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Kobe Bryant, un anno dopo. Il segno nel tempo della leggenda del basket

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Un anno fa, verso la sera italiana, una notizia faceva irruzione nelle tv, nei computer e nei telefoni di imprecisate decine milioni di persone. Un aereo si era schiantato a Calabasas, in California. Nove persone erano al suo interno. Tra loro, Kobe Bryant e sua figlia Gianna. Nessun sopravvissuto. Uno schianto portava via, così, a 41 anni, uno degli uomini che più ha saputo scrivere la leggenda della NBA, prendendosi anche i 13 anni di Gigi, come tanti la conoscevano.

Il resto è storia di attimi che sono parsi eterni a tanti. Alla gente che pian piano si riversava davanti allo Staples Center, con i Grammy Awards che sarebbero stati consegnati di lì a poco, a Quinn Cook, play dei Lakers, immortalato nelle sue lacrime sulle transenne, lui come un comune tifoso tra i tifosi. A Luka Doncic, Dwyane Wade e a tutte le altre star della lega professionistica americana che hanno lanciato le prime, istintive reazioni di un dolore che si è presto trasferito all’intera comunità cestistica. Un dolore in grado di unire tutti, da LeBron James in lacrime una volta sceso dall’aereo da Philadelphia (proprio là dove Kobe era nato) fino al ragazzo che magari la palla a spicchi non la tocca sempre, però sa. E sa, per esempio, che lo stesso LeBron aveva ricevuto dal suo illustre predecessore in maglia gialloviola i complimenti, il giorno prima: era avvenuto il sorpasso nella classifica dei più prolifici marcatori della storia della lega.

Il Black Mamba, lo chiamavano. Perché, col numero 8 come col numero 24, lo era davvero. Lo era quando ricercava l’ossessione di Michael Jordan, fino a mutuare numerosi elementi del suo basket, come quando, con Shaquille O’Neal, vinceva tre titoli dopo l’altro, come quando se ne portava a casa altri due per entrare sempre di più tra i grandissimi. E come dimenticare, tra i suoi momenti, il tiro da tre con cui decise la finale olimpica tra USA e Spagna a Pechino 2008, forse una delle partite più belle della storia per importanza, qualità e momento. Il tutto, unito alle infinite prodezze con i Lakers.

Kobe l’italiano. Perché l’Italia lo ha cresciuto, da Pistoia a Rieti, da Reggio Calabria a Reggio Emilia, dove passava papà Joe, passava lui. E l’amore per il nostro Paese non l’ha mai dimenticato, così come la lingua, rimasta di altissimo livello nel tempo. Tant’è che fu paradossale il ritorno negli States: lui, americano, che parlava meglio l’italiano, che con l’inglese a volte non riusciva a esprimersi perfettamente. Dove si esprimeva al meglio, però, era sul parquet. Quello al quale ha dato, in NBA, vent’anni della sua vita. Vent’anni in gialloviola. Sempre, però, con un pensiero all’Italia. Lo ricordano bene gli italiani approdati nella lega, lo ricorda anche chi vide il sorteggio dei Mondiali di Cina 2019. Lui, testimonial e icona del basket nel Paese più popoloso del mondo, idolatrato come e più di Yao Ming nella terra di Yao Ming, quando sorteggiò la terra dov’era cresciuto non la pronunciò in inglese. “Italia”. Con quel suo solito tocco d’amore. Ed è solo uno tra i tanti, tantissimi episodi che si potrebbero raccontare.

Quello che, al di là di Gianna, è ricordato di Kobe è anche il rispetto del basket femminile. Quello lo aveva già. Pochi giorni prima dell’incidente, aveva detto a chiare lettere che Elena Delle Donne, Diana Taurasi e Maya Moore, tre fra le più grandi star della WNBA, avrebbero potuto tranquillamente giocare con i maschi. E Diana Taurasi, che della pallacanestro femminile è Storia, con la S maiuscola, in quella “Celebration of Life” tenuta allo Staples Center per ricordare l’uomo che ne catalizzava l’attenzione, dove Michael Jordan fece calare un silenzio mai sentito, dove Shaq riuscì a strappare una risata a tutti, lo ricordò chiudendo con “Los Angeles nunca mueren”. Un saluto tra leggende.

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Foto: LaPresse / Olycom

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