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Ciclismo, i segreti della Gran Bretagna. Da Wiggins a Froome, ora Geoghegan Hart, Carthy e Pidcock. Un dominio nelle corse a tappe

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Tra il 1903, anno di nascita del Tour de France, e il 2010, la Gran Bretagna aveva conquistato appena tre podi nei grandi giri. Tutti quanti, peraltro, con Robert Millar. Nazioni come la vicina Irlanda, che Giro, Tour e Vuelta li aveva vinti tutti e tre nel secolo scorso, e la Svezia, oggi totalmente sparita dalla mappa del mondo ciclistico, vantavano uno storico nelle gare di tre settimane decisamente migliore. E badate bene, il ciclismo nel Regno Unito è uno sport diffuso da sempre. Già sul finire del 1800 erano una delle Nazioni faro su pista e per tutto il 1900, in questo segmento del pedale, hanno sfornato grandi campioni come il velocista Reginald Harris e l’inseguitore Hugh Porter.

Su strada, inoltre, hanno avuto alcuni grandi interpreti delle corse di un giorno. Citiamo Tom Simpson, fuoriclasse tragico che vinse Giro delle Fiandre, Mondiale, Sanremo e Lombardia, e Barry Hoban, sul podio alla Liegi e alla Roubaix e trionfatore della Gand-Wevelgem del 1974. I grandi giri, però, sono sempre stati il tallone d’Achille del Regno Unito. Le cose, tuttavia, sono cambiate con l’avvento di Dave Brailsford come performance director di British Cycling.

L’attuale team manager della Ineos, nel 1997, ha cominciato un lavoro certosino, inizialmente sul settore tanto caro al ciclismo inglese, la pista, il quale, però, col tempo si è esteso anche alla strada. Cinque corridori britannici, dal 2012 a oggi, hanno vinto dei grandi giri. Quattro di loro, vale a dire Bradley Wiggins, Geraint Thomas, Simon Yates e proprio Tao Geoghegan Hart, fresco re del Giro d’Italia 2020, sono cresciuti nei velodromi. Il primo è stato addirittura uno dei più grandi inseguitori di tutti i tempi, il secondo ha vinto titoli iridati e olimpici col quartetto e il terzo a ventuno anni conquistò un Mondiale nella corsa a punti.

Poi c’è l’eccezione, che peraltro è colui che più di tutti ha reso grande British Cycling, vale a dire Chris Froome. La dimostrazione vivente che il talento può sbucare anche laddove non vi è un progetto reale. Froome, infatti, è britannico solo d’adozione, dato che è nato e cresciuto in Africa. Fino al 2007 aveva difeso i colori del Kenya e Brailsford, dopo il primo biennio nell’allora Team Sky, rischiò di farselo sfuggire in seguito all’esplosione alla Vuelta 2011, dato che ancora non gli aveva rinnovato il contratto.

Gli ultimi dieci anni, grazie ad un lavoro eccellente e, come abbiamo visto, anche ad un po’ di fortuna, sono stati l’età dell’oro del ciclismo britannico nei grandi giri. E il futuro come sarà? Geoghegan Hart ha tutta una carriera davanti e, oltretutto, tra le fila dei sudditi di Sua Maestà c’è anche Hugh Carthy, che non ha il talento del vincitore del Giro, ma grazie alla sua solidità ed alla maggior freschezza rispetto ai rivali potrebbe giocarsi la Vuelta.

Inoltre, dall’anno prossimo sbarcherà nel mondo dei professionisti anche l’enfant prodige Tom Pidcock. Campione del Mondo U23 di mountain bike specialità cross country, vicecampione del Mondo di ciclocross categoria Elite, battuto solo dall’alieno Mathieu van der Poel in quel di Dubendorf, ma non solo. Appena un mese fa, infatti, ha letteralmente dominato il Giro d’Italia U23, dimostrando di andare fortissimo su salite di ogni tipo, incluso un mostro come il Mortirolo.

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luca.saugo@oasport.it

Twitter: @LucaSaugo

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Foto: Lapresse

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