Basket
Francesca Zara, basket femminile: “Preparazione sempre più importante in questo sport. Giocare con Diana Taurasi e Sue Bird, il massimo”
Parlare di Francesca Zara vuol dire infilarsi all’interno di una delle più grandi storie della pallacanestro femminile italiana. Si tratta, infatti, di una delle sette giocatrici italiane ad aver messo piede nella WNBA, riuscendo peraltro a ritagliarsi un suo spazio ben definito all’interno delle Seattle Storm. La sua carriera, però, va ben oltre: vincitrice dell’Eurolega nel 2007 con lo Spartak Mosca, ha girato sostanzialmente tutte le più grandi società, in dati momenti della propria carriera, del nostro basket. Dopo il ritiro ha deciso di rimanere non solo nel basket, ma nello sport in generale: è attualmente, allo stesso tempo, preparatrice fisica della Nazionale italiana, proprietaria della palestra TOP a Pavia e allenatrice in A2 (girone Nord) a Castelnuovo Scrivia, un progetto recentemente sposato, come ci ha raccontato nell’intervista telefonica che segue.
Cosa c’è dietro la scelta di sposare il progetto di Castelnuovo Scrivia?
“Perché intanto è un’esperienza che mi ha sempre un po’ solleticato, quella di allenare, anche se sono preparatrice fisica, ho un centro e la mia scelta si può dire che l’ho fatta. Quando però mi hanno spiegato il progetto, una squadra che investe molto sul settore giovanile, che aveva voglia di risultati, che finora si è dimostrata solida, allora ho detto ‘perché no’. Inoltre da Broni, dove ero a fare la preparatrice, ancora le cose non erano chiare. C’è stato molto silenzio. Quindi ho detto ‘proviamo, vediamo di fare quest’esperienza’”.
Castelnuovo Scrivia è e rimane una delle realtà più importanti dell’A2: negli ultimi anni ha sempre mantenuto la zona di testa nel Girone Nord.
“Esattamente”.
Per quel che riguarda il percorso da preparatrice, com’è stato passare dall’altra parte dopo una vita passata sul campo?
“Ho sempre dato molta importanza all’aspetto fisico e alla preparazione anche da giocatrice. Ho sempre investito molto sul mio fisico anche nel periodo di off season, ho sempre cercato di affidarmi a persone competenti, quindi per me è stata una parte importante che da giocatrice mi ha permesso di giungere a certi risultati. C’è sempre stata la passione per lo sport in generale e per la preparazione. Quando ho smesso di giocare ho deciso di completare gli studi, di investire da preparatrice anche in quest’aspetto, negli ultimi due anni abbiamo aperto un centro e ho deciso di seguire la preparazione perché ritengo sia sempre più importante in tutti gli sport, e nella pallacanestro in particolare, in termini di performance, di prevenzione degli infortuni. Mi piace molto”.
In breve, l’apertura della palestra è anche un modo per continuare ad avere una vita oltre la pallacanestro nel caso in cui questa non ci fosse più.
“Assolutamente, è una scelta di vita indipendente dalla pallacanestro. L’abbiamo aperto per passione, per investire su un po’ tutti gli sport, ma anche dal punto di vista del benessere generale per le persone in termini di attività fisica. Non solo di preparazione sportiva, ma anche di attività motoria, di benessere psicofisico”.
Tra panchina e campo quanto si vede diverso il gioco?
“Da fuori è sempre tutto molto più facile che da dentro. È totalmente un altro punto di vista. Forse aver avuto quello dal campo mi può migliorare per certi aspetti a capire determinate situazioni e ad aiutare le giocatrici a comprenderle, anche se fare l’allenatore è un’altra cosa, non è semplice e quest’anno in questo senso sarà una sfida per me. Ci dev’essere programmazione, bisogna essere in grado di costruire quella che pensi sia la tua pallacanestro, c’è bisogno di tempo. Per me è una sfida in questo senso, quest’anno, se riesco a trasmettere alle ragazze la mia pallacanestro, che poi è quella che amavo giocare”.
A proposito di pallacanestro, di storie ne hai vissute tante e ci vorrebbe un’ora per parlare di ciascuna di esse separatamente. Ce n’è però una che colpisce molto, che è quella di Alcamo, più breve delle altre, ma molto intensa. Sono giunti alcuni tra i più grandi nomi che si siano mai visti in Italia, come Cynthia Cooper, Lisa Leslie.
“Nella mia carriera è stata una parentesi piccola, ma anche perché ero molto giovane. Avevo 18 anni. Come nomi sì, erano importanti. Lisa Leslie allora non era quella di oggi, era appena uscita dal college, ma era una squadra, per quella realtà, con nomi molto importanti”.
