Ciclismo
Riccardo Magrini: “Ciclismo italiano malato alla base. I ragazzini guadagnano più dei padri. Troppo arrivismo”
Prosegue il nostro viaggio alle radici dei mali che affliggono il ciclismo italiano. Dopo il ct Davide Cassani e Danilo Di Luca, diamo spazio oggi a Riccardo Magrini, da oltre un decennio apprezzatissimo commentatore tecnico sui canali di Eurosport. Corridore di buonissimo livello (negli anni ’80 vinse una tappa sia al Giro d’Italia sia al Tour de France), il toscano si è distinto a lungo anche come ottimo direttore sportivo. A maggio, come ormai da tradizione, lo ritroveremo su OA Sport con la rubrica ‘La Fagianata’ che analizzerà i temi caldi quotidiani relativi al Giro d’Italia.
Riccardo, l’Italia non ha più corridori né da classiche né da grandi giri. Non solo non vince, ma neppure ci va vicina. Come siamo arrivati a questo?
“E’ un buco nero che abbiamo in questo momento. La tradizione italiana ha sempre fatto scuola negli anni. Il fatto che in questo ciclismo moderno non ci sia una squadra italiana World Tour è sintomatico. E’ lì il motivo vero. I ragazzi vanno tutti all’estero, le poche squadre Professional in Italia fanno fatica. Bisogna riavvolgere il nastro e ripartire dalla base. Se prendi una pianta, semini il seme e piano piano lo coltivi. Se questa pianta cresce storta, i frutti non li dà.
Bisogna risalire agli anni ’80, quando le squadre dilettanti volevano imitare quelle professioniste con grandi sponsor, corridori che si comportavano come i Pro e, se gli italiani non ce la facevano, prendevi gli stranieri. E’ venuto fuori un mercato che serviva per vincere le corse. Chi lo faceva aveva grande passione, ma al tempo stesso nella maggior parte dei casi c’erano anche interessi economici. Poi dai dilettanti si è passati con questo sistema anche agli juniores: anche lì i ragazzi dovevano vincere per forza. Non si è fatto più un ciclismo di maturazione, ma di arrivismo. Arrivati al dunque, i talenti ci sono anche, ma finiscono per stancarsi presto“.
Queste dinamiche iniziate negli anni ’80 sono presenti ancora oggi?
“Quello che succede oggi è ancora peggio. Gli esordienti fanno allenamenti dietro moto, hanno i potenziometri. Un conto è conoscere l’attrezzatura, un contro sfruttarla per andare forte. Le categorie minori hanno rapporti regolamentati, ma non basta. Bisognerebbe ritornare a rivedere completamente le categorie giovanili.
All’estero tanti corridori vanno liberi e senza grandi pressioni. Se prendiamo l’esempio di Pogacar, al di là che è un fenomeno, là partono dalle scuole (in Slovenia, ndr), con dei programmi, non si stressano, vanno a correre con gioia. Oggi gli italiani già da ragazzini vogliono la bicicletta e le maglie superfighe. Prima le società non se lo potevano permettere, oggi se una società non è figa nessuno ci va. Secondo me non c’è la giusta trafila. Ai tempi di Pantani e Bettini era diverso. Me lo ricordo Bettini che usava una maglia che gli arrivava alle ginocchia, perché non ce n’erano della sua misura. Però se ne fregava e pensava solo ad andare forte. I talenti vengono fuori da soli, qui invece li sciupano. Aggiungiamoci che in Italia c’è una certa paura delle famiglie a mettere i figli in bicicletta“.
Quindi la base del ciclismo andrebbe ristrutturata dalle fondamenta.
“Mancano le competenze nell’insegnamento dello sport ciclismo. Negli anni ’90 facevo il direttore sportivo degli juniores e mi scandalizzavo quando bisognava andare a prendere un allievo e dovevi dargli dei soldi! C’erano delle lotte per accaparrarseli che non ti immagini. Era già storto l’albero. Il padre, che aveva un lavoro normale, magari guadagnava un milione e mezzo di lire al mese e vedeva il figlio tornare a casa con due milioni al mese. Così stravolgi anche le famiglie, magari per vincere 2-3 corse juniores. Non è normale che un capofamiglia guadagni meno di un figlio adolescente. Non si può fare di tutta l’erba un fascio, perché qualcuno che fa le cose giuste c’è“.
