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Basket, Giacomo Devecchi: “Il calore e l’affetto di Sassari sono unici. Belinelli? Cercheremo di rovinargli la festa del ritorno in Italia”
Nell’attuale pallacanestro italiana, c’è un uomo che ricopre in pieno il significato della bandiera di un club. Si tratta di Giacomo Devecchi, per tutti Jack, capitano della Dinamo Sassari, nella quale milita ormai dal 2006, un’epoca in cui esisteva ancora il tiro da tre punti dai 6.25 invece che dagli attuali 6.75, introdotti nella stagione 2010-2011. La parabola del Banco di Sardegna l’ha vissuta tutta, nella sua fase ascendente: dalla salvezza nell’allora Legadue alla promozione, fino ai grandi successi e al consolidamento del club tra i grandi del basket italiano. L’abbiamo raggiunto per un’intervista in cui ha toccato con mano passato, presente e futuro della Dinamo su più fronti.
14 anni a Sassari significano un legame infinito. Come mai ti sei legato così tanto a questa città?
“Io sono arrivato nel 2006, ad agosto. Sicuramente mai avrei immaginato di trattenermi così tanto. Fra l’altro il mio primo contratto firmato con la Dinamo era un prestito da Montegranaro, quindi nella mia mente allora c’era il fatto di rientrare in un futuro alla Sutor. In realtà, dopo, sono stato veramente bene e sono stato rapito dai tifosi di Sassari, ma anche dall’affetto dei sardi in generale, ho avuto la fortuna di crescere insieme a un progetto, si alzava l’asticella e io, per fortuna, riuscivo a far parte del progetto. Dopo sono riuscito a mettere nella mia bacheca trofei e traguardi importanti. Mai l’avrei pensato nell’agosto del 2006, e invece sono strafelice e contento. Ovviamente ormai Sassari è diventata la mia prima casa, mi ha cambiato completamente la vita. Sono molto contento perché i risultati sportivi aiutano ad addolcire la carriera di un giocatore, però quello che mi ha sempre colpito e lasciato un segno importante, mi ha lasciato a bocca aperta, è il rapporto con la tifoseria della Dinamo e l’apporto dei sardi, il calore e l’affetto che riesce a darti questa terra, che sono sicuramente unici“.
Parlavi di Montegranaro: quell’anno, fra l’altro, la Sutor era anche stata promossa in A.
“Esatto. Dopo la promozione non mi garantivano molto spazio in Serie A, quindi decisi di rimanere in A2 e provare a farmi ancora un po’ le ossa e a crescere di esperienza, perché comunque avevo solo 21 anni e sentivo proprio la necessità di giocare minuti importanti. Dopo quattro stagioni in A2 con la Dinamo, dove sono cresciuto molto, grazie anche a Meo Sacchetti, che mi ha dato la possibilità di rimanere in Serie A, sono riuscito a giocarmi le mie carte“.
In tutti questi anni di Dinamo, com’è cambiato il tuo approccio alle gare passando da un ruolo in cui avevi molti minuti a un altro differente rispetto al passato?
“E’ una mutazione che è normale, naturale. Tutti quanti vorremmo stare in campo 40 minuti sia a 18 che a 40 anni. E’ ovvio che poi, secondo me, all’interno di una squadra ci siano gerarchie ben precise. Secondo me sta anche all’intelligenza del giocatore capire il suo ruolo all’interno della squadra, dello spogliatoio e della società. Ovviamente non ho più le gambe di quando avevo vent’anni. Il ruolo che mi ha chiesto il Poz è di trasmettere i valori veri di questo club e cercare di dare un contributo quando vengo chiamato in causa. Se prima riuscivo a trovare più spazio in campo, adesso magari un po’ meno, però ho un ruolo più importante dentro lo spogliatoio, che non è secondario, anzi. Spesso lo si sottovaluta, e non è facile trasmettere i veri valori del club e i veri pensieri di pallacanestro, e devi essere un tutt’uno con l’allenatore. Da questo punto di vista mi trovo benissimo anche col Poz, che ha molta fiducia in me. Questo mi gratifica e responsabilizza molto, perché è compito mio trasmettere ai giocatori quello che vuol dire indossare una maglia come quella della Dinamo“.
