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Emozione sportiva 2021 – Oscar OA Sport: Jacobs iperuranico, Leoni a Wembley, Colbrelli nel fango, 4×100 da lacrime

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Il 2021 ha regalato grandi emozioni agli appassionati di sport. L’Italia si è resa protagonista di un’annata semplicemente trionfale, ricca di successi in ogni ambito e in cui gli azzurri ci hanno regalato imprese commoventi. Sono stati innumerevoli i momenti in cui ci siamo esaltati e in cui abbiamo festeggiato a dimisura.

Non si contano i momenti in cui il cuore ha palpitato più del normale, in cui siamo sobbalzati sul divano per esultare delle imprese realizzate dai nostri portacolori. La redazione di OA Sport ha selezionato dieci emozioni indimenticabili, dieci gioie indelebili entrate nel nostro cuore per estro, originalità, imprevidibilità, impatto emotivo, portata storica.

OSCAR OA SPORT 2021, L’EMOZIONE DELL’ANNO:

PRIMO POSTO – MARCELL JACOBS CAMPIONE OLIMPICO 100 METRI: 

L’evento sportivo per eccellenza. Quello più seguito al mondo (si parla di circa tre miliardi di persone collegate contemporaneamente, in diretta). Quello più iconico e mediatico. Quello che fa parlare davvero l’intera popolazione globale, senza alcuna barriera. La competizione più amata, la gara regina delle Olimpiadi, la prova che ci riporta indietro nei millenni e rimanda il genere umano alle sue origini. Il mito ancestrale dell’uomo più veloce sulla faccia della Terra. Il fascino del gesto fisico più basilare che si si sublima in un evento agonistico, in grado di consegnare il vincitore all’immortalità sportiva. 

I riflettori sono accesi sullo Stadio Olimpico di Tokyo, è la sera locale di domenica 1° agosto. In Italia è passata da poco l’ora di pranzo del dì di festa, è uno dei momenti più sentiti alle nostre latitudini e in piena estate si sogna a occhi aperti. In una specialità ultimamente dominata da afroamericani e caraibici, c’è un italiano in finale. Già questo è di per sé un fatto storico, ma dopo la roboante semifinale si sogna in grande: salire sul podio nella prova più prestigiosa, vedere sventolare il tricolore durante i festeggiamenti, gioire per un risultato storico… 

Arriverà molto di più… Marcell Jacobs è l’uomo della provvidenza, il titano che pochi si aspettavano, il Babbo Natale senza barba arrivato con qualche mese in anticipo, il Re Magio che porta l’oro più prezioso in assoluto, l’incarnazione vivente del fulmine rampante che stempera il cielo e illumina l’etere. Marcell Jacobs ha squarciato la tela come il migliore Lucio Fontana, ha riscritto la storia come un Cesare d’annata, ha trionfato in un campo di battaglia avverso, ha regalato una magia imperitura che mai avremmo pensato di poter degustare. Ha ispirato le generazioni future, ha fatto nascere l’atletica-mania, è entrato nel cuore di una Nazione intera, ci ha fatti sentire uomini e donne agili e veloci (“smart” per usare un gergo così comune). 

Il Campione Olimpico dei 100 metri è italiano. Ed è tutto magicamente vero, come nelle più belle favole. Il Principe d’Azzurro che bacia la sua Principessa Italia e tutto il reame dopo avere vinto una tenzone memorabile offrendo una prestazione colossale. Marcell Jacobs scatta in corsa 3, la partenza non è bruciante e paga un po’ dazio nei confronti dei suoi rivali, ma poi la sua progressione è surreale. Stiamo parlando dell’impresa più grande di tutti i tempi dello sport italiano a 360 gradi. Non ha eguali e mai ne avrà. Il bresciano ha fatto strabuzzare gli occhi a 60 milioni di italiani, incollati davanti al televisore come accade probabilmente soltanto per la Nazionale di calcio. 

Un missile terra-aria lanciatissimo, la falcata è devastante, le pulsazioni aumentano, il compasso si amplia, recupera tutti, li demolisce, trionfa. Col record europeo (9.80), surclassando lo statunitense Fred Kerley e il canadese Andrè De Grasse. Schiaffone totale in faccia a tutti. Emozione sportiva del millennio. Divino, imperiale, titanico, mitologico, stupefacenteFate vobis. Campione Olimpico nella gara delle gare, davanti a tutti il Pianeta. Incarnazione sublimante della velocità. 

