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Basket, Daniele Cavaliero: “Abbiamo playmaker di prospettiva. Belinelli merita di finire la carriera in NBA”

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Daniele Cavaliero è un veterano che calca i parquet della Serie A di basket ormai da vent’anni. Nella sua carriera ha cambiato svariate casacche e giocato per obiettivi importanti. Daniele ha conquistato anche una Coppa Italia con Avellino e disputato una finale scudetto con Milano. Oltretutto, ha vestito la maglia della nazionale italiana per oltre dieci anni. Di seguito la cacchierata che abbiamo fatto con Daniele sul suo presente, sul suo passato, sui traguardi raggiunti durante le stagioni passate sui campi di pallacanestro e sui grandi di questo sport che ha avuto modo di incrociare durante la sua vita.

Che idea ti sei fatto della Trieste messa in piedi questa stagione?

“Come sempre è presto per dirlo, ma il primo indicatore positivo all’interno di queste settimane è che l’intensità, per quanto si riesca, fisicamente è molto alta. L’intensità difensiva, la voglia di fare una giocata, un aiuto, un rimbalzo, un tuffo. Questo è assolutamente positivo. Invece in attacco è normale che ci voglia del tempo, però anche qui ho visto grande disponibilità nel gestire la palla in maniera corale, che è importante. Speriamo che queste possano essere per noi delle fondamenta su cui costruire”.

Tu hai vissuto la prima Trieste, quella dei tuoi primi anni e poi quella nuova. Come l’hai lasciata e come l’hai poi ritrovata dopo quei 13 anni lontano?

“Dopo 14 anni via da casa, è normale che tante cose siano cambiate. Avevo vissuto una Trieste, da piccolo, in maniera molto ingenua e tanto di cuore, in una situazione in cui Trieste era una certezza e poi ha avuto grande difficoltà. L’ho ritrovata dopo tanti anni con una scintilla diversa, con tanta voglia da parte della gente di star vicina alla squadra, perché è stata così brava anche nei momenti difficili a dare emozioni in più, e questo è grande merito dello staff, di Eugenio, di Mauro, di Paolo Paoli, di tutti i giocatori e delle persone che hanno fatto parte degli anni della ricrescita. Trovo adesso una squadra che sta cercando di strutturarsi per essere realmente una squadra da A1. Ci vorrà del tempo. E’ ovvio che quello che è successo con Alma prima e il lockdown poi ci hanno un po’ condizionato, ma sono sicuro che Trieste merita e deve meritarsi il fatto che sia una grande del campionato italiano come presenza, palazzetto, società, sponsor. Dobbiamo essere bravi e meritarcelo, ma abbiamo tutto per farlo. La cosa più bella di tutte, forse, per quanto tutto è cambiato, ci sono cose che non cambiano mai. C’è il mio palazzetto, la mia gente, le persone che c’erano prima e ci sono anche adesso, Andrea Bussani, Osvaldo Palombella, Paolo Paoli, il dottor Baldini, Sergio Dalla Costa, sono uomini che hanno fatto parte della mia infanzia, della mia crescita. Li ho ritrovati adesso che sono un uomo maturo. E rivederli è veramente come tornare a casa”.

Alla Fortitudo sei stato compagno di Marco Belinelli, poco prima che volasse in NBA: che Beli era quello di allora e quanto era diverso da quello poi evoluto negli States?

A Bologna era un ragazzo con un sogno in testa e nel cuore, un chiodo fisso. Nella mia esperienza mi rendo conto che solo chi ha quel chiodo fisso tocca con mano i propri sogni. Era un ragazzo di un talento straordinario, affabile, ovviamente diciottenne. Anche lui in una stagione dove la squadra aveva avuto difficoltà l’ha avuta anche lui in certe situazioni, si sentiva estremamente responsabile, visto il talento che aveva, di far quadrare le cose. Invece il Beli che è cresciuto negli Stati Uniti è un ragazzo che, per rimanere al più alto livello possibile, ha dovuto diventare un uomo, ha saputo capire che solamente il talento non bastava. Ha dovuto lavorare un po’ su sé stesso, ha avuto dei momenti un po’ più difficili, l’ultima parte a Golden State e poi a Toronto, però poi da Chicago fino ad arrivare all’anello si è meritato tutto quello che ha fatto in questi 13 anni di NBA e sta ancora dimostrando che la sua carriera doveva finire lì e non sui campi europei”.