A proposito di partite in cui ancora entri e giochi minuti, quest’anno la Dinamo sta vivendo una stagione con forse più infortuni che negli ultimi tre anni messi insieme. Hai giocato 35 minuti con 14 punti in quella con Tenerife, in cui si è fatto male anche Pusica, ma nella quale il secondo tempo è stato forse tra i momenti più incredibili della storia del club. Per te com’è stato giocare e vivere una partita del genere?
“Per me è stato bellissimo e anche ancora più particolare, perché negli ultimi anni il mio minutaggio era sceso molto. Di sicuro non mi aspettavo di giocare così tanti minuti. Si trattava di una partita dove eravamo in estrema emergenza tra infortuni e qualche positività, ma quando vai dentro, quando riesci a trovare un canestro dopo un altro, è un po’ una responsabilità. Te la senti addosso, ma quando riesci a rompere il ghiaccio si va. In queste dinamiche di estrema difficoltà è sempre stata una caratteristica della Dinamo riuscire a trovare le energie e la forza per affrontarla e andare oltre, e buttare cuore e gambe oltre l’ostacolo. Siamo riusciti tutti quanti, nonostante le rotazioni ridottissime, a fare un’ottima prestazione ribaltando completamente i pronostici della gara di Champions. Tenerife arrivava da un ottimo percorso sia in Liga ACB che in Champions League, quindi siamo stati molto contenti. Sono contento di aver tenuto il campo molto bene. Non era facile, perché è vero che mi alleno costantemente, ma quando si scende in campo per le competizioni e le partite importanti è tutta un’altra cosa. La cosa importante era portare a casa quella partita, dare un bel messaggio al girone. Eravamo in difficoltà, l’abbiamo superata tutti insieme e questa è una bella cosa“.
Nella tua memoria ormai storica della Dinamo, questa partita, nel novero di quelle a metà tra lo storico e il mitico, dove va a inserirsi?
“Sicuramente è una partita importante. Ovviamente, per me l’indimenticabile rimarrà sempre gara7 di finale scudetto a Reggio Emilia, che si è poi conclusa con una gioia immensa. Ma anche la prima vittoria in una Coppa europea, dove ho avuto l’onore di alzare il primo trofeo europeo (la FIBA Europe Cup, N.d.R.) della Dinamo da capitano, rimarrà sempre una partita importante. Quella contro Tenerife è una partita di spessore, di livello europeo, e sicuramente tra le più importanti. Io ricordo sempre con piacere quando abbiamo giocato contro il Real Madrid in Eurolega, ma lì con risultato purtroppo non positivo per noi. Questa è stata una bella vittoria, perché eravamo veramente in difficoltà e a rotazioni ridotte e abbiamo fatto davvero un’impresa. E’ una delle più belle vittorie in maglia Dinamo“.
Hai parlato degli anni di Eurolega, che furono particolarmente avari perché ne venne fuori solo una vittoria in due stagioni.
“Contro Kaunas in casa“.
E da lì partì tutto un dibattito sul discorso della progettualità ad alto livello, in termini di Eurolega. Però è vero che anche la Dinamo, di suo, l’aveva fatto, quel tipo di percorso strutturato nel tempo con un progetto che puntava verso l’alto.
