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US Open 2021, Novak Djokovic a caccia del Grande Slam. I precedenti del passato: al confine del mito

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Novak Djokovic arriva agli US Open senza aver giocato una singola partita nei due Masters 1000 nordamericani. Si tratta di un vero e proprio fatto unico della sua carriera, che però ha una spiegazione, e si chiama Olimpiadi di Tokyo. C’è infatti anche l’onda lunga dell’aver fallito la medaglia in singolare tra le ragioni del suo stop prolungato, il che fa domandare a tutti quale versione del numero 1 del mondo vedremo in campo a Flushing Meadows soprattutto nei primi turni.

Quale che sia la situazione, il serbo è alla caccia di un’impresa, il Grande Slam, sfiorata e mai riuscita a nessuno negli ultimi 52 anni. Per la verità, Djokovic ha detenuto tutti i quattro tornei dello Slam contemporaneamente, ma li ha vinti in anni diversi (due nel 2015 e altrettanti nel 2016, con Federer e Murray vittime del caso) prima di finire nei due anni di buio che hanno caratterizzato la sua parabola agonistica, poi ripartita furiosamente da Wimbledon 2018.

1969: questo è l’anno dell’ultimo Grande Slam della storia. Ed è anche l’unico della storia dell’Era Open. Ma Rod Laver l’aveva già realizzato in una precedente occasione, prima di passare nell’allora circuito professionistico di Jack Kramer: accadde nel 1962. Non fu però “Rocket” il primo a realizzare quest’impresa, almeno per quanto riguarda il settore maschile.

Detto che il termine “Grande Slam” nasce negli Anni ’30, a potersi fregiare del titolo di primo a metterlo a segno fu Don Budge. Su una cosa l’uomo che nacque nel 1915 a Oakland può essere sicuro: sarà molto difficilmente battuto in termini di precocità dell’impresa, dal momento che aveva 23 anni quando riuscì a compierla. Al tempo pochi australiani si imbarcavano per l’Europa e pochi europei, britannici e americani andavano in Australia. Fred Perry, pochi anni prima, gli Australian Open (al tempo Australian Championships) li aveva vinti, ma il britannico di Grand Slam fece “solo” il Career, portandoli cioè a casa tutti, ma non nello stesso anno.

Budge fece di più: nel 1938 s’imbarcò per Adelaide, la sede di allora dello Slam australiano, e travolse tutti gli avversari in quello che era un tabellone a 33 giocatori. Anche gli Open di Francia erano ancora Championships; non presenti i due tedeschi vincitori negli anni precedenti, Gottfried von Cramm e Henner Henkel, i pericoli maggiori l’americano li corse all’inizio (3° turno con l’indiano Ghaus Mohammad e ottavi con il serbo Franjo Kukuljevic, anche se mai fu in serio pericolo di perdere). In finale capitolò il ceco Roderic Menzel. A Wimbledon fu il dominio: al massimo dovette vincere dei set per 7-5, e Bunny Austin, rimasto anche l’ultimo britannico finalista sull’erba di casa prima di Andy Murray, fu travolto per 6-1 6-0 6-3. Era questo l’unico Slam già a 128, giacché a Parigi c’erano solo quattro sezioni su otto che prevedevano il vero e proprio primo turno e Budge, lì, di match ne giocò sei. Lo stesso accadde agli US National Championships, oggi US Open. Era un torneo particolare: c’erano due set di teste di serie, uno specifico per gli americani e l’altro per gli stranieri, cosicché, per intenderci, erano presenti due numeri 1 del tabellone. Solo uno, però, raggiunse la finale: Budge. L’australiano John Bromwich fu infatti sconfitto dall’altro USA Gene Mako, che tolse sì un set al suo illustre avversario, ma non gli poté impedire il compimento completo dell’impresa, la prima della storia, rafforzata dal fatto che a Wimbledon e US National Championships aveva già vinto nel 1937, portando così a sei il numero di Slam vinti consecutivi, un dato mai più eguagliato da alcuna persona in ambito maschile.