Ed erano gli anni successivi alle Olimpiadi di Atlanta, in cui gli americani hanno “scoperto” il basket femminile e da lì hanno ideato la WNBA.
“Verissimo”.
Poi c’è stata la grande parentesi dell’ultima, grande Comense a cavallo dei due millenni, nel passaggio da Viviana Ballabio a Raffaella Masciadri.
“Quando penso alla Comense mi viene la pelle d’oca. È stata una realtà bellissima, solida, con dei nomi sia di giocatrici italiane che straniere importanti, che ha raggiunto dei risultati incredibili. Far parte della Comense significava far parte di un’armata, di qualcosa che aveva determinate regole, una determinata mentalità. C’era un senso di appartenenza che tutte le giocatrici che sono passate alla Comense, secondo me, tengono stretto con loro e si portano dietro. Sono stata lì 8 anni, gli anni della mia crescita, bellissima. Mi è dispiaciuto tantissimo quando è finito tutto e ha chiuso. La Comense però era ed è la grande Comense, per la storia che ha fatto, per la mentalità che trasmetteva alle giocatrici”.
Anche perché ci sono dei luoghi, nella pallacanestro, che la storia te la trasmettono. Possono essere la Schio attuale, il Geas.
“Esatto, la Comense ha segnato la storia, come Sesto e come Schio oggi”.
Sempre a proposito di piazze difficili, è difficile riuscire a costruire qualcosa in una città come Napoli, eppure c’è stato un periodo in cui basket maschile e femminile andavano contemporaneamente forte. Ed erano proprio gli anni 2003-2006.
“Sì, bellissimo. È un peccato che sia durato molto poco, però è stato bellissimo. Il maschile andava bene, il femminile anche, fu organizzata la FIBA Cup lì a Napoli, sono stati anni bellissimi. Peccato che, per mille motivi, non si possa continuare, anche perché la realtà di Napoli è bellissima, con i tifosi e un calore pazzesco. Giocare e vincere la FIBA Cup davanti a loro è stata un’emozione grandissima, tra l’altro con una squadra super, un gruppo fantastico. C’erano Vicky Bullett, Mery Andrade, Nicole Antibe, un gruppo super. È un peccato che non si trovi il modo di far continuare queste realtà”.
Lo è anche perché prima il Vomero, poi la Dike hanno fatto una fine brutta. Napoli meriterebbe di meglio. Anche per impianti, perché non stiamo a scoprire oggi le realtà del PalaArgento e, per certi versi, del PalaVesuvio.
“Infatti. Lì sono cose più grandi di me e di te”.
Storie estere: oltre alla WNBA ci sono stati Spartak Mosca e Valenciennes. Che mondi sono stati, ai tempi, quello russo e quello francese?
“Se parliamo di realtà nel senso di esperienza di vita, la Russia è stata bellissima, ma non facile, per il clima, per la vita quotidiana, anche se giocando l’Eurolega eravamo spessissimo in viaggio e poi anche il campionato russo si giocava su distanze abbastanza lunghe, stando su due continenti. Invece la squadra è stata super, praticamente di All Star, perché giocare insieme a Diana Taurasi, Sue Bird, Lauren Jackson, Tina Thompson, tutte nella stessa squadra, capisci da te (ride). Come esperienza è stata il massimo. A Valenciennes benissimo, lì la sensazione è di un campionato e di una realtà sociale organizzati bene, perché lì a tutti gli effetti sei professionista, quindi anche la sensazione, a livello di tutele, è di un campionato organizzato bene e solido. Una bella esperienza anche lì. La squadra non aveva gli stessi nomi, ma è stato bellissimo anche giocare nel campionato francese“.
Discorso delle tutele che, alla fine, ritorna moltissimo oggi, dato che stiamo come stiamo.
“Siamo ancora dilettanti, qualche traguardo l’abbiamo raggiunto, ma siamo ancora lontani anni luce”.
C’è una frase che Kobe Bryant disse pochi giorni prima dell’incidente mortale. Affermò che Diana Taurasi, Elena Delle Donne e Maya Moore potrebbero giocare tranquillamente in NBA. Quanto può esserci di reale in quello che diceva?
“Dal punto di vista tecnico e del talento senza ombra di dubbio, poi ovviamente bisogna pagare dazio dal punto di vista fisico e su quello non si può fare molto, perché ovviamente la forza fisica degli atleti NBA non è compatibile con quella di un campionato WNBA, ma a livello tecnico e di talento senza ombra di dubbio”.
Con lo Spartak Mosca hai vinto l’Eurolega: cos’è stato per te?