Ancora si ricordano, a Montegranaro, i giorni in cui Shawn Kemp venne, giocò, partì e sparì. Tu in quel periodo eri anche in Nazionale, ma ti giungeva qualche eco della vicenda?

Shawn Kemp l’ho conosciuto solo una volta, perché in Nazionale eravamo a Porto San Giorgio, che era vicinissima a Montegranaro. In una mattina libera sono andato su a vedere un allenamento, sono andato lì e non ha fatto praticamente niente in quell’allenamento lì (ride). Però per me in quel momento era vedere un grande della pallacanestro, un idolo. Lui e Gary Payton, la finale contro i Bulls di Jordan. Sembrava di essere davanti alla tv. Peccato però che quella sia stata l’ultima volta che l’ho visto”.

Quanto è stata grande l’emozione di vincere la Coppa Italia con Avellino, con una squadra arrivata a obiettivi mai raggiunti prima?

“Probabilmente è uno dei momenti più belli e inaspettati della mia personale carriera. Era una squadra talentuosa, ma di giocatori assolutamente sconosciuti, con un allenatore di grande talento, carisma e personalità come Matteo Boniciolli, che è stato molto bravo a chiedere al ‘Paron’ Tonino Zorzi di poterlo aiutare su certe parti tattiche che ci hanno molto agevolato durante la stagione. Siamo arrivati in un momento di forma ottimo alla Coppa Italia a Bologna, abbiamo vinto un difficile quarto di finale con Montegranaro, poi molto bene con Biella e poi la finale che non ci aspettavamo, perché aspettavamo Siena, ma la Virtus che giocava in casa è stata veramente spettacolare. E poi lì abbiamo avuto l’opportunità di vedere quello che poi sarebbe diventato Devin Smith, quello che sapevamo fossero già Alex Righetti e Radulovic, che cos’era Marques Green per il campionato italiano. Una grandissima emozione”.

A Milano oggi forse pochi comprendono l’importanza della finale scudetto 2004-2005: per te com’è stato vivere quell’avventura e poi la parte di stagione successiva con l’Eurolega?

“La stagione 2004-2005 è stata stranissima, sinceramente. Io sono arrivato da Trieste, avevo firmato un contratto lungo, mi avevano chiesto se volevo andare in prestito e ho detto di no perché volevo realmente imparare cosa significa giocare vicino a Coldebella, McCullough. All’inizio era solamente una squadra buona che è diventata ottima. E’  incredibile come ogni tanto certe squadre facciano clic. E quindi arriviamo dopo aver preso anche Sasha Djordjevic, che per me è stato una grande fortuna aver conosciuto, perché in poco tempo mi ha insegnato tantissimo e ha avuto quest’incredibile disponibilità nello starmi accanto, nel parlarmi, nel rompermi le scatole quando doveva, che non è da tutti, se pensiamo che probabilmente lui è uno dei più grandi playmaker della storia europea. E quindi si arriva in finale, dopo aver vinto una gara-5 straordinaria contro la Benetton Treviso, contro una Fortitudo molto molto tosta. Perdiamo gara-1 lì, vinciamo gara-2 bene, perdiamo gara-3 così così, poi gara-4 facciamo una buona partita, veramente una buona partita, abbiamo il tiro per chiuderla con Dante Calabria, che purtroppo esce, e poi Ruben Douglas, l’instant replay, quei momenti là. Io mi ricordo benissimo che ero in panchina, e vedo e guardo Claudio Coldebella che sta parlottando con Sasha Djordjevic e gli dice ‘è buono, non c’è dubbio, è buono’. Me lo ricorderò per sempre. Infatti dopo qualche secondo arriva la nostra sentenza di morte. Però è stato un grande viaggio. Devo dire che è stato strano anche perché poi quello che era un progetto di tre anni, che comprendeva magari anche la mia crescita, diventa un progetto immediato di Eurolega, e quindi giustamente bisogna prendere giocatori di quel livello e c’era meno spazio per me . Ho sempre detto che mi sarebbe piaciuto, visto che ero andato via da Trieste, diventare il Maldini dell’Olimpia. Purtroppo non è successo, ma sono contento di aver vissuto Milano e quella stagione. Io dovrò sempre ringraziare Milano, perché mi ha dato per la prima volta la possibilità di giocare in Eurolega in vita mia. E’ stato bellissimo. Il più alto livello europeo, dove tutti i piccoli dettagli vengono presi in considerazione, dove il livello fisico, atletico e di talento è sempre alto ovunque. Ed è stato veramente bello. Mi dispiace non essere andato avanti, però devo ringraziare Milano per questo”.

