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Sci di fondo

“L’Italia dello sci di fondo non uscirà mai dalla crisi se non cambia metodologia di lavoro con gli adolescenti” ‘L’ululato del Bubo’ con Fulvio Valbusa

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La Coppa del Mondo di sci di fondo 2020-2021 è giunta al suo epilogo. Dunque, siamo arrivati all’ultima puntata de “L’ululato del Bubo” in compagnia del campione olimpico di Torino 2006 Fulvio Valbusa. In quest’atto conclusivo dell’inverno, analizziamo nel dettaglio la situazione dello sci di fondo italiano, cercando di capire le ragioni di questa crisi profonda in cui si è sprofondati da tempo e quali possono essere le contromisure da prendere per tentare di risollevare un settore attualmente in enorme difficoltà.

Bubo, per prima cosa ti chiedo di tracciare un bilancio della stagione italiana 2020-2021.
“Partiamo dal presupposto che in partenza non ci si aspettava niente di trascendentale, se non quantomeno di confermare i valori in campo. Tuttavia si è verificata una dinamica inaspettata, ovvero l’assenza dei norvegesi per metà inverno e, in alcune tappe, persino di svedesi e finlandesi. Dunque, si è presentata l’occasione per mettersi in luce maggiormente rispetto all’anno scorso. Invece non è accaduto niente di tutto questo, perché non si sono visti squilli degni di nota in contesti dalla concorrenza ridotta. Inoltre, e soprattutto, permettimi di dire che trovo inquietante il fatto che non si sia riusciti a programmare bene la stagione. La squadra è arrivata al Mondiale scarica, ben lontana dalla miglior condizione atletica. E dire che, invece, il tempo per preparasi adeguatamente c’era. Per esempio si sapeva che gli uomini e le donne distance avrebbero avuto un mese di pausa tra Falun e Oberstdorf, dove invece tutti gli azzurri e le azzurre hanno sottoperformato. Ai Mondiali sono stati portati una marea di atleti, senza che sia servito a nulla. Perché è inutile presentarsi in massa se non si è al top della condizione. Si è voluto dare un contentino a tanti, dicendogli ‘ti portiamo a fare esperienza’. Però l’esperienza non si costruisce certo così, gareggiando tanto per gareggiare, senza avere possibilità di competere davvero. A mio modo di vedere quanto accaduto deve insegnare una lezione in vista dell’anno prossimo, perché non si può ripetere lo stesso errore alle Olimpiadi di Pechino”.

Ecco, Pechino 2022. Quali possono essere i correttivi da apportare in vista dei Giochi olimpici?
“Partiamo dal presupposto che per Pechino l’unica possibilità concreta di medaglia è rappresentata dal solito Pellegrino, che avrà dalla sua la sprint a skating. Comunque, anche per Chicco non sarà semplicissimo salire sul podio. Vuoi perché gli anni passano, vuoi perché la Norvegia oltre all’imbattibile Klæbo ha tirato fuori un altro elemento di assoluto valore come Erik Valnes. Quindi Pellegrino dovrà inventarsi qualcosa di stratosferico per ripetere la medaglia di PyeongChang. Innanzitutto dovrà arrivarci in condizione atletica perfetta, cosa che lui sa fare benissimo”.

Non quest’anno, però. Ai Mondiali è apparso meno brillante del solito, come tutti gli azzurri.
“Guarda, credo che la ragione sia semplice. Ha cambiato obiettivo in corsa durante l’inverno. Lui in autunno ha sempre dichiarato che puntava tutto sui Mondiali, però quando i norvegesi si sono tirati indietro dalla Coppa del Mondo, ha visto la possibilità di portarsi a casa la Coppa sprint. Allora ha schiacciato il piede sull’acceleratore a dicembre e gennaio, arrivando a Oberstdorf scarico e sottotono. L’abbiamo visto anche in Engadina, era proprio in riserva e non aveva più energie. Quindi, mi pare evidente che abbia deciso di virare sulla classifica di specialità. Ha fatto bene? Per me il Mondiale vale comunque di più, ma la Coppa è riuscito a portarsela a casa”.

Ok, per Pellegrino sarebbe sufficiente restare focalizzato sull’obiettivo di inizio inverno. Però, per quanto riguarda il resto del gruppo, cosa fare? Parliamoci chiaro, qual è il vero valore di Francesco De Fabiani? Da anni si parla di lui come un potenziale uomo da podio, salvo deludere sistematicamente se non per qualche sparata estemporanea. Com’è possibile?
“Secondo me bisogna mettersi in testa un concetto, ovvero che De Fabiani non è uno sprinter. Sarà anche veloce in volate di gruppo, ma gli mancano troppe qualità per poter essere davvero competitivo anche nelle sprint. Quindi, perché ostinarsi a fargliele fare? Forse perché lo si vuole sacrificare sull’altare della team sprint in maniera tale da avere una coppia  – forse – da medaglia in quella gara lì e basta? Però Francesco ha altre qualità, da uomo distance, che invece in questo modo non vengono assolutamente sviluppate. Quindi, affinché De Fabiani possa veramente mettere a frutto il suo potenziale ci vogliono persone in grado di capirlo e di individualizzarne la preparazione, in maniera tale da valorizzare al meglio questa scheggia impazzita. Tenerlo nel limbo attuale non ha senso perché non è né carne, né pesce. La mia opinione è che con lui si debba puntare con decisione sulle prove di distanza, lasciando perdere le sprint. Al riguardo, mi preme aggiungere una postilla. La direzione agonistica si deve rendere conto che in questo sport non esistono solo le gare sprint! Perché a Oberstdorf, al di là di quello che è successo con il Covid, io ho avuto la sensazione che il Mondiale per noi fosse già finito domenica 28 febbraio e la seconda settimana dovesse essere fatta solo per onor di firma”.