“Stupendo. Capisci che trovare minuti in una squadra con un roster di quel tipo non era assolutamente semplice, e invece ho avuto la fortuna di ricavarmi il mio posticino, il mio minutaggio e sono riuscita a vincerla giocando anche dei minuti. Per me è stata una soddisfazione ancora più grande vincere l’Eurolega in Russia, con quella squadra, rimarrà sempre con me. Ho alcune foto che ogni tanto vado a rivedere perché ad oggi mi sembra impossibile averlo fatto, e di averlo fatto con quelle compagne di squadra”.
Passo indietro nel temo: 2005, WNBA, Seattle Storm e le scarpe dimenticate.
“Dimenticate non perché vivo tra le nuvole, ma perché ero talmente agitata che ero in uno stato confusionale (ride). Lì esperienza top, meravigliosa. Andare lì al training camp, il giorno in cui eravamo radunate lì a centrocampo l’allenatrice dice ‘ok, questa è la squadra’, non ci volevo credere. Il training camp non era stato facile perché comunque lì, da europea, non è come quando vengono qui loro, che ti tutelano. Lì sei abbandonata a te stessa, e o ti svegli e t’arrangi, dimostrando quello che vali contro quelle che si stanno giocando quel posto, oppure ti mandano a casa. Per me è stata bellissima l’esperienza di giocare in WNBA, tutto il contorno è meraviglioso, ma anche il fatto di essere riuscita a conquistare un posto in quella squadra. Nella mia carriera, dal punto di vista fisico e tecnico ho avuto l’opportunità di migliorare tantissimo. Quando poi tornai e giocai qui ero proprio in una forma fisica pazzesca. Per me rappresenta il sogno realizzato”.
Anche perché non è da sottovalutare il fatto che la WNBA abbia un suo calendario particolare: si gioca in estate, e non nella stagione normale. Il che porta tantissime a giocare in Europa.
“Esatto, si gioca in estate per dare a tutte la possibilità di venire a giocare in Europa. Ci tengo ad aggiungere che sono andata lì in un ruolo che non è poi semplice, perché da playmaker gestire certi nomi non è stato facile, in un’altra lingua. Quindi per me è un motivo d’orgoglio anche per questo. Andare a fare il playmaker di Lauren Jackson, Sue Bird non è stato facile. Infatti mi prendevano in giro perché all’inizio non chiamavo correttamente gli schemi in inglese (ride), però alla fine ce l’ho fatta”.
Ci sono state due altre storie da ricordare: una è quella di Parma con i continui ritorni, l’altra è quella della Reyer Venezia, ma non quella attuale e nemmeno quella di fine Anni 2000, ma quella che stava gettando di nuovo le basi per il futuro.
“Anche Parma ce l’ho nel cuore, anche perché ho coltivato molte amicizie lì, mi hanno sempre trattata bene e sono stata molto bene. Quindi la ricordo veramente con piacere. Ho giocato belle stagioni, la società ha fatto purtroppo la fine che ha fatto, ma anche di Parma si può dire che abbia fatto la storia. Alla Reyer solo una stagione, stava cercando di consolidare l’A1. L’ho vissuta con meno attaccamento, pur essendo stata una bella esperienza. Però dal punto di vista organizzativo è un’azienda pazzesca, sono super organizzati, con il fatto che riescono a portare avanti sia il maschile che il femminile. Ed è solo da ammirare”.
Cosa che adesso sta iniziando a succedere un po’ di più.
“Per la femminile avere società maschili che investano sarebbe meglio e un po’ più facile, e forse si vedrebbero meno realtà sparire nel giro di due anni, come accade troppo spesso. Poi creerebbe un po’ di interesse in più”.
Anche se quell’interesse c’era già negli Anni ’90, sono noti i racconti per cui veniva gente della maschile a vederla e non poco spesso, anche gente di grido.
“Il livello, senza nulla togliere alla pallacanestro di oggi, era un po’ più alto secondo me. Le competizioni erano più di alto livello e c’era il richiamo anche per qualche spettatore della maschile”.
Si dice sempre che siano due mondi così separati, ma per rendere l’idea del fatto che non lo sono poi così tanto bastava vedere, alle Olimpiadi, Carmelo Anthony che andava a vedere le donne.
“In America c’è proprio una cultura sportiva diversa. C’è molto più interesse anche dei giocatori verso la pallacanestro femminile, e molto più rispetto di quello che è il mondo dello sport femminile. Secondo me lo vivono fin dalla high school e dal college, quindi crescono con questa cultura sportiva diversa dalla nostra”.
Capitolo Nazionale: ha tante sfaccettature, perché nasce successivamente all’argento europeo, prosegue negli anni più difficili e continua con l’Europeo di Chieti.