SECONDO POSTO – ITALIA CAMPIONE D’EUROPA CALCIO: 

Wembley è lo Stadio dei sogni. È uno dei grandi templi del calcio. È un impianto iconico, dentro cui si respira la storia. È una struttura maestosa dal grande fascino, un faro nella cultura britannica e non solo. Espugnarlo equivale a preparare un the a Sua Maestà a Buckingham Palace e farglielo apprezzare. L’Inghilterra si è resa protagonista di una bella cavalcata agli Europei e si appresta a disputare la Finale in casa, di fronte al proprio pubblico, in un turbinio di bandiere e trascinata da un popolo intero che continua a inneggiare “It’s coming home”. Un inno vero e proprio che intonano ogni qualvolta pensano che un trofeo calcistico stia per tornare nella Patria del football (lì è nato, ma la bacheca dei trionfi internazionali è particolarmente scarna…). 

Urlano per giorni e giorni, in barba a qualsiasi scaramanzia, convinti di una superiorità tecnica che, oggettivamente, non sembra così netta. La stampa britannica non si nasconde e proclama un’apoteosi, addirittura il premier Boris Johnson promette il giorno di festa nazionale in caso di successo nella rassegna continentale. I lavoratori iniziano a sfregarsi le mani intravedendo un lunedì di bagordi conditi da fiumi di birra. In tutto questo non hanno minimamente fatto i conti con l’avversario: stando alle loro parole e pensieri, sembra che la partita si debba giocare a una sola porta. Anzi si potrebbe direttamente non scendere in campo visto che tutto appare già abbondantemente segnato. 

A Wembley si gioca e i padroni di casa passano in vantaggio dopo appena due minuti: Luke Shaw insacca e sembrano già partire i caroselli. L’Italia non demorde, anche perché ha dimostrato di avere comunque doti tecniche importanti: schiera una difesa granitica, giostra un centrocampo fantasioso e ha ritrovato smalto anche in fase realizzativa. I ragazzi del CT Roberto Mancini ricostruiscono il gioco piano piano, hanno pazienza, risalgono la china, creano occasioni e poi al 67’ pungono con Leonardo Bonucci: il pareggio che gli azzurri aspettavano e che gli inglesi temevano. Il copione del confronto cambia, non mancano i brividi da entrambe le parti, ma la rete non si gonfia più e si va ai calci di rigore. 

La roulette per eccellenza, durante la quale il cuore quasi smette di battere e i nervi salgono a fior di pelle. Si mette male quando Belotti sbaglia il secondo e i padroni di casa si issano sul 2-1. Pickford fa sognare l’Inghilterra ma Rashford colpisce il palo e Bernardeschi pareggia i conti. Qui sale in cattedra Gigi Donnarumma che para il rigore di Sancho. Jorginho ha l’occasione per chiudere, ma si fa ipnotizzare.  

E allora ci pensa ancora il portiere azzurro, che neutralizza Bukayo Saka. L’Italia è Campione d’Europa per la seconda volta, dopo 53 anni di digiuno. E il bello è che Donnarumma non aveva capito di avere firmato la parata del successo… Ammissione candida di una nottata surreale che ha rispedito tutti gli italiani nelle piazze, li ha fatti riabbracciare, li ha fatti nuovamente sognare. Ha unito il Paese come soltanto la Nazionale di calcio riesce a fare nei momenti dei grandi trionfi. Magicamente è “It’s coming Rome”. 

TERZO POSTO – LA STAFFETTA 4X100 VINCE L’ORO ALLE OLIMPIADI: 

Ma chi è Lorenzo Patta? Ma Marcell Jacobs andava a cento all’ora? Ma che curva ha fatto Eseosa Desalu? Ma cosa ha combinato Filippo Tortu? Un flusso di domande incessanti che ha animato l’intera Nazione per una giornata, incapace di credere a quanto si era materializzato dall’altra parte del mondo: l’Italia ha vinto la medaglia d’oro con la 4×100 maschile alle Olimpiadi di Tokyo 2020. L’Italia ha la staffetta più veloce del mondo. L’Italia ha prodotto i quattro atleti più rapidi dell’orbe terracqueo. Il Bel Paese si gode una nuova apoteosi surreale e l’atletica leggera diventa sostanzialmente sport nazionale. 

