lì le ha lanciate, e per me questo è importantissimo perché questo è il periodo del ricambio generazionale”.

Non per caso a Civitanova sei stata 4 anni.

“E ci sono stata proprio bene. Il primo anno mi ci sono allenata, il secondo ho iniziato a giochicchiare, il terzo andavo a punti, il quarto è stato quello che è stato. Mi sono divertita veramente, perché a un certo punto capisci che sei dentro al gioco, puoi gestirlo. Io ringrazio sempre l’allenatore, la società, ma soprattutto le giocatrici, perché sono fondamentali. Sono fortunata perché ho incontrato giocatrici senior che ti insegnano, non vanno in competizione con la tua giovinezza. Moltissime giudicano e dicono che le giovani devono stare in panchina, imparare a piccoli passi e passare quello che hanno passato loro. Però anche in questo modo funziona, integrare insegnare e poi rispettare il fatto che vengano superate, alla fine. E attenzione: a Civitanova la gavetta l’ho fatta. I campi li ho puliti sempre io. L’ho fatto volentieri”.

Giovani interessanti, ma non solo italiani: Europei Under 18. C’era Nyara Sabally la cui sorella Satou è diventata seconda scelta assoluta al draft WNBA. Ma potenzialmente Nyara può diventare forte almeno quanto lei se gli infortuni la lasciano in pace.

“Assolutamente. Fisico davvero imponente, e in Germania vanno forte. Ho sempre incontrato squadre tedesche fortissime agli Europei, quello l’hanno anche vinto con la Spagna in finale, e non è una squadra facilissima”.

Quest’anno tu hai fatto la maturità. Come sei riuscita, al netto della particolarità della situazione, ad affrontare il fatto che non avevi più la pallacanestro a causa del crociato, le lezioni da casa e l’avvicinamento caotico alla maturità stessa?

“Per noi la scuola è finita il 10 giugno. A fine maggio i professori ci chiedevano come sarebbe stato l’esame. ‘Ma voi sapete qualcosa?’ ‘Ma noi sappiamo qualcosa?!’ Questa era la situazione. L’infortunio l’avevo messo da parte. Mi allenavo tutti i pomeriggi, anzi c’è stato un periodo in cui mi si è infiammato il ginocchio perché gli esercizi li facevo da sola e male. Per un mese non ho fatto esercizi. Ho detto ‘va bene, mettiamoci a studiare’. Ed è stato veramente molto faticoso, perché l’esame è stato una cavolata pazzesca. Molto facile. Però sono contenta di aver affrontato questo periodo e di aver affrontato la sensazione della paura di non farcela, che mi aveva spaventato. Sicuramente l’hanno provato tutti quando è arrivato il momento della maturità. L’ho provato con la stessa intensità, ma con modalità diverse. Noi facevamo lezione tutte le mattine, ma alla fine non ricavavo molto dalle lezioni che facevamo online. Il tempo di interrogare qualcuno, ma comunque non è che spiegassero. Ti dicevano cosa dovevi studiare, tu lo studiavi da casa, e poi se c’erano problemi li riportavi il giorno dopo nella lezione successiva. Il fatto di studiare da solo, di capire quali erano le cose importanti, di selezionare, senza che lo facessero già da prima i professori, argomenti che si intuiva fossero quelli fondamentali, questa cosa mi ha aiutato tantissimo per sviluppare una capacità di sopportare queste situazioni, che penso mi sarà utile per l’università, dato che farò la telematica. Vediamo come si svolgerà. Sono contenta di aver affrontato questa situazione in modo diverso, ma intensa allo stesso modo degli anni precedenti“.

Adesso cosa sei orientata a fare dopo la scuola?

“Farò psicologia per via telematica, probabilmente. Mi sto informando. Non la scelgo per la professione successiva, ma perché mi interessa tantissimo e poi, se devo pensare ad un lavoro, mi piacerebbe coniugare sport e processi mentali. Lavorare con qualche società. Mi piace scrivere. Potrei fare tantissime cose tra quelle che sono già state fatte o inventarne di nuove. Non mi spaventa fare qualcosa che non ha fatto nessuno”.