“Io dico sempre che la forza di Sardara è questa di avere l’occhio molto lungo, nel senso che è sempre molto bravo a guardare avanti, e mai al presente, ad avere progettualità importanti alzando sempre di più l’asticella. Quella era un’occasione molto importante che ci era capitata, di poter competere con corazzate europee. Sicuramente il livello di pallacanestro sia tecnico che atletico era superiore, però noi eravamo la classica provinciale, un po’ quella che in teoria doveva essere la squadra materasso, come purtroppo si è poi rivelata. Alla fine, però, era un palcoscenico importantissimo, che la Dinamo ha giustamente sfruttato al meglio. Abbiamo avuto il piacere di giocare la competizione più importante a livello europeo. Effettivamente il gap con le altre squadre era veramente importante, proprio a livello di budget, quindi alla fine abbiamo fatto tanto, ci abbiamo messo tanto e ci hanno insegnato tanto, nel senso che poi da lì abbiamo fatto il percorso sia in EuroCup che in Champions League negli anni successivi, siamo riusciti ad alzare una coppa a livello europeo come quella della FIBA Europe Cup, e quelle sono esperienze che ti fanno crescere a livello di squadra e i club, con i risultati che si possono vedere anche più avanti“.
Parlando di Coppe europee: c’è il dibattito EuroCup-Champions League in termini di quale sia la più forte delle due. C’è generale accordo su una leggera maggior forza dell’EuroCup, ma il livello della Champions League non è tanto più in basso.
“No, assolutamente. E’ chiaro che la Champions League rimane, comunque sia, una coppa abbastanza giovane, nel senso che sta provando a lanciarsi da 3-4 anni. Prima il palcoscenico era dominato esclusivamente da Eurolega ed EuroCup. Il blasone e prestigio di queste competizioni rimane ancora un po’ superiore, però il fatto che squadre di molte leghe europee importanti come Spagna, Russia, Grecia giochino in competizioni come la Champions League. Noi abbiamo affrontato Tenerife che in ACB era seconda solo al Barcellona quando la incontrammo. Questo dimostra che le squadre che giocano questa competizione sono di alto livello. E’ ovvio che c’è una bella diatriba tra le due competizioni, ma è anche vero che questo ha dimostrato che, alla fine, sia le squadre di EuroCup (non consideriamo quelle di Eurolega perché sono su un altro pianeta) e di Champions League ormai si equivalgono. Questa differenza ormai è sempre più limata, anno dopo anno, e lo dimostrano tante cose. Posso farti anche l’esempio di Brindisi, che in campionato è seconda e si gioca la Champions League, per dire che il livello è, per fare un gioco di parole, livellato, e le squadre giocano alla pari“.
Sabato pomeriggio apri il cellulare e leggi ‘Marco Belinelli alla Virtus Bologna’. La Virtus è la prossima avversaria di Sassari. I primi tre pensieri che hai fatto?
“Io sono molto contento perché il movimento della pallacanestro credo abbia preso un brutto colpo con il Covid, nel senso che la sospensione che c’è stata la scorsa stagione non ha fatto sicuramente bene. Il fatto che i campionati dalla Serie C in giù, giovanili comprese, abbiano avuto difficoltà a ripartire o non siano proprio riuscite a farlo, credo abbia fatto male alla pallacanestro italiana. Questo ritorno in Italia di un campione come Marco, che ha vinto anche a livello oltreoceano, NBA, è qualcosa di significativo. Questo è stato il mio primo pensiero, ed era di gioia, di contentezza per la pallacanestro. Il secondo è stato “ah, cazzarola, il prossimo incontro è contro di loro”. Sicuramente vorrà dimostrare di essere il Belinelli che aveva dimostrato in NBA e che aveva già fatto vedere in Italia di poter giocare ad altissimo livello, vorrà far capire di fare ancora la differenza. Questi sono stati i primi pensieri, però secondo me noi abbiamo dimostrato, soprattutto negli anni, di poter giocare con tutti. Sono sicuro che domenica faremo la nostra partita e cercheremo di rovinare questa festa del ritorno di Belinelli in italia. Questo è poco ma sicuro”.
E del resto lui stesso ha detto di aspettare a vederlo in forma perché è fermo dalla fine della bolla NBA. A tal proposito, com’è stato doverti fermare più a lungo del solito, al netto del fatto che in altri Paesi sono riusciti a finire i campionati?