Il salto in avanti nel tempo è di 24 anni. Il tennis era cambiato, Jack Kramer aveva grande potere nel portare i giocatori al professionismo (anche se non sempre ci riusciva; Nicola Pietrangeli, per fare un esempio, rinunciò all’ultimo), ma in quel momento, tra coloro che erano rimasti tra i “dilettanti” (che erano tali molto tra virgolette), Rod Laver era tra i più forti. E nel 1962 il colpo riuscì, là dove Tony Trabert, Lew Hoad e Ashley Cooper avevano fallito di pochissimo (in particolare, Hoad, altro grandissimo talento, fu a due soli set dal farcela). Per riuscirci, però, dovette affrontare per tre volte su quattro Roy Emerson (che, poi, in assenza di Laver, John Newcombe e Ken Rosewall si portò a casa diversi Slam). In Australia (tabellone a 48), con il torneo nel frattempo andato a Sydney, tre set persi e vittoria in finale in quattro, ma a Parigi tantissime difficoltà. Nei quarti, in semifinale e in finale sempre successi al quinto parziale, contro Martin Mulligan, Neale Fraser e infine ancora Emerson. Molto più facile il discorso a Wimbledon, con Manolo Santana unico a creare un minimo di difficoltà e Mulligan travolto nell’ultimo atto, mentre a Forest Hills fu di nuovo Emerson lo sconfitto nell’ultimo atto.

Nel 1969 si era giunti da poco alla realizzazione del tennis Open, il che significò che c’erano davvero tutti i migliori al via. Curiosamente, il cammino di Laver in Australia (anche stavolta con 48 giocatori, motivo per cui questo Slam è stato a lungo considerato una specie di “gamba zoppa”) iniziò da un italiano, il romano Massimo Di Domenico, ma la grande battaglia fu quella in semifinale con Tony Roche: vittoria al quinto set e secondo finito 22-20 in un’era in cui il tie-break doveva ancora fare capolino. All’ultimo atto capitolò molto più facilmente un altro dei grandi di Spagna del tempo, Andres Gimeno. Anche a Parigi un match da brividi ci fu, quello con Richard Crealy, che rischiò di eliminare il suo connazionale al secondo turno, solo che non fu in grado di gestire i due set di vantaggio. Di lì, tutto abbastanza semplice, dal napoletano Pietro Marzano fino alla finale, pur con nomi affrontati del calibro di Stan Smith, Gimeno, Tom Okker e infine Rosewall. A Wimbledon (quello della mitica Gonzalez-Pasarell da 5 ore e 12 minuti), dopo l’esordio con un Nicola Pietrangeli ormai pallida copia di quel che fu, i guai a Laver li fecero passare al secondo turno l’indiano Premjit Lall (che crollò dopo i primi due set) e agli ottavi un battagliero Smith, con l’americano in grado di rimontare due parziali prima di cedere al quinto. Nelle ultime due partite furono Arthur Ashe e John Newcombe a finire sconfitti. Restava l’America: agli ottavi Dennis Ralston fu il principale pericolo (avanti due set a uno), ma alla fine fu Roche l’ultimo ad arrendersi e a osservare il fatto compiuto: doppio Grande Slam, un’impresa che non si sa se e quando sarà ripetibile.

Tra le donne questa evenienza si è verificata tre volte. Nel 1953, toccò all’americana Maureen Connolly fregiarsi del titolo di prima a riuscire nell’impresa. Anche lei, come Budge, vanta un record sfiorato in futuro dalla sola Steffi Graf (fatto su cui torneremo): sei Slam consecutivi vinti, contando anche gli ultimi due del 1952. In Australia la concorrenza fu poca cosa, con soli 11 game concessi in tutto il torneo sui cinque turni giocati, di cui cinque alla finalista Julia Sampson, mentre un po’ meno semplice fu la faccenda in Francia, dove Susan Partridge (al tempo Chatrier, essendosi sposata con quel Philippe poi celebre presidente di FFT per vent’anni e ITF per 14) le tolse un set ai quarti prima della finale vinta con un’altra connazionale, Doris Hart. A Wimbledon, dove al tempo le donne avevano un tabellone a 96 e non a 128, l’atto finale fu lo stesso dopo un cammino dominante, ma per Connolly ci fu una Hart più difficile di Parigi, pur sconfitta in due parziali. E fu ancora lei l’avversaria in terra americana, stavolta con un 6-2 6-4 a finire sui libri di storia del tennis.

