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Australian Open, i migliori risultati della storia per l’Italia. I quarti di Caratti, le emozioni di Schiavone ed Errani, i trionfi dei doppi

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La storia italiana agli Australian Open è, per forza di cose, ridotta. C’è un preciso motivo storico alla base del fatto che di italiani nello Slam di Melbourne si cominci a parlare soltanto, nei fatti, dai primi Anni ’80 in poi: prima di allora, la trasferta dall’altra parte del mondo era sostanzialmente proibitiva per quasi tutti gli europei, e anche gli americani non andavano poi pazzi per quel viaggio.

L’unica volta ai quarti di finale di un giocatore italiano nel singolare maschile risale proprio a trent’anni fa. In quel 1991, all’inizio dell’anno, esplose improvvisamente Cristiano Caratti. Nemmeno 21 anni, piemontese di Acqui Terme, aveva già fatto parlare l’Italia tennistica, allora legata al duo Omar Camporese-Paolo Canè, con una buona serie di risultati estivi e lo scalpo di Brad Gilbert, che qualche tempo dopo sarebbe diventato allenatore di Andre Agassi.

“Caratti Kid”, come lo ebbero a soprannominare, si presentò in Australia battendo nei primi due turni, in quattro set, l’australiano Broderick Dyke e lo svedese David Engel. Al terzo furono due gli italiani ad arrivarci: uno era lui, l’altro Camporese. E se Omar giocò una di quella partite dannatamente belle e crudeli con Boris Becker, rischiando una rimonta che avrebbe avuto dello storico in una carriera che senza gli infortuni forse sarebbe stata diversa, Cristiano quella rimonta invece la trovò: chiuse l’avventura da lucky loser dell’americano Glenn Layendecker (7-5 al quinto) e andò agli ottavi. Dall’altra parte della rete Richard Krajicek. Ma l’olandese era ancora poco più che diciannovenne, lontano dai fasti del futuro. Il copione fu lo stesso del match precedente: l’italiano andò avanti di due set, fu ripreso, ma ce la fece. Successe esattamente il contrario nei quarti di finale con Patrick McEnroe, il fratello di uno dei più grandi geni che il tennis abbia mai conosciuto (che avrebbe anche battuto qualche tempo dopo). Solo che questa volta il 6-2 finale fu amaro. La parabola di Caratti proseguì ancora con la finale a Milano (persa contro Volkov, ma battendo Lendl nel mentre), poi battendo tra gli altri Jimmy Connors e Sergi Bruguera, ma non andò oltre il numero 26 del mondo, collezionando qualche scalpo qui e là negli anni (Michael Stich, di nuovo Krajicek, Stefan Edberg). Oggi ha cambiato del tutto vita: lavora nel mondo immobiliare e vive a Houston.

Nel 2002 si verificò un miracolo che, se possibile, ebbe proporzioni addirittura maggiori. Adriana Serra Zanetti, modenese classe 1976, che si era messa in luce con gli ottavi al Roland Garros 1995, tirò fuori, in tutti i sensi, il torneo della vita. A rileggerli oggi, i nomi che sconfisse fanno alzare, se non tutte e due le sopracciglia, quantomeno una: al primo turno la spagnola Virginia Ruano Pascual, tra le grandi del doppio, al secondo l’americana Amy Frazier, ex numero 13 del mondo, e al terzo Silvia Farina. Lei, che era numero 14 del seeding, perse quel derby al terzo set, e così Adriana riuscì ad arrivare al quarto turno con la miglior Martina Sucha di sempre. Ma anche questo non fu sufficiente alla slovacca per fermare una piccoletta di 160 centimetri che stava demolendo, una dopo l’altra, figure di riferimento del tennis mondiale. Mentre Rita Grande giocava una partita spettacolare, pur persa, con Jennifer Capriati, la modenese si avviava verso i quarti. Poi fu Martina Hingis a fermarla, con un netto 6-2 6-3, ma la bellezza di quel momento non se n’è mai andata, ed è forse ingiustamente troppo poco ricordata.