La riforma dovrà giocoforza partire dalla Federazione?
“La Federazione per forza deve dare un segnale importante di educazione. Anche gli squadroni e le doppie affiliazioni le eliminerei. Cercherei di far crescere regione per regione l’attività. Bisogna limitare in una certa misura il numero di corridori per squadra. E’ vero che devi imparare il mestiere, ma il mestiere si impara da professionisti. Gli stranieri giovani sono liberi, sereni. Il ciclismo è cambiato, adesso vediamo attacchi anche a 70-80 km dal traguardo. In Italia le corse dei dilettanti sono chiuse, determinate dalle squadre forti. Una squadra oggi costa un sacco di soldi. Se non hai almeno una decina di corridori, non vai da nessuna parte. Prima non c’erano due o tre squadre da 10 corridori come oggi, ma venti con 3-4 ciascuna e potevi lottare. C’erano più corridori perché c’erano anche più squadre. Se metti insieme dieci corridori nella stessa squadra, non è detto che vengano fuori tutti bene in contemporanea. Se invece hai più squadre, ognuna tenderà a valorizzare i propri elementi ed aumenterà la possibilità di avere tanti ottimi corridori. Oggi non abbiamo più società, perché costano un sacco di soldi per avere 10-15 corridori. Se invece metti un obbligo che non puoi avere più di 8 corridori, allora è diverso“.
Filippo Ganna è oggi l’unico italiano di riferimento a livello mondiale: troppo poco.
“Filippo Ganna è un paravento, ma non abbiamo nessuno. I corridori interessanti ci sono anche, ma fanno i gregari. E’ una vita che dico che Moscon dovrebbe cambiare squadra”.
Anche il problema degli stranieri non va sottovalutato.
“Bisogna partire dai giovani, dalle categorie inferiori e dai ragazzini. E’ lo stesso problema del calcio, qui vanno a cercare gli stranieri, come questo spagnolo Ayuso che corre per la Colpack. E’ stato preso perché garantisce vittorie. E’ un buon corridore, ma è ancora dilettante. Ne ho visti tanti di fenomeni che poi da professionisti non hanno fatto nulla di eclatante (Riccardo usa un termine un po’ più colorito, ndr). La Colpack fa grandissima attività e porta tanti corridori tra i professionisti, però prende tutti i migliori. Hanno grandi competenze e insegnano bene. Siccome la Colpack è un esempio, gli altri provano ad imitarla, ma senza avere le competenze adeguate. E’ questo il problema“.
Quanti anni serviranno per uscire dal tunnel?
“Io credo che, se avranno il coraggio di cambiare e ristrutturare i vecchi valori delle società sportive, ci vorranno 7-8 anni“.
Se, come si vocifera, la Eolo dovesse acquisire la licenza World Tour, potrebbe cambiare qualcosa nell’immediato?
“Non credo che con una squadra World Tour cambi le cose. E’ un processo piuttosto lungo. Credo e spero che la nuova presidenza federale possa avviare il processo per migliorare il sistema della base. Sicuramente però una squadra italiana farebbe crescere tutto il movimento. A noi in questo momento mancano gli esempi. Che esempio può dare ad un giovane guadagnare più del capofamiglia? Non è bello. Penso che quando sia cominciato ad accadere questo, sia stato l’inizio della fine“.
C’è qualche giovane italiano a cui possiamo aggrapparci per il futuro?
“Abbiamo qualche ragazzo che può far bene, ma non siamo al livello di questi fenomeni stranieri. Bisogna cambiare la mentalità della vittoria a tutti i costi nelle categorie giovanili. Bisogna cercare di tornare a fare il ciclismo di competenza. Quella di oggi è una generazione di corridori che spaccano le corse, noi non ci andiamo neanche vicini. Il ciclismo è bello, ci si diverte anche se non ci sono italiani. Noi però non siamo in grado di competere con questi mostri“.
ALLE RADICI DEI MALI DEL CICLISMO ITALIANO
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