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Wimbledon 2021: Matteo Berrettini, da Roma a una finale Slam attesa da 45 anni

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C’è un continuo filo che corre tra Wimbledon e Roma, o per meglio dire tra Roma e Wimbledon. Con Matteo Berrettini, il tennis azzurro ha raggiunto il suo vertice più alto da 45 anni a questa parte, con una finale ai Championships che, all’inizio della stagione sull’erba, qualcuno osava sperare, pochi osavano credere e ancor meno visualizzare mentalmente. Ma chi ci ha creduto più di tutti è proprio lui, il numero 1 d’Italia, che è sempre stato perfettamente consapevole di quel che stava facendo, dove stesse andando e dove volesse arrivare. Fino a quel che è accaduto poche ore fa sul Centre Court con il polacco Hubert Hurkacz dall’altra parte della rete.

C’è anche Adriano Panatta nel destino dell’uomo che, dalla prossima settimana, sarà quantomeno numero 8 del mondo e, a prescindere dal risultato della sfida con Novak Djokovic, 3 della Race. Adriano disse chiaro e tondo a Matteo, quando quest’ultimo era ancora adolescente, che avrebbe tirato il servizio a 220 km/h. Detto, fatto. Ormai lo fa regolarmente. E proprio a Panatta Berrettini ha fatto un grande regalo di compleanno, da romano cresciuto al circolo tennis della Corte dei Conti a romano svezzato dal Parioli. 71 sono, oggi, gli anni dell’uomo che per l’ultima volta diede all’Italia la gioia di uno Slam, il Roland Garros, vinto subito dopo Roma e con un match point (ma non undici, come al Foro) contro al primo turno.

Centre Court, luogo di gioia per Matteo, luogo che fu di dolore per Adriano: il più grande rimpianto della sua vita tennistica, il quarto del 1979 con Pat DuPre, un americano che in qualsiasi altro momento avrebbe forse battuto a occhi chiusi. Ma non in quel momento, non in quei cinque set, con una lunga serie di circostanze, da lui più volte raccontate, a creare le condizioni perché il fattaccio si verificasse. Ed è lo stesso diretto interessato a ricordarsi bene la sequenza che lo avrebbe atteso: Tanner, poi Borg. Storia dei se, che in quanto tale non si può fare.

A Roma era invece venuto a vivere Nicola Pietrangeli, protagonista di ben altro tipo di vicenda umana che lì l’aveva portato da Tunisi, dov’era nato da padre abruzzese e madre napoletana. Pietrangeli, l’uomo più vincente della storia d’Italia sul rosso, che ebbe anch’egli due grandi occasioni a Wimbledon. Nel 1956, con Orlando Sirola, in doppio, ma in quella finale con Lew Hoad e Ken Rosewall non ci fu nulla da fare. Poteva essercene, invece, in semifinale con Rod Laver nel 1960. Finì al quinto set, e allora come oggi Gianni Clerici scriveva, e scrive, che Nicola aveva perso la più grande delle chance di vincere sui sacri prati. Ma il Pietrangeli della vita di Berrettini, curiosamente, non è Nicola. Si chiama Raoul, di Nicola non è nemmeno parente e faceva il maestro e direttore tecnico alla Corte dei Conti. Dal 2003 al 2010 fu lui a seguire l’evoluzione di quel ragazzo che poi s’è preso Vincenzo Santopadre.

Ed è questo un altro capitolo romano: lui, che proprio a Roma un paio di colpi gobbi li tirò fuori (Karol Kucera e Magnus Norman, che ci ha perso anche un’altra volta, se lo ricordano), è diventato l’uomo che ha vissuto in simbiosi con Berrettini tutto il percorso di crescita. Un’unione salda, vera, mai in discussione. Mentre in tanti si prendevano le luci della ribalta, loro seguitavano nel percorso di scalata. Un infortunio al ginocchio sinistro costrinse Matteo fuori per sei mesi nel 2016, ma il risultato fu che nel 2017 scalò 300 posizioni (esatte) da gennaio a dicembre. E il passo più lungo della gamba non è mai stato fatto. Neanche nel periodo difficile del 2020, quello arrivato dopo la sconfitta con il tedesco Daniel Altmaier sul Court Philippe Chatrier, al Roland Garros. Ci è voluto del tempo per ritrovare il vero Berrettini, e anche della pazienza. Quella che Santopadre ha sempre avuto. Non per caso, già in ATP Cup, a gennaio, si vedeva che Matteo era in gran condizione. E dopo il guaio di Melbourne e un match di assestamento a Montecarlo, è ripartito. E l’hanno fermato solo in tre: Zverev, Tsitsipas, Djokovic. Non gli ultimi della classe.

Santopadre, non per caso, è stato tra i primi a credere nella possibilità di costruire il suo allievo come giocatore in grado di esprimersi su tutte le superfici. Ancora, non per caso oggi se si deve proprio nominare una superficie “debole” per Matteo, si farebbe gioco facile nel dire “la terra rossa”, ma non è nemmeno del tutto vero. Perché Berrettini sulla terra ci è nato, e ci sa giocare bene. Del resto, Djokovic l’ha già spaventato a Parigi, quando ha minacciato di trascinarlo al quinto set. Ed era terra. Semplicemente, l’erba è la superficie perfetta perché si sposa meravigliosamente con le tre cose che l’hanno portato in finale: un servizio di prim’ordine, un gran dritto che usa per comandare, un rovescio slice che sui prati può far danni.

Da Roma a Wimbledon, dalla Città Eterna a un paio di giorni di eterna attesa, di un uomo che è perfettamente consapevole dei propri mezzi. E questo è un bellissimo vedere.

Foto: LaPresse

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