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Olimpiadi Basket, la fine del Dream Team. USA ‘umani’, oro tutt’altro che già assegnato
Per la seconda volta in meno di due anni, Team USA ha subito una sconfitta dalla Francia. Allora era risultata decisiva, ai Mondiali di Cina nei quarti di finale, in quest’occasione non lo è, perché si è trattato di un ko nel girone eliminatorio. Ma, con la novità dei gironi a quattro squadre e non da sei, questo mette grande pressione agli uomini di Gregg Popovich, obbligati a non sbagliare più se vogliono avere un cammino quantomeno ancora senza probabilità di rischi fino all’eventuale semifinale.
Partiamo dal primato: c’è un allenatore, Vincent Collet, che è il primo a battere non una, ma due volte gli Stati Uniti in manifestazioni ufficiali. E questo è un premio alla carriera di un uomo che, in Francia, ha goduto di sempre maggior credito fino a essere rispettato da tutti, anche dalle stelle della NBA come Rudy Gobert ed Evan Fournier, ormai totem fissi della squadra transalpina.
Quel che conta, però, è che la Francia ha messo a nudo una delle principali questioni riguardanti quello che il mondo pensa oggi di quello che non è più il Dream Team. A spiegare le cose è Evan Fournier: “Team USA si può battere. Devi sfidarli, prima di tutto. Hanno forse più talento a livello individuale, ma si possono battere“. Il che significa una sola cosa: gli americani, le superstar della NBA, sono rispettate, questo sì, ma non temute o riverite. E non lo sono perché, se prima era prerogativa di pochi europei giocare con queste stelle, adesso ce ne sono tanti da quelle parti. Un greco, Giannis Antetokounmpo, ha letteralmente devastato le NBA Finals con performance che hanno fatto scomodare il nome di Michael Jordan. Un serbo, Nikola Jokic, è diventato MVP della regular season. E sono solo due dei tantissimi aspetti che si possono considerare.
Premessa: il nome Dream Team, per qualunque squadra arrivata dopo quella leggendaria del 1992, non dovrebbe esistere. Perché il Dream Team, per definizione, è uno: quello di Michael Jordan, Magic Johnson, Larry Bird. E, nella sua maniera effettiva, il Dream Team in quanto tale non si può definire più esistente non dal 2004, con il bronzo olimpico, e forse nemmeno dal 2002, con i Mondiali a Indianapolis che meriterebbero un racconto proprio. C’è una data precisa: 29 settembre 2000, il giorno in cui la Lituania andò, letteralmente, a un tiro dal battere la squadra che era di Vince Carter, pochi giorni prima passato alla storia per la sua schiacciata più famosa, quella sopra (in tutti i sensi) Frederic Weis. La conclusione se la prese Sarunas Jasikevicius, che però non ha mai avuto rimorsi: sapeva che non sarebbe mai entrata. Quello è stato il primo momento in cui gli States hanno dovuto prendere in considerazione, e sul serio, la possibilità di perdere.
Tutto il resto della storia è arrivato in seguito. Qualcuno non ha più temuto Team USA. Non lo hanno fatto tutte le squadre di alto livello tra il 2002 e il 2006, Italia compresa (leggere alle voci Colonia 2004 e, fino al capitolo Carmelo Anthony, Sendai 2006), non lo ha fatto nemmeno chi, tra il 2008 e il 2016, ci è andato vicino: Spagna (le due finali forse più belle di sempre, quelle del 2008 e 2012), Serbia, Australia.
E oggi c’è questo nuovo corso. Quello di Gregg Popovich. Iniziato in maniera complicatissima, perché ci sono state rinunce a profusione per i Mondiali di Cina, fino a presentare una squadra buona, ma senza una vera unione, uscita ai quarti di finale. E il problema, forse, si sta ripresentando ora. Perché è difficile mettere insieme 12 giocatori dei quali solo la metà e poco più sono insieme da settimane: JaVale McGee e Keldon Johnson sono arrivati da sostituti in corsa, Devin Booker, Khris Middleton e Jrue Holiday sono giunti direttamente dalle NBA Finals. Per di più, Kevin Durant e Damian Lillard hanno mostrato un approccio, per dirla così, preoccupante. E’ evidente che esiste un problema di amalgama, così come che se è Jrue Holiday il miglior realizzatore, allora qualcosa decisamente non quadra, con rispetto parlando per Holiday che ha fatto la sua ottima figura ai Milwaukee Bucks.
Popovich dovrà lavorare, e tanto, perché i problemi palesati nella preparazione sembrano ancora tutti lì. E nel frattempo sono tutti pronti ad azzannare Team USA. E il prossimo test non sarà tanto l’Iran, che ha forse il minor livello tra tutte le squadre in competizione, quanto la Repubblica Ceca. Se non un test perfetto, quasi: un giocatore conosciuto a livello NBA (Satoransky), tanti che vivono l’alto livello in Europa, nessuno disposto a mollare un centimetro. Un mix non dissimile quasi costò una sconfitta con la Turchia ai Mondiali di Cina. E le conseguenze, visto il nuovo sistema delle Olimpiadi, potrebbero essere molto importanti. In qualunque caso, il discorso oro si apre a tante. E forse siamo alla rassegna a cinque cerchi più aperta dai tempi di Atene.
Foto: LaPresse