Questo discorso dello studiare anche durante la carriera agonistica è un tema che soprattutto nel femminile è importante e sentito, poiché il professionismo non c’è.

“Assolutamente. In generale per me è importante. Esistono le persone che dicono ‘io non riesco a studiare’ e sono disposte a trovare lavoro, però quel tipo di disposizione lavorativa testimonia la volontà di mettersi in gioco nella vita, che è solo un modo diverso di farlo. Con lo studio lo stesso ti metti in gioco, con lo sport è uguale. Per me coniugare sport e scuola è sempre stato e sarà una capacità organizzativa che si deve valorizzare, perché non è per niente facile. Anche se, se lo chiedi a chiunque, qualunque sportivo che sta studiando, che vada a scuola o all’università, ti dirà che lo sport è una fortuna, perché se non ci fossero gli allenamenti, non ci organizzeremmo. Un allenamento programmato mi aiuta moltissimo a organizzare la giornata. Se non ci fosse, probabilmente saremmo quei fantomatici personaggi che dicono ‘ma sì, lo farò domani'”.

Fra l’altro la questione della psicologia nello sport non smette mai di essere importante, ed è sottovalutatissima.

“Ma soprattutto è importante lo psicologo nello sport femminile. Perché se vuoi gestire un gruppo di ragazze allora serve qualcuno qualificato per farlo”.

Implichi la presenza di dinamiche che nello sport maschile ci sono di meno e viceversa, essendo lo sport femminile per certi versi differente.

“Lo sport è uguale. Ci sono personaggi che sono disponibili al lavoro, sudano, fanno. Solo che è riconosciuto che con le donne si fa un po’ più fatica ad imporsi, perché vogliono far valere le loro opinioni. Il che è giusto. Ascoltiamo le donne, dico io. Poi però bisogna usare le parole giuste per non farsi mettere i piedi in testa. Questo messaggio lo rivolgo a tutti gli allenatori. Alcuni sono in grado, altri no. Alcuni delle volte esagerano, è il loro modo di imporsi sulla giocatrice, sull’atleta. Perché dev’esserci rispetto reciproco, ok, ma la differenza di ruoli poi ti serve per instaurare un’unità che sia compatta. A volte si perdono questi ruoli, o meglio si scambiano con la giocatrice che diventa l’allenatrice. E succede più nel femminile che nel maschile”.

Però è un discorso per certi versi un po’ comune: il giocatore, o la giocatrice, che finisce per avere un “peso” sull’allenatore, e lì dev’essere bravo l’allenatore a non finire per dipendere da un giocatore.

“Non bisogna cambiare parole, ma soltanto la sequenza delle parole in una frase. Ci sono tantissimi modi per dire la stessa cosa, e quindi per trasmettere alla persona cui ci si riferisce un punto di vista diverso. Bisogna stare tutti sereni quando si gioca, perché è comunque uno sport, lo fai a livello professionale, siamo fortunati: è un lavoro, però si parla di divertimento, di ciò che si ama, e il divertimento dev’essere da parte sia dell’allenatore che del giocatore”.

Parlando di allenatori, quali sono quelli che hanno influito di più in quella che sei?

