Rugby
Rugby, Italia e il senso di rimanere nel Sei Nazioni a collezionare umiliazioni
Il Guinness Sei Nazioni 2021 dell’Italia è iniziato come gli ultimi cinque. Con delle sconfitte. 91 punti subiti e solo 27 segnati contro Francia e Inghilterra per raggiungere quota 29 ko consecutivi nel torneo per gli azzurri. E sulla stampa inglese e francese torna ad alzarsi la voce che si chiede se la presenza italiana nel torneo sia giustificata o giustificabile.
“Penso che ora sia abbastanza” ha dichiarato addirittura Sam Warburton, ex capitano del Galles, dichiarando che l’Italia dimostra di non essere all’altezza del torneo. Cui ha fatto eco l’ex allenatore dell’Inghilterra Martin Johnson. “In passato abbiamo sempre battuto l’Italia, ma loro hanno sempre lottato. Dovevi impegnarti per batterla, era una squadra dura in difesa, erano fisici, ti rendevano la vita difficile. Facevano tanto possesso e ti tenevano il pallone lontano, ma ieri è stato tutto veramente troppo facile” ha detto Johnson dopo il 50-10 contro la Francia.
Insomma, qualcosa si è rotto. Negli anni scorsi, infatti, ad agitare lo spettro di una cacciata dell’Italia (o dell’introduzione della retrocessione nel torneo) erano esclusivamente i giornalisti britannici nei loro editoriali. Voci forti, ma pur sempre di semplici addetti ai lavori che dovevano riempire le pagine dei loro giornali. Se oggi, invece, a dire chiaramente che l’Italia non è al livello sono personaggi che nel Sei Nazioni hanno giocato e allenato, se sono coloro che in passato affermavano che l’Italia meritava il rispetto, allora bisogna davvero porsi qualche domanda.
Il declino del rugby azzurro è evidente e sotto gli occhi di tutti. Dopo i fasti dell’ingresso nel Torneo, dopo le due vittorie storiche nel 2007, dopo lo stadio San Siro di Milano gremito per l’arrivo degli All Blacks, infatti, qualcosa si è rotto. Piano piano il gap tra gli azzurri e le altre Nazionali invece di ridursi si è ampliato, sono mancati i ricambi di livello per sostituire Bortolami, Lo Cicero, Castrogiovanni, Masi e, oggi, Parisse e Ghiraldini. Sono arrivate le sconfitte consecutive ed è arrivato anche un sempre minor interesse del pubblico nei confronti del rugby.
Gli sponsor stanno scappando (a ogni nuovo accordo di sponsorship la FIR deve abbassare le pretese, ndr), i tifosi si sono stufati dei proclami cui non seguono i risultati, mentre chi guarda il rugby da fuori si è ormai rotto della stantia esaltazione dei valori del rugby, di quella presunzione di superiorità morale che i guai del movimento hanno ben messo alla berlina.
E, nel frattempo, l’Italia continua a perdere. 29 sconfitte nel Sei Nazioni tra il 2015 e oggi, mentre dopo l’exploit con il Sudafrica a Firenze nel 2018 di vittorie di peso non ne sono più arrivate. Certo, lo storytelling federale ci racconta che ai Mondiali in Giappone abbiamo pareggiato con gli All Blacks (“Partita pareggiata più a tavolino che per meriti sportivi” ha dichiarato senza vergogna pochi giorni fa il presidente Gavazzi), ma – appunto – abbiamo pareggiato senza giocare.
Insomma, l’Italia ha senso nel Sei Nazioni? La risposta, purtroppo, è più economica che sportiva. È sportiva perché a oggi, oggettivamente, non ci sono alternative all’Italia. Georgia, Romania o Russia sono ancora molto lontane dal livello azzurro e, come sostitute, non aumenterebbero la qualità del gioco. L’unica opzione sarebbe, dunque, tornare a un Cinque Nazioni. Ma significherebbe un match in meno al weekend, con il conseguente abbassamento del valore commerciale del torneo e dei diritti tv. Ed è questo, oggi, che tiene gli azzurri nel torneo. Di sicuro non le vittorie.
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Foto: LaPresse