Vela
America’s Cup, Luna Rossa e il filo sottile che la lega al K2. Il dogma non cambia: si può fare!
Se dieci giorni fa qualcuno ci avesse detto che saremmo stati 2-2 avremmo fatto gli scongiuri. I neozelandesi, invece, ci avrebbero riso in faccia. Quando si dice che nella vela i pronostici spesso sono labili: eccoci qui, punto e a capo, un po’ come se la Coppa America non fosse ancora cominciata.
Certo quando vinci la prima regata della giornata ti viene subito l’acquolina in bocca: pancia mia fatti capanna. Mai lo sfidante italiano aveva vinto due regate di Coppa America, probabilmente mai un esordiente al timone (Francesco Bruni) aveva segnato due punti consecutivi, mai Peter Burling aveva perso due volte.
Poi però basta poco per rimettersi in discussione, studiare gli errori, forse troppi che hanno condizionato la prova che ha portato i neozelandesi al pareggio. Siamo sempre lì, vince chi sbaglia di meno, soprattutto quando hai di fronte il team più forte del mondo che dal 1995 (tranne la parentesi del 2010 dove in gara c’erano solo Oracle e Alinghi) ha sempre partecipato all’Americas Cup: sei finali con tre vittorie.
Inutile nascondersi, come ha detto James Spithill in conferenza stampa i favoriti sono i neozelandesi, sono padroni del campo, hanno la conoscenza del campo di regata. Luna Rossa resta l’underdog come dicono gli anglosassoni. Proprio per questo il risultato di pareggio dopo due regate è straordinario.
Arrivare a sette vittorie sarà come scalare il K2, che è famosa come la montagna degli italiani che conquistarono la vetta nel 1954 con Lacedelli e Compagnoni, ma con l’indispensabile aiuto di Walter Bonatti costretto a dormire all’addiaccio per portare l’ossigeno ai compagni. C’è un filo rosso che lega Luna Rossa alla conquista del K2: le cime della barca italiana (non ce ne sono più molte) sono prodotte dalla stessa azienda che le fornì alla spedizione del 1954. Il K2 è una montagna impegnativa dal punto di vista alpinistico, molto di più dell’Everest che ha dalla sua solo l’altezza. Una metafora non casuale, perché il primo uomo a raggiungere la montagna più alta della terra, nel 1953, fu Sir Edmund Hillary, apicoltore e alpinista neozelandese. Raggiungere la cima dell’Everest è molto più semplice e lui senza l’aiuto dello sherpa Tenzing forse non sarebbe arrivato fin là. Insomma abbiamo un feeling con le imprese straordinarie.
Tornando in mare, quello che colpisce comunque è la lucidità nell’analizzare gli errori e soprattutto nell’ammetterlo. Francesco Bruni ha candidamente ammesso che, quando nella poppa della seconda regata Luna Rossa è caduta dai foil, ha sbagliato a schiacciare il bottone che regola il movimento, sarebbe stato così facile dare la colpa al sistema, peraltro realizzato dai neozelandesi, uguale per tutti, che regola il movimento stesso. C’è da essere fieri di uno sportivo così.
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Sicuramente questa giornata ha fatto capire che tante ipotesi della vigilia lasciano il tempo che trovano. È incredibile che le prestazioni di due barche tanto diverse siano tanto simili. Luna Rossa doveva avere un significativo vantaggio con poco vento e invece anche Te Rehutai performa in modo eccellente, così come nella prima giornata in condizioni che avrebbero dovuto penalizzare la barca italiana non si è vista una differenza significativa. Le prestazioni di bolina (se la partenza è buona) restano un punto di forza della barca con la sottile linea rossa e questo è importante perché è nella prima bolina che si può incassare quel tesoretto che può portare a segnare il punto. Quindi anche con questi raffinati mostri tecnologici non si scappa dal fondamentale fattore umano.
Nella terza giornata di regata, visto che l’allerta Covid è tornata al livello 1, quasi sicuramente si tornerà sui campi di regata più vicini alla costa, dove magari il vento può essere più instabile e magari si potrà vedere qualche sorpasso. L’importante sarà portare a casa l’ultimo. Continuiamo a sognare perché il credo che ci sostiene non è cambiato: si può fare!
Stefano Vegliani
Foto: Luna Rossa Press