“Io non ne ho avuti moltissimi, ma sono stata contenta di tutti quelli che ho avuti, perché sono stati perfetti per l’età che attraversavo. Ho avuto l’allenatore quando ero piccina che è stato mio padre. Poi sono passato alla femminile e c’era Donatella Melappioni, l’attuale dirigente del settore giovanile e moglie del fondatore. Mi ha fatto da seconda allenatrice, ma anche da mamma, da insegnante, mi ha spiegato come si giocava al gioco della vita e poi quanto coincideva con il gioco della pallacanestro. Poi ho avuto diversi allenatori a Civitanova, Alberto Matassini, Nicola Scalabroni. Entrambi mi hanno dato tantissimo. Alberto mi ha dato la fiducia, nonostante avessimo una bella squadra mi ha messo in campo e mi ha dato la possibilità di esprimermi, differenziarmi per la prima volta, darmi l’opportunità di formare la mia personalità. Nicola, allo stesso tempo, ha fatto una cosa importante: ha proseguito il progetto sull’investimento della mia persona, quindi continuare a darmi fiducia, tantissimi minuti, perché io giocavo davvero tantissimo. La prima volta che sono entrata in quintetto è stata in Coppa Italia con Matassini, è stato bellissimo perché nel riscaldamento viene da me e dice ‘guarda, entrerai in quintetto’. Io spaventatissima. Poi il progetto si è espanso nel tempo, la società in primis conosceva me e gli adattano alla società, e sono stata fortunatissima a coincidere con la loro volontà. Poi sono approdata a Lucca, con Francesco Iurlaro, che conoscevo e questo mi ha tranquillizzata moltissimo. Lui lo stesso mi ha dato molta fiducia, ma sicuramente me ne darà ancora di più, sono sicura. Io devo ancora finire il mio primo anno in A1, perché non mi è piaciuto com’è finito quello scorso”.

Iurlaro l’avevi poi conosciuto anche in Nazionale Under 18, stregata dagli infortuni in quegli Europei 2018.

“Non c’era Sara Madera, Giulia Ianezic si è fatta male, Chiara Cantone si è fatta male. L’Europeo è sempre così. Non lo sai se è troppo attendibile perché perdi una partita e già lotti per non uscire”.

Il tuo obiettivo, dalle tue parole, sembra in realtà doppio. Il primo è quello di diventare una giocatrice migliore, e di avere qualcosa per cui migliorare, la voglia di andare aventi. Unito a questo c’è quello di diventare una persona migliore senza mai tradire te stessa.

“Penso che dovrebbe essere l’aspirazione di tutti. Però è la mia, anche. Siamo cresciuti in modo diversi, abbiamo tutti le nostre esperienze, ognuno ha le proprie esigenze, e io ho sviluppato questa. Mi ricordo che dissi ad Alberto Matassini che volevo crescere, diventare forte, diventare una giocatrice migliore. Lui mi guardò e disse: ‘Io non posso farti diventare una giocatrice più forte. Però posso farti diventare l’Alessandra Orsili più forte di tutte’. E quando ho sentito il nome, quando lui pronunciava il mio nome, ho capito che non si trattava più di pallacanestro, ma di me e delle esperienze che facevo in generale nel mondo. Averlo incrociato mi ha fatto capire davvero quanto fosse importante, alla fine della fiera, essere una persona meritevole di rispetto. Ma rispetto non perché uno vuole essere rispettato, ma perché si sente l’obbligo morale. Non voglio che le persone mi acclamino come persona e giocatrice, lo faccio per me stessa, quasi una forma egoistica che diventa altruismo. Però parte soprattutto da me. Io voglio finire i miei giorni da giocatrice, iniziare quelli di una vita diversa, magari da lavoratrice, da mamma, e dire ‘non potevo giocarmela meglio questa partita?’, sempre rimanendo nella metafora sportiva”.

Numero 13: perché l’hai scelto?