Lorenzo Patta, il nome nuovo poco conosciuto al grande pubblico, il sardo che ci aveva convinto in primavera e che si è preso di prepotenza un posto nel quartetto. Geniale al lancio, non trema, è impeccabile in una prima frazione di tutta sicurezza e senza sbavature. Cede il testimone alla perfezione nelle mani del Campione Olimpico dei 100 metri, che sfodera tutta la sua potenza. Marcell Jacobs viaggia sulle ali dell’entusiasmo, i suoi cavalli nitriscono a meraviglia sul lungo rettilineo e fa volare in orbita l’Italia: a metà gara crediamo di poter salire sul podio, anche se ci siamo già giocati la carta migliore. Almeno teoricamente… 

Eseosa Desalu indossa i panni del Pinturicchio dei giorni migliori e con una disinvoltura senza eguali pennella una curva da compasso. Giotto non avrebbe saputo fare meglio. Un disegnino da illustrare ai posteri, una “magata” degna del miglior illusionista, un gesto tecnico e atletico da manuale. Il testimone passa nelle mani di Filippo Tortu, che ha passato una settimana di certo non semplice dopo che il suo compagno di squadra aveva trionfato nella gara individuale mentre lui era uscito in semifinale, da primo italiano capace di scendere sotto i 10 secondi. 

Quel giorno il brianzolo si trasforma in Super Man, annichilisce chiunque. È l’eroe della Patria. È l’eroe di tutti noi. È il profeta umano issatosi a divinità sportiva. Sciorina una cavalcata maestosa, lotta spalla a spalla con gli avversari, li fa fuori uno a uno con una cattiveria agonistica trascendentale, batte il britannico Nethaneel Mitchell-Blake per appena un centesimo e il quartetto dei sogni fa festa avvolto nelle bandiere tricolori, facendo risuonare uno degli Inni di Mameli più impensabili della storia. Siamo i più veloci del mondo! Campioni Olimpici.  

QUARTO POSTO – SONNY COLBRELLI VINCE LA PARIGI-ROUBAIX: 

L’Inferno spalanca le sue porte in terra. Lo fa al Nord, dove Ade accoglie a braccia aperte dei novelli Forrest Gump, pronti a correre a spron battuto e a scappare dal percorso più cruento in circolazione, dalle trappole mangia gambe e dai tranelli azzanna mente. Una follia umana, come è stata ribattezzata dai maestri del pedale, che affonda le sue radici nella storia ed è diventata mito. Leggenda per i suoi chilometri sul pavé antico, titanica per la durezza di quelle grandi pietre forgiate dal tempo, improba per quel massacrante esercizio su sassi sconnessi e irregolari, appuntiti e in balia totale dell’imprevedibilità totale di sua maestà natura.  

Fantascienza che si ripete ciclicamente, appuntamento simbolo del grande ciclismo, icona di un’era geologica passata e che si rianima una volta all’anno. Monumento. Basta questa parola per descrivere la Classica per eccellenza, quella che soltanto uomini temprati dalle fatiche possono conquistare, quella che soltanto ciclisti immersi in un anacronismo spazio-temporale possono vincere. La Parigi-Roubaix è un sogno per chi è montato in sella fin da bambino, è una corsa il cui fascino viene tramandato di generazione in generazione e la cui narrazione lascia sempre a bocca aperta.  

A maggiore ragione se va in scena in una giornata da tregenda, sotto una fitta pioggia e con il fango a inondare le strade, a rendere quasi invisibili le pietre, a costringere gli atleti alla specialità del “guado dell’acqua”, come se montassero un cavallo e non una bicicletta. La fatica umana trascende l’ordinario e l’Italia sogna come non era ormai più abituata a fare tra gli iconici tratti della Foresta di Aremberg, Mons-en-Pévèle, il Carrefour de l’Arbre: sono i tratti a cinque stelle, quelli più impervi, quello che obbligano ad adempiere al massimo sforzo.  