Balzo in avanti di nove anni, al 2011. Francesca Schiavone veniva dal più bell’anno della sua carriera: il Roland Garros, il Masters giocato (con ritiro di Elena Dementieva proprio alla fine del loro incontro), la terza Fed Cup, la top ten costante. In Australia, però, partì col freno a mano tirato prima con la spagnola Arantxa Parra Santonja e poi con Rebecca Marino (sì, proprio la canadese che poi si ritirò perché gli scommettitori, con la loro ferocia verbale, ne avevano minato la salute mentale: al tempo era considerata, non a torto, un grande talento). Meglio nel terzo turno, con la rumena Monica Niculescu, il cui gioco meriterebbe un capitolo a parte, prima di entrare di nuovo nella leggenda. Un ottavo di finale, quello contro Svetlana Kuznetsova, iniziato quando in Italia erano passate appena le cinque del mattino. Un primo set incerto, un lob male agganciato dalla russa, 6-4. Un secondo set andato via veloce, 6-1 Kuznetsova. E un terzo set che stava sfuggendo via. Ma non lo fece. Attimo dopo attimo, insieme, le due entrarono in un’altra dimensione. Due ore, poi tre, poi quattro, due volte Francesca che servì per il match e due volte in cui arrivarono i controbreak. Un match point dopo l’altro, ne vennero sei. Tutti annullati, di voglia nella maggior parte dei casi. Poi l’ultimo break, con una discesa a rete fuori dal tempo, e un ultimo game da brividi, ma vinto. 4 ore e 44 minuti, numero 4 del mondo.

E poi c’è la storia del quarto di finale con Caroline Wozniacki. L’aveva battuta al Roland Garros, nei quarti, prima di andare a vincere il torneo. Nel frattempo era diventata numero 1 del mondo, e quel primo Slam lo voleva (e l’avrebbe raggiunto, ma sette anni dopo, proprio a Melbourne). Eppure fu l’azzurra a partire meglio, a giocare benissimo, pur sapendo che la benzina si sarebbe potuta esaurire presto. E infatti, a sogno vicino, sul 6-3 3-1, finì. Quattro errori gratuiti di fila, controbreak, Wozniacki che si toglie una fasciatura per cui aveva chiamato un medical time out e 3-6 6-3 5-1. Ultima reazione d’orgoglio, ma non bastò: 3-6 6-3 6-3.

Un anno più avanti, fu Romina Oprandi, in una delle ultime versioni da italiana (sarebbe ridiventata svizzera in poco tempo, irritata, disse in conferenza stampa, dal comportamento di Barazzutti in tribuna), a batterla al secondo turno. Ma fu proprio lì che emerse un’altra storia, quella di Sara Errani. Classe 1987, mai andata particolarmente avanti a livello Slam, prese il volo a inizio anno. Prima Valeria Savinykh, poi Nadia Petrova, allora nei suoi migliori anni, furono eliminate in un uno-due russo non da poco. La vera battaglia fu nel terzo turno con la rumena Sorana Cirstea, in cui riuscì a superare un primo set dall’andamento strano per dominare nei successivi due, e di slancio mettere fuori dal torneo, senza fatica (6-2 6-1) la cinese Jie Zheng, già semifinalista a Wimbledon. Venne Petra Kvitova, e fu la conclusione, ma con un 4-6 4-6 orgoglioso perché a un certo punto era stata avanti 4-1 nel secondo. Quella sarebbe stata solo la partenza: finale al Roland Garros, quattro tornei vinti, semifinale agli US Open, i primi due Slam in doppio (torneremo su questo punto), la top ten diventata più avanti numero 5 del mondo quando le prime quattro erano Serena Williams, Maria Sharapova, Victoria Azarenka e Agnieszka Radwanska (con cui i duelli sono stati spesso al di là dell’umano).