“Ricordo che al Trofeo delle Regioni 2014, con le ragazze di un anno più grande, mi danno il 4. Delusissima dal Trofeo che faccio, dico che il 4 non lo voglio mai più. L’anno dopo dico ‘vi prego, tutti ma non il 4’. 13. 1+3=4. Lo tengo lo stesso, in barba alla scaramanzia. Faccio questo Trofeo, sorpresissima, arriviamo quarte, mai successo nella storia delle Marche (al femminile, i maschi sono arrivati anche sul podio). Mi è rimasta impressa questa cosa di io che avevo questa scaramanzia. Poi l’ho ripreso in Nazionale perché non potevo prendere il 5, ce l’aveva Ianezic e gliel’ho lasciato molto volentieri. Il 5 in Nazionale l’ho preso per il mio aspetto fisico, ho detto: ‘Va bene, volete darmi il 5? E io me lo prendo. E gli darò un nome a questo 5’. In Under 20 ho preso il 7 perché il 5 è andato ancora a Ianezic, il 7 mi piace molto, ho capito che i dispari mi piacciono, e quindi quest’anno ho deciso di prendere il 13. Non do molta importanza al numero in realtà. Ho detto alla società di farmi sapere quando finivano di scegliere le altre, io prendo quel che resta. Volevo il 14, ma ce l’aveva Ashley Ravelli dall’anno prima”.

Quali sono le giocatrici a cui ti sei ispirata, o hai guardato come modello di come stanno in campo?

“Mi dispiace sempre rispondere a questa domanda perché non so mai come rispondere e non vorrei deludere nessuno, non so mai usare le parole giuste. Partendo dal presupposto che, nell’accezione agonistica, dico che vorrei diventare il mio idolo, la mia giocatrice di riferimento. Però la risposta esatta alla domanda è che no, non m’ispiro a nessuna giocatrice, ma venero quelle che conosco. Perché quando conosco una giocatrice, a prescindere dal fatto che sia conosciuta, mi piace conoscerle tutte e imparare da tutte qualcosa. Far sì che la loro individualità costituisca un po’ da mia, prendere da tutte i lati positivi e anche negativi per vedermi in modo diverso, crescere dai miei e loro errori, dai miei in primis. Rubare le loro capacità e farne un bene prezioso. Spero di interagire aiutandole. Ti faccio un esempio. Veronica Perini. Giocava a Civitanova, figlia di Donatella ed Elvio Perini (il fondatore della società). Ci ho giocato, ed è stata fondamentale perché mi ha insegnato tante cose e abbiamo passato tempo insieme. Per me quello è importante, passare del tempo con le persone e imparare da loro. Posso dirti che mi piace Zandalasini, che mi piace Sottana. Non avendole mai conosciute, però, non posso ispirarmici, non so cosa significa per loro giocare a basket, mentre so cosa significa per Veronica, quanta dedizione ci mette, quanto lavoro ci mette Jessica Trobbiani, sempre conosciuta a Civitanova, che oltre a giocare a basket lavora e quindi è una ragazza che è inesauribile, piena di energie, e nonostante questo sgobba tantissimo. Però non l’abbiamo mai sentita in Nazionale, non è un nome conosciuto. Non è una faccia vista. La conosciamo io e quelle che ci hanno giocato insieme. Quando devo fare dei nomi, però, voglio fare proprio questi”.

Una cosa non comune da dire: in tanti citano i nomi più celebri. Tu dici che, prima di tutto, le persone vuoi conoscerle fuori.

“Perché bisogna sempre partire dal presupposto che si è persone prima che giocatrici“.

Ed è il concetto su cui spesso e volentieri si basano le squadre: gruppi da costruire prima fuori dal campo e poi dentro. Oppure che fuori hanno tutti vite diverse, ma dentro si prendono (che è un po’ il racconto che fa Phil Jackson dei Chicago Bulls 1995-1996).

“Moltissime squadre fortissime a volte non sono sconvolgenti come alcune squadre che partono dal nulla. Le squadre che ti stupiscono, di giovani, lo fanno perché magari le giovani suonano malleabili, alla prima esperienza, sono accondiscendenti, fanno gruppo. Poi in squadra si vede che fanno quello che si dice loro, poi vanno in campo e si divertono. Poi magari accade che ci sono delle squadre formate da più professioniste che possono avere una vita distaccata, arrivano in campo, si allenano, magari c’è pure competizione, ma alla fine possono capitare le sorprese. Ma qui un caso ancora più particolare è Civitanova che batte La Spezia, ottava contro prima di A2 nei quarti dei playoff promozione”.