Prima Gianni Moscon in fuga e sfortunatissimo tra caduta e foratura, dietro lo show di Sonny Colbrelli. Alla sua prima apparizione a quelle latitudini, il bresciano è protagonista assoluto e tiene la ruota del grande favorito della vigilia: l’olandese Mathieu van der Poel. È sempre attento, meticoloso, convincente e non lascia spazio a un autentico treno. Crede fermamente nell’impresa e, una volta raggiunto il connazionale in fuga, se la può giocare col fuoriclasse e l’inatteso belga Florian Vermeersch. 

Sono delle maschere di fango. La linda maglia bianca blu-stellata, insigne del Campione d’Europa, è quasi irriconoscibile. Sonny Colbrelli è sfavorito, ma dopo oltre 250 km in quelle condizioni può succedere di tutto e non demorde quando entra nel Velodromo più famoso del mondo: lancia la volata e vince! Di prepotenza. L’Italia torna a conquistare la Parigi-Roubaix dopo un digiuno durato ventidue anni: il tricolore sventola per la prima volta nel terzo millennio, mentre Sonny sogna, alza la bicicletta al cielo, urla come un ossesso in preda alla follia del trionfatore, abbraccia e bacia l’iconica Pietra, il premio destinato al vincitore. È l’uomo della domenica, l’operaio del pedale, uno di noi che ce l’ha fatta. Uno che ci ha fatto commuovere. 

QUINTO POSTO – LUNA ROSSA FA SOGNARE IN AMERICA’S CUP: 

La competizione sportiva più antica al mondo. La America’s Cup si porta dietro una storia di oltre un secolo: nacque nel 1851 (pensate, l’Italia non era ancora unita…) attorno all’Isola di Wight come evento di contorno dell’Esposizione Universale di Londra (quella che adesso chiamiamo Expo), la piccola goletta America la portò via dalle mani delle imbarcazioni di Sua Maestà Regina Vittoria (“Her Majesty, there is no second”, narra la leggenda) e da quel momento il mito si rigenera. 

Un evento davvero d’altri tempi, nella forma e nella sostanza. Tra battaglie legali, spionaggi, litigi in acqua e a terra, affronti, parole al veleno. Un romanzo. Chi detiene il trofeo fa le regole e decide dove e quando regatare. Tutto questo rende la Coppa America così unica, speciale, romantica, ancorata a origini così lontane nel tempo. Passionale e affascinante. Strappare la Vecchia Brocca ai campioni in carica è impresa improba, basti pensare che gli statunitensi l’hanno detenute per oltre un secolo… 

Luna Rossa è un concetto tanto caro agli italiani. Evoca un bel tramonto, spensierato e leggero. Ricorda paesaggi da cartolina, relax e tranquillità. È il nome che Patrizio Bertelli ha dato alla sua imbarcazione per tentare l’assalto a quella che viene definita Coppa delle 100 Ghinee, tanto aveva speso la Regina per farla realizzare. Il quinto tentativo dell’amministratore delegato di Prada, che ha una passione sfrenata per la vela ed è riuscito a infonderla a tutti gli italiani. Ci riprova. 

Ancora ad Auckland, in quel Golfo di Hauraki dove si perse la battaglia contro Team New Zealand nel 2000. E proprio come ventuno anni fa, il sodalizio tricolore tiene sveglio un Paese intero, nelle notti insonni in regime di semi-lockdown. Ha tolto il riposo sotto le coperte, ma ha regalato un sogno e Luna Rossa è stato l’argomento di conversazione per tutto l’inverno. Tre mesi passati a sostenere i ragazzi dello skipper Max Sirena, a discorrere di strambate e virate, di timonieri e di tattiche in acqua, a difendere Team Prada Pirelli dagli attacchi verbali di stampa straniera e avversari. 

I domini contro American Magic e Ineos Uk per conquistare la Prada Cup e il diritto di sfidare Team New Zealand nel match che metteva in palio la Coppa America. Il sogno fino al 3-3 contro i Kiwi, poi lo strappo dei campioni in carica e i sogni in frantumi quando ormai la primavera era alle porte: una stupenda cavalcata che ha scaldato il cuore e ha emozionato gli italiani in uno dei momenti più complicati delle nostre vite. 