Nel 1969 Margaret Court era già una stella di primissima grandezza: aveva vinto 15 Slam. Tra l’ultimo di quell’anno e il primo del 1971 ne aggiunse sei alla sua collezione, facendo quel che avevano già fatto Budge e Connolly prima di lei. Parlando del 1970, l’avventura della nativa di Perth partì con un cammino facile nel tabellone a 43 che la vide portare a casa cinque incontri lasciando per strada 13 game. Tra le avversarie, solo australiane, una giovane Evonne Goolagong nei quarti e Kerry Melville in finale. Al Roland Garros lo spavento glielo fece prendere la sovietica Olga Morozova, che nel 1974 sarebbe arrivata in finale sia a Parigi che a Wimbledon, la quale andò vicina a sconfiggerla al secondo turno (3-6 8-6 6-1). Successivamente nessun problema fino alla finale, dove sconfisse la tedesca Helga Niessen per 6-2 6-4. A Wimbledon (il tabellone, nel frattempo, non era aumentato di dimensioni) il set lo perse proprio contro Niessen per 6-8 nei quarti, solo che fu seguito da un 6-0 6-0. Lo scontro campale con Billie Jean King ci fu, e in finale: fu un durissimo 14-12 11-9 che certificò chi, in quel momento, era la numero 1. Fu Rosie Casals in finale agli US Open, infine, a strapparle un parziale, ma non l’intera posta: 6-2 2-6 6-1, e Grande Slam vinto. I titoli maggiori sarebbero diventati 24.

Chi avrebbe potuto far suoi ben più di sei Slam in fila, ed è rimasta ferma a 5 solo per l’intervento della spagnola Arantxa Sanchez nel 1989 al Roland Garros in una finale divenuta storica, è Steffi Graf. Senza quella partita, infatti, la tedesca di tornei maggiori di seguito ne avrebbe vinti nove, prima dell’avvento di Monica Seles. Nel 1988, in particolare, Graf cominciò dall’Australia: soltanto la svedese Catarina Lindqvist negli ottavi e Chris Evert in finale riuscirono a farle allungare un set, il secondo, con l’americana che la trascinò vanamente al tie-break. Ma l’impresa fu a Parigi: solo Gabriela Sabatini riuscì a reggere l’urto in semifinale (6-3 7-6). In finale, però, cancellò letteralmente Natalia Zvereva: la sovietica, che più tardi sarebbe diventata Natasha ed è una delle più grandi doppiste della storia, subì un 6-0 6-0 in 34 minuti (ufficiali, perché furono in campo per 32 causa una breve interruzione per pioggia) che rimane ancora oggi ineguagliato negli Slam. A Wimbledon la storia fu di dominio fino alla finale. Martina Navratilova, anche lei tra le più grandi che il tennis abbia mai conosciuto nonché regina dei prati per eccellenza, portò a casa il primo set per 7-5, ma subì nei successivi due per 6-2 6-1. Agli US Open, invece, il percorso fu più particolare: lei e Chris Evert avevano battuto le due Maleeva, ma la semifinale non si giocò mai per un virus intestinale che colpì l’americana. Graf-Sabatini la finale, con la tedesca e l’argentina che si divisero i primi due parziali per 6-3 prima del 6-1 finale. E non finì qui, perché per la giocatrice di Mannheim arrivò nel primo giorno di ottobre anche l’oro olimpico ancora su Sabatini, anche se fu la sovietica Larisa Savchenko, poi diventata Neiland, a metterla più in difficoltà di tutte ai quarti.

Quel Golden Slam era ciò che avrebbe voluto Djokovic, ma un altro tedesco, Alexander Zverev, gli ha troncato i sogni in questo senso. Rimane comunque l’obiettivo del Grande Slam. Dal 1969 nessun uomo vinceva tre Slam di fila, adesso gli restano 7 match (e 21 set) da vincere per poter fare quello che lo ossessiona da almeno un decennio. A conti fatti, nel 2011 gli è mancata la semifinale a Parigi persa con Roger Federer e, nel 2015, la finale che un altro svizzero, Stan Wawrinka, gli portò via sul rosso parigino. Il serbo è già diventato il primo capace, proprio con Federer, di vincere per tre volte tre Slam nello stesso anno; del quarto ancora non v’è certezza, ma tutti gli occhi sono puntati su di lui, anche per diventare il primatista di tornei maggiori vinti, perché sarebbero 21.

Foto: LaPresse

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