Fra l’altro quei playoff (2018-2019) furono stranissimi, accadde di tutto.

“Bologna che vinse con Campobasso”.

La quale Campobasso ha dovuto poi rinviare la scalata in Serie A1.

“Ogni anno hanno trovato degli intralci. Umbertide ha sconvolto la Serie A2, l’anno scorso e quello precedente se ne parlava tantissimo. Era considerata una squadra incontrastabile. Ma anche Faenza, hanno un pubblico tostissimo e una squadra molto affiatata”.

E una signora giocatrice.

Simona Ballardini, a cui bisogna dare quello che si merita”.

Ed è bellissimo che continui un altro anno, nonostante tutti gli infortuni che ha avuto ha ancora il fuoco dentro.

“E questo dovrebbe spronare chiunque tantissimo”.

Hai mai avuto delle offerte NCAA per andare in America?

“Ne ho avute, e anche abbastanza. Non faccio nomi, però ho scartato quest’opzione perché avevo paura che andare in America sarebbe stato compromettente e la mia personalità si sarebbe dispersa moltissimo, perché lì parliamo di tantissime giocatrici, che hanno caratteristiche simili alle mie e mi danno una spanna per fisicità, atletismo. Magari sarei cresciuta per altri motivi, però sono rimasta a casa. Sarebbe stato il primo spostamento, e andare da Civitanova agli Stati Uniti non so se sarei riuscita a farlo. Però, a parte gli scherzi, ho pensato che il basket europeo è quello che voglio imparare. So fare il playmaker, è giusto che mi insegnino e penso che in Italia si insegni bene come farlo. Decidere tra l’America e Lucca è stato difficile, però ho rinunciato all’America e sono felice”.

La frase sul fisico indica quanto per te la pallacanestro sia fondamentalmente tecnica.

“In un’altra intervista mi hanno chiesto delle giocatrici come Gruda. Io ho risposto che non mi sono fatta problemi, invece di prendermi stoppate varie sai che ti dico? Per quest’anno mi rompo il crociato, poi se ne riparla il prossimo anno (ride)“.

Cosa pensi di Lino Lardo coach della Nazionale? 

“A me sembra un uomo ispirato agli ideali di sviluppo della giovanile. Forse anche lui pensa a questo cambio generazionale che ci può essere. Spero che trovi in noi giovani le persone che cerca. Non so se si interesserà mai a me, lui era diretto più a Natali, a Panzera, a Costanza Verona, e probabilmente Madera. Anche Fassina, Cubaj. Ci sono nomi conosciutissimi di ragazze che sono arrivate alla fine dell’esperienza giovanile e che comunque si possono affacciare. Fra l’altro Cubaj ha già fatto gli Europei. Lui ha parlato moltissimo delle giovani, si è interessato, dice che possiamo dare tantissimo. Abbiamo sempre avuto personaggi importanti, ma per un po’ di sfiga e altre cose non abbiamo mai ‘concluso’ qualcosa. Può essere che questo cambiamento possa darci una mano”.

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Hai citato Martina Fassina: lei in Polonia, Ilaria Milazzo in Polonia. Ogni tanto c’è questa tendenza ad andare all’estero delle italiane, vedi anche Marzia Tagliamento che dopo il crac di Napoli è andata a Lugo con Cata Pollini team manager. È un lato un po’ particolare.

“Magari ti fanno l’offerta, ti dicono ‘ti do tot soldi e ti trovo pure il ragazzo’ (ampie risate). Ovviamente scherzo. Per esperienza personale (mia sorella) posso dirti che il cambiamento ti migliora. A prescindere. Però a un certo punto dici ‘prendo tutto, me ne devo andare’. Magari è quello che hanno voluto fare loro, un’esperienza all’estero, che ti faccia cambiare aria, tradizioni, gli aspetti della tua vita che era diventata quotidiana e forse percepita come monotona. Così ti dai una smossa e vedi quello che succede”.

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Credit: Ciamillo / fiba.basketball

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