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Calcio, il museo di Coverciano celebra il 55° compleanno di Roberto Baggio: un campione senza tempo

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Ci sono sportivi che non hanno una solo squadra, giocatori che hanno lasciato un segno ovunque siano stati e calciatori capaci di unire l’Italia del tifo, Paese dei campanili e dell’eterne divisioni politiche e sociali. Un’impresa sulla carta quasi impossibile, compiuta però da un uomo che dava calci a un pallone e in esso ha trovato il proprio sogno. Il suo nome è Roberto Baggio, il n.10 di tutti gli amanti del calcio nostrano o dei semplici supporters occasionali, incontratisi in piazza, ogni quattro anni, per assistere alle partite della Nazionale. Immagini e sensazioni che nella giornata odierna, nella quale ricorre il giorno dei suoi 55 anni, tornano a galla.

Più di 200 gol (205) in Serie A, 2 Scudetti, una Coppa Italia e una Coppa UEFA, oltre ad un FIFA World Player, un Pallone d’Oro e la classifica capocannonieri della Coppa delle Coppe i suoi successi. Vestendo maglie prestigiose (Juventus, Milan, Inter e Fiorentina) e di provincia (Bologna, Brescia), Baggio si è fatto voler bene per un atteggiamento mai sopra le righe e la classe sopraffina in campo. Un giorno Michel Platini lo definì un “nove e mezzo”, non un vero dieci, perché univa all’inventiva del più classico trequartista anche la voracità di gol della punta d’area di rigore.

Un folletto che dribblava gli avversari con una facilità impressionante, un po’ come nel suo gol nei Mondiali in Italia del 1990, contro la Cecoslovacchia, quando, ricevendo palla da Giuseppe Giannini, partì in progressione, dalla linea di centrocampo, e nessuno fu in grado di fermarlo. Un’azione d’antologia di cui Roby spesso e volentieri si è reso protagonista in tutte le compagini nelle quali ha militato e soprattutto con l’Italia.

Ebbene sì, quelle 27 realizzazioni azzurre in 56 partite hanno contribuito a renderlo il giocatore preferito per molti giovani dell’epoca, non avendo più alcuna importanza se la sua società di appartenenza fosse la Juve, piuttosto che il Milan o l’Inter. Lui era il “Codino Magico”, troneggiante nelle stanze di molti bambini con il pallone sempre tra i piedi attraverso gigantografie o poster ad altezza naturale.

Un amore infinito per il tricolore. Nel campionato del mondo negli States del 1994 fu un punto di riferimento dagli ottavi di finale in avanti, quando un Bruno Pizzul, già pronto ai titoli di coda sotto di una rete contro la Nigeria, rimase folgorato dalle invenzioni di un calciatore diventato per tutti “Roberto”. Difficile dimenticarsi di quel quarto (di finale) contro la Spagna e della realizzazione a 2 minuti dalla fine, servito da un eccezionale Beppe Signori, saltando Andoni Zubizarreta e siglando il 2-1 nonostante l’intervento alla disperata di Abelardo. E poi quella semifinale contro la Bulgaria di Hristo Stoichkov, carnefice della Germania campione del mondo del 1990, superata grazie ad una doppietta del n.10 italiano. Certo, avete ragione, c’è la finale persa con il Brasile e l’errore dal dischetto, ma non è da questi particolari che si giudica un giocatore. Lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia (citazione Francesco De Gregori).

Del fenomeno di Caldogno (VI) si ne erano accorti, 12 mesi prima, anche quelli di France Football (1993) così allergici ai giocatori italiani, forse anche per la classica rivalità tra il Bel Paese ed i cugini transalpini. Il Pallone d’Oro fu un riconoscimento alle grandi imprese con i colori bianconeri, valse il trionfo della Coppa Uefa, in quello stesso anno, con Giovanni Trapattoni in panchina, contro il Borussia Dortmund in finale.

Se Baggio aveva messo d’accordo tutti, lo stesso non si poteva dire degli allenatori. Tanti i contrasti: da Renzo Ulivieri, che al Bologna non voleva, a Marcello Lippi, nella sua sfortunata esperienza all’Inter, passando per Fabio Capello che lo usava con il contagocce al Milan. Invidiosi della personalità di un atleta che oscurava la propria o quella degli altri membri della rosa? Chissà…Certo è che dopo aver portato da solo i nerazzurri di Lippi in Champions League (2000), con una doppietta strepitosa contro il Parma di Gigi Buffon e Fabio Cannavaro, Roby si ritrovò a doversi allenare da solo e senza una squadra. Arrivò poi l’offerta del Presidente del Brescia Gino Corioni e la chiamata di Carletto Mazzone a convincerlo ad esser parte di un club, non di alto rango, ma vicino alla sua residenza e, soprattutto, che credeva in lui. E così fu. Il campione veneto trascorse gli ultimi quattro anni della sua carriera, deliziando il pubblico bresciano con giocate d’alta scuola e contribuendo alla salvezza della squadra, mai così convincente nella massima categoria italiana.

Il giorno dell’ultimo saluto a San Siro (16 maggio 2004) contro il Milan, in uno stadio gremito ad applaudirlo nell’ultima uscita sul rettangolo verde, ha rappresentato la chiusura del cerchio di un grandissimo sportivo, messo da parte dai nostri vertici, ma riconosciuto come leggenda nonostante i sei interventi al ginocchio e il dolore indicibile sopportato nel corso della carriera. La passione per il calcio è stata più forte perché, vuoi o non vuoi, il pallone è sempre stato il migliore amico del “Divin Codino” e lo sarà per sempre.

E’ per questo che il museo del Calcio di Coverciano ha celebrato la ricorrenza dell’ex giocatore con alcuni cimeli del suo percorso con la Nazionale. Una collezione per far rivivere agli appassionati le più grandi prestazioni del campione: si passa poi alla divisa numero 18 della sfida Italia-Cile del Mondiale Francia 1998, alla fascia da capitano fino ad arrivare alla maglia celebrativa numero 10 con scritto ‘Grazie Roby’ dell’amichevole Italia-Spagna del 28 aprile 2004, che ha segnato la sua ultima presenza in azzurro.

Foto: LaPresse

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