SESTO POSTO – BERRETTINI IN FINALE A WIMBLEDON: 

Lo sport vive di storia, trasuda miti e leggende. Può essere considerato a tutti gli effetti il pronipote dell’epica antica. Un lontano postero, nato per fare emozionare e per glorificare i protagonisti. Ogni storia ha il suo luogo sacro, un tempio di culto, un’ara da omaggiare con periodicità, a scansione del tempo che determina le nostre vite. Ogni sport ha il suo spazio simbolo, iconografia di una religione pagana, rito apotropaico. Il tennis sta a Wimbledon, come Wimbledon sta al tennis. 

I ciuffi d’erba tagliati con millimetrica precisione, i campi curati tutto l’anno con minuzia certosina, il rispetto del pubblico, la devozione degli organizzatori, le tradizioni, la mania del bianco. Il fascino unico, eterno e imperituro di un torneo noto anche a chi non segue le vicende di racchetta e palla gialla con abitudine. Wimbledon è ormai diventata una parola da vocabolario, quasi come se fosse un sinonimo per identificare questa disciplina. 

Si spiega in questo modo il motivo per cui ogni tennista sogna di calcare questo palcoscenico fin da bambino. Pochi riescono ad arrivarci, figuriamoci arrivare in finale. Matteo Berrettini riesce nell’impresa grazie a una cavalcata poderosa: l’azzurro esordisce contro l’argentino Pella concedendogli un set, poi travolge l’olandese van de Zandschulp, lo sloveno Bedene e il bielorusso Ivaska in maniera netta. Il quarto di finale contro il canadese Felix Auger-Aliassime è insidioso, proprio come la semifinale contro il polacco Hubert Hurkacz. 

Matteo Berrettini non trema e si garantisce il match della vita contro il serbo Novak Djokovic, riportando il tricolore in una finale di uno Slam a distanza di 45 anni dall’ultima volta (Adriano Panatta al Roland Garros 1976). Nell’atto conclusivo si porterà addirittura in vantaggio per 1-0 contro il numero 1 al mondo e gli terrà testa in una memorabile domenica che, poche ore più tardi, ci avrebbe consegnato l’Europeo di calcio sempre a Londra. Berrettini non riuscirà ad alzare al cielo la Coppa per eccellenza, ma ha fatto rinascere l’amore per il tennis in tutta Italia. Un pioniere, arrivo là mai dove nessun connazionale era arrivato. 

SETTIMO POSTO – GIANMARCO TAMBERI E L’ORO OLIMPICO A PARI MERITO: 

“Possiamo davvero avere due ori?”. Una frase che resterà scolpita per sempre nella storia dell’olimpismo e che è entrata di diritto tra le più celebri di questa memorabile annata agonistica a livello internazionale. Una domanda espressa in maniera genuina, senza troppi giri di parole, in un misto di incredulità e speranza. Tanto surreale quanto stupefacente, sorprendente, affascinante. In quelle poche parole si nascondono i sogni di un bambino che vuole condividere la cosa più bella del mondo con un amico fraterno, contro cui ha battagliato fino a quel momento in maniera leale per conquistare il premio più ambito. 

Gianmarco Tamberi e Mutaz Essa Barshim sono stremati di fronte al giudice, al termine di una gara dall’elevatissimo spessore tecnico e in cui si sono fronteggiati equivalendosi in tutto e per tutto. La Finale del salto in alto alle Olimpiadi di Tokyo 2020 è semplicemente da thrilling e ha regalato pathos a non finire. Entrambi gli interpreti si sono resi protagonisti di un percorso netto, privo di errori e con tutte le misure superate al primo tentativo: 2.24, 2.27, 2.30, 2.33, 2.35, 2.37.  

A 2.39 metri sono incappati in tre errori. Pari merito totale. Ci sono due strade: o procedere allo spareggio (con l’asticella che si abbassa progressivamente ripercorrendo in maniera inversa le misure già superate) oppure accordarsi per condividere il titolo. Il regolamento prevede l’assegnazione di due medaglie d’oro e i due protagonisti di una domenica da sogno, che pochi minuti dopo ci regalerà anche l’apoteosi di Marcell Jacobs sui 100 metri, non ci pensano due volte. Abbiamo due Campioni Olimpici, che esultano in un abbraccio regale. 