A proposito di Europa: hai vissuto un po’ tutti i livelli, dall’Eurolega all’Eurocup (con i vari nomi) fino all’evoluzione delle coppe FIBA. Come pensi siano diventate diverse nel tempo le competizioni europee?

“Ho fatto un po’ di coppe, è stato emozionante, per certi versi difficile perché gli spostamenti ti portano a dover preparare le partite in pochissimo tempo, il recupero fisico è molto più complicato. Però devo dire che, ad oggi, l’Eurolega è un campionato che, se da una parte non è meritocratico, e questo un po’ non mi piace, a me, grande tifoso di basket, da, ogni settimana, la possibilità di vedere partite di un livello pazzesco. Infatti dal martedì al venerdì non ci sono per nessuno, perché è veramente un piacere vedere queste partite. Questo è dato dal fatto che, in questo momento, l’entrata-invito ti da la possibilità di vedere tutte le squadre che in teoria sono le migliori. L’EuroCup è anche una grande coppa, molto competitiva con le squadre che possono arrivare in Eurolega, fino ad arrivare alla FIBA Europe Cup, dove ci sono squadre di livello, altre un pochino meno, ci sono alcuni posti magari un po’ difficili da raggiungere, quindi i viaggi sono un po’ lunghi, però per me è stato veramente bello aver avuto la possibilità di conoscere diverse realtà, confrontarmi con diversi tipi di gioco e culture cestistiche”.

Tu in Nazionale hai vissuto un breve periodo, quello meno felice della storia recente. Quanto è servito scendere tanto in basso per quella che poi è stata la risalita fino agli attuali livelli?

“Per me è sempre un po’ complicato rispondere. E’ sempre stato il grande sogno della mia vita, perché sono cresciuto guardando l’Italia che vince nel 1999 gli Europei in Francia, ho ammirato il bronzo di Stoccolma, ovviamente l’argento di Atene. Mi sono sempre detto che quello era il mio grande obiettivo, un Europeo, un Mondiale, confrontarsi con i più forti al mondo, nella più bella competizione al mondo, le Olimpiadi, che penso che per uno sportivo siano il punto più alto. Purtroppo non ho mai avuto la possibilità di farlo, un po’ per demerito mio in certe situazioni, ma anche per un po’ di sfortuna, ho avuto qualche infortunio. C’è stato sicuramente il momento meno felice della storia recente della Nazionale italiana. Io penso che sia spesso ciclico, le grandi annate vengono una volta ogni tanto, quindi ci vuole un certo tipo di cultura, di tradizione, di lavoro, di metodologia per avere sempre del ricambio. Adesso la nostra Nazionale è una squadra formata di grandi campioni, speriamo che riesca a ottenere risultati che riescano a rendere fieri loro, ma anche i tifosi”.

Il tuo ruolo in particolare ha vissuto, in Italia, un proliferare di ottimi giocatori, da Mannion a Moretti a Spissu. Quanto è importante che questo accada proprio in un ruolo chiave?

“Il ruolo del playmaker, o della combo guard, è importante: intanto è il primo che prende la palla sull’apertura, e quindi quando uno ha la palla in mano ovviamente è importante. E’ quello che decide i ritmi, quando spingere oppure no, se giocare per lui o per la squadra. Riuscire ad avere questo equilibrio non è facile, non è da tutti. Mannion, Moretti, Spissu ancor più degli altri due, perché ha dimostrato in Italia e in Europa la sua caratura, sono giocatori che hanno un presente con tante sfide e un ottimo futuro. Devono essere accompagnati, avere la possibilità di giocare, di sbagliare, di avere dentro quel fuoco che sbaraglia la competizione. Sicuramente il talento c’è ed è grande. Speriamo che riescano a maturare in un corpo e in una mente che possa essere il giusto equilibrio tra grande realizzatore e vero playmaker, che forse è la cosa più difficile, ma la cosa più bella per quel ruolo”.

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Credit: Ciamillo

Intervista ad opera di Federico Rossini e Luca Saugo

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