“E’ stato un duro colpo per la pallacanestro. A me è dispiaciuto veramente tanto. Qui a Sassari il palazzetto è sempre strapieno di tifosi, che io incrocio tuttora quando vado a fare la spesa. Ovviamente sono tutti amareggiati, non vedono l’ora di poter tornare a vedere le partite. Questo è stato un duro colpo per la pallacanestro italiana. Sono contento che giocatori del calibro di Marco possano tornare e puntare i riflettori sulla pallacanestro, perché la gente magari non è più così coinvolta e abituata alle partite, invece così magari si riesce a ripuntare un po’ i riflettori e riportare anche la curiosità e la voglia di vedere le partite in televisione“.
Fra l’altro al PalaSerradimigni c’è stata un’idea molto interessante che è quella dei cartonati.
“Noi siamo una società molto attiva, come dicevo prima, e sempre proiettata al futuro, che cerca sempre di portare idee innovative. Quella è stata una bellissima idea“.
In tutti questi anni a Sassari c’è un aneddoto che ti ricordi più di altri?
“Ce n’è uno che mi piace raccontare, perché è stato il punto di svolta della mia carriera. Fu nella stagione 2009-2010, l’ultima nostra in A2, che ci portò alla promozione in A. Avevo avuto, l’estate precedente, la possibilità di andarmene da Sassari, perché avevo ricevuto offerte da altre squadre di A2. Il mio procuratore mi convinse a rimanere a Sassari, perché avevamo Meo Sacchetti, il progetto era ambizioso e avrei avuto un ruolo importante partendo in quintetto. Mi convinse a rimanere a Sassari, poi ci fu la promozione e via via l’escalation fra playoff, Coppa Italia, triplete. E’ stato un punto chiave della mia carriera, quel 2009 in cui decisi di rimanere a Sassari e continuare il mio percorso con la Dinamo“.
Tu che hai vissuto e vivi sia Meo Sacchetti che Pozzecco, quanto sono uguali e diversi come personaggi?
“Si assomigliano molto. Anche il Poz riconosce di aver capito quanto conti a livello umano, quando è stato allenato a suo tempo da Meo a Capo d’Orlando, avere la fiducia dell’allenatore. Lui cerca di metterlo in pratica quotidianamente, di avere un rapporto intenso e importante con i propri giocatori, lasciandoli liberi di esprimersi in campo e di dare il 100%, togliendo qualsiasi tipo di pressione e di regola fondamentale che di solito c’è nel riconoscere i ruoli tra allenatore e giocatori. Il Poz lo mette in pratica molto bene, sono due ex giocatori entrambi, e dico sempre che gli allenatori che hanno giocato e vissuto la pallacanestro ad alto livello in alcune situazioni peccano nella parte tecnica, ma riescono a vivere e a leggere alcune situazioni in campo più in fretta di allenatori che hanno fatto solo ed esclusivamente quel percorso. Poi dal punto di vista umano c’è quel qualcosa che fa la differenza. Lo ha dimostrato Meo negli anni e lo sta dimostrando il Poz ancora adesso, ma nello sport di squadra in generale si sta dimostrando di andare verso questa direzione, nel senso che gli ex giocatori che hanno rapporti importanti con lo spogliatoio riescono a ottenere in cambio ottime prestazioni sul campo a livello sportivo. Questo è secondo me il segreto di tutti questi successi sia di Meo che del Poz“.
Ex giocatori in campo, ma anche in testa alle Federazioni. Anni fa abbiamo avuto Dino Meneghin presidente della FIP, in Spagna c’è Garbajosa, in Russia c’è Kirilenko. Si da tanto la preferenza agli ex giocatori perché sanno cosa c’è in campo.
“Questo discorso si può fare anche nel calcio, vedi Zidane al Real Madrid. Ci sono casi su casi di allenatori che stan facendo molto bene a livello europeo, ed erano tutti ex giocatori, o dirigenti che sono riusciti a fare ottime carriere perché magari riescono a leggere un po’ prima queste dinamiche all’interno del club“.