Il marchigiano e il qatarino sono stretti amici nel quotidiano. Gimbo salta in braccio all’asiatico e festeggiano tra urla e lacrime. Entrambi hanno condiviso un duro percorso di riabilitazione dopo un infortunio, si sono rialzati, si sono rimessi in gioco e hanno fatto centro. Quel gesso con scritto sopra Tokyo 2020 (sbarrato, 2021), ricordo dell’infortunio di Montecarlo alla vigilia dei Giochi di Rio 2016, è l’emblema delle fatiche vissute dall’azzurro e l’intesa con Barshim è d’ispirazione per le prossime generazioni, un messaggio di fratellanza olimpica che travalica lo spazio e il tempo. 

OTTAVO POSTO – FILIPPO GANNA CAMPIONE DEL MONDO A CRONOMETRO: 

L’uomo arranca nella sua quotidianità afflitto da due variabili ineluttabili: lo spazio e il tempo. Tic. Tac. Lì. Là. Le nostre vite dipendono inevitabilmente, costantemente e ansiosamente dal dove e dal quando. Due certezze che ci condizionano sensibilmente e con cui facciamo abitualmente i conti, talvolta avvolti in riflessioni esistenziali che ci proiettano verso pensieri ancestrali. In tutto questo vortice, di ottimismo o di pessimismo a seconda dei gusti, c’è chi riesce a ergersi a dominatore del tempo. Trasfigurazione del Dio Crono, in mezzo a noi comuni mortali. 

Filippo Ganna ha fatto del tempo una costante ragione di vita. Lo riesce a plasmare, a domare, a controllare, ad arginare. Lo rende un’arma vincente. La sfida imperitura contro le lancette non lo spaventa e anzi lo esalta. Il tic-tac non fa aumentare drasticamente il numero delle sue pulsazioni, non lo agita, non gli incute quel timore naturale, ma anzi lo rilassa e lo fa sentire nel suo habitat naturale. Un metronomo perfetto, autore di un gesto cadenzato e ritmato. Le sue gambe sono due propulsori naturali in grado di spingere rapporti sovrumani. 

Un tutt’uno assoluto con la bicicletta, che diventa un’estensione del suo corpo, un’appendice a cui votarsi e con cui trionfare in tutto e per tutto. Il Campione del Mondo a cronometro, capace di conquistare la maglia iridata lo scorso anno giganteggiando in quel di Imola, è reduce da una bella stagione in cui si è imposto nelle prove contro il tempo al Giro d’Italia. Prima di difendere la casacca arcobaleno, però, è stato sconfitto agli Europei di Trento sul suo terreno prediletto. 

Il piemontese si presenta con qualche dubbio ai Mondiali nelle Fiandre, ma fin dalle prime pedalate si scorge la caratura tecnica e agonistica del ribattezzato TopGun. Si pensa che i 43,4 km da Knokke-Heist a Bruges possano essere troppi per il nostro portacolori che invece è una statua, plastico e marmoreo nel suo gesto da manuale del grande ciclismo. Inscena una battaglia titanica col belga Wout van Aert, che gareggia in casa ed è acclamato da un pubblico rovente e che rasenta le 100.000 unità sulle strade dove il pedale è pura religione. 

Aspettano il sigillo del patriota, nella culla del ciclismo. Filippo Ganna è però insuperabile e nell’ultima parte del percorso demolisce la concorrenza, battendo il grande rivale per appena cinque secondi. Campione del Mondo per la seconda volta consecutiva, come soltanto i più grandi. Da Campione Olimpico dell’inseguimento a squadre. 

NONO POSTO – L’ITALIA DEL VOLLEY FIRMA LA DOPPIETTA AGLI EUROPEI:  

L’Italia è padrona assoluta del volley internazionale! Campioni d’Europa con le donne, Campioni d’Europa con gli uomini. Tutto nello stesso anno. Non era mai successo prima nella nostra storia di vincere la rassegna continentale di entrambi i sessi nella stessa annata agonistica. Il Bel Paese è riuscito a vincere tutto come soltanto tre grandi corazzate del passato, più o meno recente, erano state capaci di fare: Unione Sovietica per nove volte (tra 1951 e 1991), Serbia per due volte (2011 e 2019), Russia per una volta (2013).  