Per il resto? L’Italia non è solo Pellegrino e De Fabiani.
“Non possiamo certo pretendere di creare altre carte da medaglia nel giro di un anno. Proprio per questo, si deve cominciare a lavorare per costruire un meccanismo che possa arrivare competitivo a Milano-Cortina 2026. Serve un gruppo con mansioni ben precise. Perché a me, sinceramente, sembra che ora come ora ci sia troppa confusione. Una squadra funziona se ogni elemento rispetta il proprio ruolo, altrimenti se qualcuno inizia a giocare per sé e fuori ruolo, ci perde tutto il team. Guardiamo alla Francia, che può essere presa come punto di riferimento essendo una nostra vicina di casa. Loro non hanno nessun fuoriclasse, ma ormai da anni vanno a medaglia costantemente in staffetta. Come mai? Perché sono uniti, compatti e lavorano tutti nella stessa direzione. Senza individualismi e senza superstar che pretendono di dettare la linea a tutti gli altri”.

Quali contromisure possono essere prese nel concreto? 
“Innanzitutto sono dell’idea che servano due direttori agonistici. Uno per gli uomini e uno per le donne, in maniera tale che si possa rispondere nel miglior modo possibile alle esigenze di ogni rispettivo settore. Parlo di direttori agonistici slegati da ogni logica politica interna ed esterna, quindi persone di polso che non si facciano tirare per la giacchetta dagli interessi di qualche gruppo sportivo e che non cedano ai capricci di atleti che vogliono imporre la propria linea, per quanto blasonati essi siano. Inoltre servono allenatori con gli attributi in grado di capire le necessità di ogni atleta, incunearsi nelle sue caratteristiche e sfruttarle al meglio. Al riguardo, trovo assurdo che un movimento con la tradizione e il blasone dell’Italia, in campo maschile venga seguito esclusivamente da un tecnico specializzato nelle sprint. E qui torno al discorso di prima, non esistono solo le sprint in questo sport! Non si può accentrare tutto su un determinato settore, trascurando completamente tutto il resto”.

Bubo, però al di là di tutto mi pare che il malessere dello sci di fondo italiano sia ben più profondo di ciò che vediamo in Coppa del Mondo. Possibile che a parte Pellegrino e De Fabiani, che viaggiano rispettivamente per i 31 e i 28 anni, non si produca più niente?
“Questo è un tema delicato e credo sia ora di scoperchiare il vaso di Pandora. Il problema è la transizione dallo sci club alle squadre nazionali. La prima cosa da costruire in un atleta è la base, altrimenti non si chiamerebbe così. E nello sci di fondo, la base è la resistenza. Questa si costruisce progressivamente a partire dall’adolescenza sino al pieno sviluppo fisico. Invece tanti sci club italiani raccontano di come gli atleti, una volta passati nelle squadre nazionali, vengano presi in mano da allenatori che gigioneggiano, lavorando sulla centralità o facendoli sciare in una determinata maniera perché i norvegesi sciano in quella determinata maniera. Ma non serve a niente lavorare così a quell’età! Se non hai la base, puoi sciare bene quanto vuoi, ma non vai da nessuna parte perché ti manca il motore! Ed è qui che bisogna cambiare il lavoro in ottica futura. Non solo in vista delle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026, per le quali siamo già siamo in ritardo. Perché vedi, è troppo facile prendersela con gli atleti. Se questi vengono formati male e non vengono costruiti adeguatamente in età adolescenziale, cosa si può pretendere da loro? Il problema è chi li dovrebbe mettere in condizione di essere competitivi, ma invece non lo fa!”.

C’è chi imputa la crisi dello sci di fondo italiano al fatto che in tanti ora preferiscano fare biathlon. Tu che pensieri hai al riguardo?
“Sicuramente il fatto che ci sia di mezzo la carabina lo rende più spettacolare e più affascinante, ma al tempo stesso credo che venga visto come qualcosa di meno faticoso dello sci di fondo. I biathleti lavorano parecchio, eccome se lavorano, ma forse agli occhi di un giovane pensare che ci siano ripetute di tre-quattro chilometri e poi ci si fermi a sparare risulta meno ‘spaventoso’ della fatica imposta dallo sci di fondo. Inoltre, se non si è velocissimi sugli sci, si può pensare di fare la differenza al tiro. Invece nel fondo, se non vai, non c’è un piano B per emergere comunque”.

Quindi, c’è un problema di cultura? Si ha troppa paura della fatica?
“Bisogna mettersi in testa che lo sci di fondo è sacrificio. Per emergere è necessario macinare tanti chilometri, lavorare come dei muli e crearsi una base esagerata. Avete letto cosa ha raccontato Holund? Questo si fa sciate di 200 chilometri! Sapete cosa vuol dire avere una base così? Che ci puoi costruire sopra un castello! La nostra metodologia ritiene che la base non sia importante, ma è sbagliato, perché prima devi avere una piattaforma solida e poi ci costruisci quello che vuoi. Io posso capire che i nostri diano tutto in gara, ma se dai tutto allenandoti a 100, produci 100. Invece se ti alleni a 70, puoi dare il massimo, ma arrivi al 70. Purtroppo viviamo in una società dove il concetto di fatica viene considerato qualcosa da evitare e, se si ragiona così, non ci sarà modo di emergere. Rimarranno sempre al vertice quei Paesi dove lo sci di fondo è cultura e quindi, la fatica che esso comporta, viene accettata come naturale”.

ULULATO DEL BUBO – PUNTATE PRECEDENTI

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Foto: Fulvio Valbusa

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