A Sassari quanto si sente l’orgoglio della gente di vedere uno di loro, Marco Spissu, prima diventare una colonna insostituibile del Banco e anche della Nazionale, come ha dimostrato mettendo i tiri decisivi con la Russia?
“Marco nelle ultime due stagioni è cresciuto tantissimo, io sono orgogliosissimo e fiero di averlo come compagno di squadra, di parlarci spesso e anche negli anni scorsi di dargli qualche consiglio per migliorare. Lui è un ragazzo super, ha sempre voglia di migliorare, di crescere. Vuole alzare l’asticella, partita dopo partita. Ha la faccia tosta, il carattere giusto per poter affrontare queste partite, mettere tiri importanti. Il segreto nelle ultime stagioni è la costanza, risponde presente quando viene chiamato in causa e lo sta facendo anche a livello internazionale con la maglia dell’Italia. Io non avevo dubbi, lo conosco fin da bambino, so che è un ragazzo che è determinato, ce la mette tutta, è appassionato e vive di pallacanestro. Sono veramente contento dei successi che sta avendo a Sassari, perché non c’è cosa migliore di un sassarese che rappresenti la squadra, ed è una cosa che va oltre tutto. Sono convinto che continuerà a crescere così e credo che farà passi importanti sia per la Dinamo che per la maglia azzurra“.
Questo inizio di campionato è stato pesantemente condizionato dagli infortuni. Com’è dover gestire questo problema e bilanciare le situazioni in corso d’opera?
“Questa stagione è ancora più anomala della scorsa, che bene o male è stata interrotta a febbraio-marzo, ma le squadre erano al completo. Quest’anno invece è una situazione assurda, nel senso che bisogna essere sempre pronti perché c’è anche un legame tra positività e infortuni. Questo nel senso che i giocatori con positività o con qualche contatto con positivi si devono fermare 1-2 settimane, e quindi la condizione fisica è difficile da mantenere alta, e dopo bisogna essere performanti. Dopo questo si traduce in infortuni importanti, pesanti, quindi è una stagione anomala. E’ difficile per tutti. Ovviamente chi ha roster lunghi e attrezzati come Milano può sopperire meglio a queste difficoltà. Un club come il nostro dev’esser bravo soprattutto dal punto di vista della preparazione fisica e atletica. Bisogna essere pronti e gestire i giocatori in spogliatoio, gli allenamenti devono essere differenti. Anche il Poz con il suo staff in questo è bravo, è riuscito a modificare il suo modo di approcciarsi agli allenamenti. Anche queste finestre per le nazionali non aiutano, perché hai 2-3 giocatori che vanno in Nazionale e quindi non hanno possibilità di fermarsi e recuperare, hai altri 7-8 giocatori che invece rimangono in città e devono mantenere la condizione fisica per due settimane senza giocare. Non è facile. L’unica cosa è esser bravi e trovare l’equilibrio giusto, facendo un ottimo lavoro tra parte tecnica e atletica. Questo è l’unico segreto: chi riuscirà a trovare l’equilibrio migliore riuscirà anche a essere più costante nella stagione“.
Vale la pena citare il caso di Ibrahima Chan, di Reggio Emilia, che dopo esser stato positivo si è ritrovato anche senza idoneità agonistica. C’è un’onda lunga.
“Ma anche Venezia, Cremona e appunto Reggio Emilia hanno avuto blocchi importanti. Adesso pian piano dovranno ritrovare la forma fisica migliore per affrontare un campionato di alto livello come quello italiano“.
Quest’anno la Dinamo ha aggiunto anche la squadra femminile in Serie A1. In città com’è stata accolta la cosa? All’interno della squadra questo come viene vissuto?