Una mirabolante doppietta nel giro di quindici giorni, sublimazione dell’eccellente scuola tricolore che ha saputo riscattarsi prontamente dopo le due eliminazioni ai quarti di finale rimediate alle Olimpiadi di Tokyo 2020. Si era tornati a casa con le orecchie basse e la testa china, a mani vuote e con tanto amaro in bocca. Si è tornati in campo con la voglia, l’ardore, la speranza di spaccare il mondo e in un mese magico l’Inno di Mameli è suonato per ben due volte. 

Il 4 settembre le ragazze del CT Davide Mazzanti sono riuscite ad espugnare la Stark Arena di Belgrado, sconfiggendo la Serbia padrona di casa davanti a oltre 20.000 spettatori. Paola Egonu e compagne hanno sfatato il tabù contro quella bestia nera che ci aveva sconfitto nella Finale dei Mondiali 2018, agli Europei e ai quarti di finale dei Giochi. Dopo aver perso il primo set, le azzurre mostrarono i muscoli e surclassarono la corazzata di Tijana Boskovic. Paola Egonu l’ha travolta nell’atteso scontro diretto tra le due giocatrici ritenute più forti al mondo, Miriam Sylla ha ruggito da vera capitana, Elena Pietrini è stata magistrale, Alessia Orro e Ofelia Malinov sono risultate registe impeccabili, Monica De Gennaro è volata ovunque, Anna Danesi e Cristina Chirichella sono state granitiche. 

Il 19 settembre, invece, un nuovo gruppo di fenomeni mette subito la propria firma. Il ricambio generazionale del settore maschile si rivela immediatamente vincente, contro qualsiasi pronostico della viglia. Se le donne erano attese al varco in virtù di un’acclarata superiorità tecnica, gli uomini erano una semplice mina vagante e invece in Polonia hanno stesso la Serbia detentrice del titolo in semifinale e poi in un atto conclusivo al cardiopalma si sono imposti al tie-break sulla Slovenia. L’apoteosi di Simone Giannelli, della nuova guardia formata da Alessandro Michieletto, Daniele Lavia, Giulio Pinali, Gianluca Galassi e dall’eroe del parziale decisivo, quel Yuri Romanò proveniente dalla Serie A2 ed esploso da gigante in una partita da campioni, oltre che del nuovo CT Fefé De Giorgi che ha plasmato il gruppo del futuro e del veterano Simone Anzani. 

DECIMO POSTO – L’ITALIA DEL BASKET BATTE LA SERBIA A BELGRADO E SI QUALIFICA ALLE OLIMPIADI: 

L’impresa impossibile: battere la Serbia nella sua tana della Aleksandar Nikolic Arena di Belgrado. Obiettivo: espugnare uno dei palazzetti più roventi del mondo per qualificarsi alle Olimpiadi di Tokyo 2020. L’Italia è chiamata a scalare l’Everest in regime invernale (o, meglio, il K2, per puntualizzare ulteriormente l’estremità del compito a cui è chiamata). La Nazionale di basket maschile si presenta nella capitale senza diverse stelle individuali, ma con un gruppo operaio che ci vuole credere fino in fondo e che nella propria mente sa di non partire battuto. 

L’Italia del basket non vede le Olimpiadi da Atene 2004, ovvero da quando una generazione stoica conquistò una memorabile medaglia d’argento. Per tornare a rivivere le emozioni a cinque cerchi i ragazzi del CT Meo Sacchetti si devono inventare un numero antologico, anche perché l’avversario è uno dei più ostici a livello mondiale, un rivale che parte sempre per salire sul podio nelle grandi competizioni internazionali. Stiamo parlando di un’autentica corazzata che ha fatto la storia della palla a spicchi e che gioca di fronte al proprio pubblico. Danilo Andjusic, Filip Petrusev, Milios Teodosic, Ognjen Dobric sono degli autentici fuoriclasse.  

Nicolò Mannion, Simone Fontecchio, Achille Polonara, Alessandro Pajola, Stefano Tonut, Nicolò Melli si inventano una partita mostruosa e dominano in maniera imbarazzante, sciorinando classe pura nei primi tre quarti e chiudendo i conti con un perentorio 102-95. Si vola alle Olimpiadi. In Giappone gli azzurri si spingeranno fino ai quarti di finale, tenendo testa alla blasonata Francia fino agli ultimi due minuti (i transalpini conquisteranno poi la medaglia d’argento). 

Foto: Lapresse

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