Infine, il 2014. L’ultima volta di un’italiana ai quarti a Melbourne coincise anche con uno dei picchi più alti di Flavia Pennetta a livello tecnico. Fu anche l’edizione del miracolo sfiorato da Karin Knapp contro Maria Sharapova, in giornate assai discusse perché più che di giocare a tennis si parlava di difendersi dal caldo bestiale. La brindisina eliminò senza tanti problemi la rumena Alexandra Cadantu, la portoricana Monica Puig e la tedesca Mona Barthel, una che se trova la settimana giusta non fa sconti. Poi, Angelique Kerber, quella Kerber cui cedette il passo in un quarto degli US Open che non ricorda molto volentieri, quello del 2011. E fu proprio contro la tedesca che tirò fuori un set, il primo, ai confini della realtà, aggredendo da tutte le parti. Un 6-1, in breve, in cui ci fu tutta Flavia. Poi il ritmo calò, la teutonica entrò in partita e vinse il secondo parziale, ma alla fine, nella lotta, fu l’azzurra a spuntarla e a guadagnare un quarto di finale che sembrava prossimo a scivolare via. Più d’uno sperò ancora, contro Na Li, ma in quel torneo la cinese era già passata al bancone della sopravvivenza, leggere alla voce Lucie Safarova, terzo turno. Il 6-2 6-2 non ammise discussioni.

Ma la terra dei successi è stata il doppio. Ad inaugurarli proprio Flavia, nel 2011, in coppia con l’argentina Gisela Dulko, sua storica compagna e con cui raggiunse il numero 1 del ranking mondiale. A uscire sconfitte furono parecchie coppie quotate, fino a una finale che stava scivolando via, quella con Azarenka e Maria Kirilenko. Ma il duo bielorusso-russo venne rimontato: da 2-6 1-4 a 2-6 7-5 6-1, e Slam vinto.

Dopo una finale persa nel 2012, Sara Errani e Roberta Vinci si presero il trofeo nel 2013, contro Ashleigh Barty e Casey Dellacqua, e nella coppia aussie la prima non sapeva ancora che l’avrebbe attesa un’avventura non solo di tennis, ma di sport, da raccontare. Ma quel torneo è ricordato in grande misura per una partita rimasta famosissima, quella in cui sconfissero le sorelle Williams ai quarti, per 3-6 7-6(1) 7-5, con una delle prestazioni più memorabili che l’Italia tennistica ricordi da una coppia di doppio. Indiscusse numero 1 della specialità, e per lungo tempo, le due si riuscirono a ripetere nel 2014, con una finale da brividi ancora più enormi della precedente, pur se tutte e due sono andate al terzo set. Rivali tradizionali dall’altra parte della rete, le russe Ekaterina Makarova ed Elena Vesnina. Primo set 6-4, secondo 3-6. Il terzo parve andarsene, con il duo dell’Est in piena fiducia e sul 2-5. Ma accadde, improvvisamente, qualcosa che fece girare completamente l’inerzia. A Sara e Roberta entrò tutto, a Ekaterina ed Elena niente, incluso un passante in corsa nel penultimo punto della prima che, invece di finire in campo, finì addosso alla seconda. E fu gioia, infinita.

L’ultimo capitolo è maschile. Anno 2015, Simone Bolelli e Fabio Fognini, con i Bryans eliminati presto, si resero protagonisti di un grandissimo cammino: eliminarono tanti specialisti, a partire dal sudafricano Raven Klaasen e dall’indiano Leander Paes, un totem della specialità, al secondo turno, per finire con la coppia rumeno-olandese formata da Horia Tecau e Jean-Julien Rojer. Un simile percorso da brividi l’avevano fatto i francesi Nicolas Mahut e Pierre-Hugues Herbert; anche qui, sul fronte transalpino, ci fu un involontario tentativo di decapitazione, ma ciò che contò alla fine fu il risultato: 6-4 6-4. Il primo Slam in doppio a Melbourne al maschile, e tutto ruotò alla fine intorno a “Chicco, abbiamo vinto uno Slam”. Parole rimaste ancora lì, su quella superficie che è essa stessa di tonalità d’azzurro.

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Foto: LaPresse / Olycom tranne Errani/Vinci (LaPresse)

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