“Sì, esatto. Che è stato il mio ultimo. Ho raggiunto molti più risultati a livello giovanile, come accade anche oggi, ma sono stati Europei dove, nelle squadre in cui ho giocato, non abbiamo raggiunto grandi risultati, però per me è sempre stato motivo di orgoglio giocarli. La maglia della Nazionale è emozionante, e se non lo fosse sarebbe problematico. Sono state esperienze super che mi hanno dato la possibilità di farmi vedere, e se le proposte mi sono arrivate poi dai club internazionali, è grazie anche all’attività con la Nazionale”.
Quegli Europei di Chieti sono stati forse fondamentali per rimettere l’Italia all’interno di un livello che si stava un po’ dimenticando, considerato che per anni non ci si riusciva a qualificare.
“In generale penso che più si riesce a dare continuità al lavoro in Nazionale e più risultati arrivano. A Chieti, al di là del fatto che abbiamo finito alla seconda fase, ci ha messo in una luce agli occhi dell’Europa sicuramente positiva”.
C’è una partita che ti è più rimasta in mente delle altre?
“Difficile. Ed è facile che se mi richiami domani te ne dico un’altra, perché tutte le partite sono emozionanti. Forse la finale di FIBA Cup a Napoli. A Como ho vinto tanti scudetti, è stato bellissimo e un percorso di crescita pazzesco. Quello di Napoli è il primo risultato che ho sentito più mio, vissuto in prima persona. Però ne ho giocate talmente tante. Un’altra, a livello di Nazionali juniores, l’oro europeo è stato un altro grande risultato”.
Nel basket italiano femminile, da quando la Rai non trasmette più, ci sono state Sky e Sportitalia, la Nazionale su Sky, ma di questi tempi la situazione dovrebbe migliorare.
“Sì. Soprattutto quando bisogna pagare per vedere le partite della femminile”.
E la diffusione delle partite in chiaro potrebbe ritornare su qualche canale un po’ più diffuso.
“Qualche canale del settore, anche lì qualche operazione di marketing potrebbe starci, anche se non è il mio settore e non mi permetto di dire niente. Però dovrebbe esserci più visibilità per attirare sponsor in più o più interesse”.
Cosa pensi delle mascherine sportive che aveva commissionato la FIP al Politecnico di Torino e di cui poi si è saputo ben poco?
“È impossibile fare attività fisica indossando la mascherina. L’ho provato. Se parlano di mascherina indossata dei momenti di gioco non è fattibile, c’è il contatto del sudore. Indossare la mascherina non credo sia poi così efficace”.
A quel punto meglio i tamponi prima.
“Assolutamente, uno screening prima, tamponi, sierologici e continuare a monitorare la vita sociale dei giocatori. Più che altro controllare, continuamente, costantemente, credo sia la cosa migliore”.
Molte annate delle giovanili attuali adesso giocano in Serie A1, il che non fa male. Si può sperare che qualche fortuna cominci a girare dalla parte giusta?
“È vero che molti risultati sono arrivati dal settore giovanile, però non capisco come mai non si trasferiscano alla Nazionale senior. Scherzo, però abbiamo tante giocatrici di talento e che ci siano grandi risultati fa sperare. Però poi bisogna dare continuità al giocato nelle squadre di appartenenza, nei club. Queste ragazze bisognerebbe farle poi diventare protagoniste anche nei club, per qualcuna è così, per qualcun’altra meno. Fare delle scelte in modo tale da affrontare delle manifestazioni internazionali con la senior”.
Come Giulia Natali che è andata a Venezia.
“Sicuramente andare in un club come Venezia, o anche solo allenarsi con giocatrici di alto livello, fa crescere, ma non credo sia sufficiente. Bisogna investire del tempo, continuare a far lavorare queste giocatrici e farle crescere costantemente. Non è che se vanno in un club di alto livello automaticamente crescono, anche perché se non viene concesso il minutaggio, non basta questo a far crescere. Poi credo che sia sempre più importante che le giocatrici, soprattutto le più giovani, capiscano che devono investire su loro stesse. Adesso che c’è stato questo periodo di off season spero abbiano trovato il modo di lavorare, perché è penalizzante rimanere fermi tutti questi mesi, ma può essere anche una risorsa per poter lavorare individualmente, sulle proprie lacune, e poter migliorare”.
Oggi molte fra l’altro stanno iniziando a esplorare l’ambito NCAA.
“Sì. Benissimo. Ottimo. Però questo discorso rimane”.
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In fondo anche quello è concetto di investimento su se stesse.
“Esatto. Anche come esperienza di vita penso serva tantissimo andare fuori, esplorare altre realtà e non rimanere sempre e solo nel proprio orticello dove tutto è bello. A volte serve mettersi in gioco, accettare la sfida, affrontare situazioni difficili e scelte di quel tipo fanno crescere sia l’atleta che la persona”.
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Credit: Ciamillo