“E’ uno step importante. La direzione e la progettualità di tanti club sportivi negli ultimi anni è stata di ampliare e dare un risvolto al femminile e non solo al maschile allo sport. In città era stata presa benissimo, c’era molto entusiasmo. Peccato che anche loro devono giocare a porte chiuse, e non riescono a percepire quello che vuol dire giocare a Sassari. Questo mi dispiace molto, perché conosco tanta gente, sono ben integrato in città e mi arrivano un po’ gli input, e c’era veramente entusiasmo. E’ un progetto interessante, il fatto di poter avere una squadra femminile, di poter trasmettere qualcosa di importante ti da un bel segnale a livello nazionale e non solo. E’ qualcosa che bisogna sfruttare, bisogna cercare di fare un bel progetto. Pian piano sicuramente, con tutte le difficoltà del caso, si riuscirà pian piano a far venire fuori un bellissimo progetto a lungo termine con traguardi importanti da raggiungere. Questa è la prima stagione, bisogna guardarsi attorno per capire di cosa si tratta perché per la nostra società è un mondo completamente nuovo, però pian piano il progetto crescerà e anche i risultati arriveranno“.
Quali sono stati i tre giocatori più forti, esclusa questa stagione, con cui ti sei trovato a dividere il campo?
“Ricorderò sempre con piacere l’anno in cui ho avuto l’onore di avere in squadra Bootsy Thornton, che arrivava da una carriera importantissima a livello europeo. A livello di pallacanestro tecnica, il professionista e il giocatore di pallacanestro per eccellenza con cui abbia mai giocato. Mi ha lasciato un po’ a bocca aperta quando è arrivato a Sassari, perché era un professionista da seguire, da ammirare, a cui rubare ogni piccolo segreto. Sicuramente è il giocatore che più mi ha colpito in questi anni. Poi ci sono stati campioni importanti. Sia Travis che Drake Diener, quando sono passati da Sassari, hanno fatto dei campionati incredibili. Travis aveva una visione di gioco che non si è mai più vista alla Dinamo, e Drake qui ha poi vinto l’MVP del campionato. Fece una stagione incredibile nonostante i suoi problemi fisici. Loro due sono stati giocatori per la Dinamo e per me, mi hanno lasciato molto. Sono giocatori che ti fanno crescere molto anche a livello professionale. L’anno di scudetto, Supercoppa e Coppa Italia è stato un anno particolare, con giocatori talmente particolari che lì più che il singolo era proprio la squadra, la chimica che si creava nei momenti di difficoltà che faceva la differenza. Per arrivare ai giorni nostri, Dyshawn Pierre ha fatto degli step veramente grandi, è riuscito a crescere in maniera esponenziale, e lo ricordo sempre con piacere, anche perché l’ho sempre marcato io in allenamento e ho vissuto sulla mia pelle tutte le sue fasi di crescita. E’ un gran lavoratore, un giocatore che vive di pallacanestro, che ne ha una importante, moderna e può fare la differenza, infatti è finito al Fenerbahce. Questo dice tanto“.
Due gesti tecnici al di là del clamoroso: Jerome Dyson che parte e inchioda la schiacciata per il pari nel secondo supplementare di gara6 contro Reggio Emilia, Tyrus McGee che schiaccia sopra qualsiasi cosa in gara6 contro Venezia. Quale ti prendi?
“Sono dei gesti tecnici incredibili di campioni che fanno la differenza all’interno della partita e della stagione. Entrambe sono state fatte in momenti chiave ed entrambe danno molta carica e fiducia a tutta la squadra, non solo per la singola partita, ma anche per una stagione intera. Ho avuto questa fortuna di giocare con tanti campioni e questi sono due gesti tecnici che sono veramente atletici, ma soprattutto veramente impressionanti. Mi piace anche rivederli. Ricordo sempre, al di là del gesto tecnico, una prestazione che mi è rimasta negli occhi e nel cuore, quella di Bootsy Thornton a Belgrado contro la Stella Rossa, in un palazzetto stracolmo di tifosi che ci insultavano da ancora prima del riscaldamento. Lui fece una prestazione incredibile, tant’è che nei minuti finali venne sostituito, uscì per cinque falli e gli fu tributata la standing ovation e riconosciuta la prestazione che fece, che fu incredibile. Quello mi rimase nel cuore, mi fece rimanere a bocca aperta“.
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federico.rossini@oasport.it
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Credit: Ciamillo