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Giuseppe Saronni su Fabio Aru: “Sono demoralizzato, dicevano che ero cattivo. Per 3 anni ci siamo chiesti cosa non funzionasse”

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Per tre anni ci siamo chiesti cosa non funzionasse. Sono demoralizzato, dicevano che ero cattivo“. Con queste parole Giuseppe Saronni ha commentato l’esperienza di Fabio Aru tra le file della sua UAE Team Emirates. Il corridore sardo, sul finire del 2017, aveva lasciato l’Astana per approdare alla corte del vincitore dei Giri d’Italia del 1979 e del 1983. Saronni stesso lo aveva fortemente voluto e pur di strapparlo alla concorrenza gli aveva fatto firmare uno dei contratti più ricchi della storia del ciclismo.

Qualcosa, però, non ha funzionato durante i tre anni passati da Aru con la casacca del sodalizio emiratino. Già nel 2018, il sardo non aveva rispettato le attese. Fabio aveva ottenuto alcuni bei piazzamenti nelle brevi corse a tappe, ma al Giro era affondato sullo Zoncolan e si era ritirato nel corso della terza settimana, mentre alla Vuelta non era andato oltre un mesto ventitreesimo posto. Nel 2019, invece, dopo un inizio non esaltante, si era fermato per operarsi all’arteria iliaca. Al ritorno alle competizioni, Aru aveva chiuso il Tour de France in quattordicesima posizione e sembrava poter, pian piano, tornare ai livelli toccati in Astana.

Tuttavia, alla Vuelta, dopo un buon inizio, il sardo andò totalmente alla deriva nella frazione di Andorra, ove giunse a trentadue minuti dal compagno di squadra Tadej Pogacar. Pochi giorni più tardi, si ritirò dalla gara spagnola e mise fine alla sua annata. Il 2020, se possibile, è andato ancora peggio. Fabio, dopo la pausa dovuta al Covid, era ripartito bene con un nono posto alla Vuelta a Burgos, un quinto alla Mont Ventoux Dénivelé Challenge e un decimo al Tour de l’Ain. Al Tour de France, però, nel corso della nona tappa si staccò da tutto il gruppo e non arrivò al traguardo.

Considerando che i risultati ottenuti in maglia Qhubeka ASSOS in quest’inizio di stagione sono anche inferiori a quelli del triennio passato in UAE, viene ormai difficile pensare che il problema di Aru fosse la squadra.
Anzi, se andiamo ad analizzare quanto fatto dal Cavaliere dei Quattro Mori nel sodalizio emiratino, notiamo che nelle brevi corse a tappe ha quasi sempre sfornato prestazioni paragonabili a quelle che faceva in maglia Astana. Il problema è che, sulle tre settimane, si è rivelato totalmente inaffidabile.

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I grandi giri sono stati il punto di forza di Fabio Aru durante i primi anni di carriera, ma già nell’ultimo biennio passato in maglia Astana si era palesata qualche crepa. Pensiamo al Tour de France del 2016, ove passò dal sesto al tredicesimo posto, a causa di una fragorosa crisi sul Col de Joux Plane, nella penultima tappa. O alla Vuelta del 2017, ove ebbe una crisi pressoché speculare sull’Angliru, a causa della quale, a un giorno della fine del grande giro spagnolo, scese dal settimo al tredicesimo posto.

Con tutte queste evidenze davanti agli occhi, accusare la UAE di aver rovinato Aru, così come cercare un singolo colpevole del suo declino, risulta quantomai senza senso. Alla base del fragoroso calo del corridore sardo sembra esserci un fisico incapace di reggere certi sforzi. Da eccellente corridore da gare di tre settimane, il Cavaliere dei Quattro Mori si è trasformato in un atleta ancora in grado di esprimersi saltuariamente su buoni livelli, ma totalmente incapace di reggere i ritmi di un grande giro.

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Giuseppe Saronni, in una intervista concessa ad OA Sport, ha affrontato proprio il tema legato a Fabio Aru: “È difficile dire cosa non abbia funzionato da noi alla UAE Emirates. Se lo sono chiesti in tanti: staff medico, tecnici, preparatori… . Il tutto per ben tre anni. Cosa posso dire, se non che sono io quello più toccato e demoralizzato, perchè l’ho voluto io a tutti i costi. Ci credevo, ma non che potesse vincere o stravincere facilmente. Peró, tra quel rendimento che ha avuto gli anni precedenti il suo approdo in UAE, e quello che ha avuto con noi, c’è di mezzo il mare. Ciò che io ho fatto per due anni e mezzo è stato dargli fiducia e difenderlo, e dopo ho ceduto anch’io, vedendo il suo ritiro al Tour dello scorso anno. Non potevo più nascondere la mia delusione. Mi sono sentito dire ‘sei stato troppo duro, cattivo…’ ; invece no, sono stato realista per il bene del corridore. Il problema, al giorno d’oggi, è che nessuno riesce a dire di ‘no’ al grande atleta“.

Foto: Shutterstock

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