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Sci di fondo, Franco Nones: “Il più grande errore dell’Italia è stato quello di tramutare i grandi atleti in allenatori”

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Franco Nones è una delle figure più significative nella storia dello sci di fondo, non solo italiano, avendone cambiato per sempre i connotati. Grazie alla medaglia d’oro nella 30 km di Grenoble 1968, il trentino diventò il primo uomo nato al di fuori dei Paesi nordici capace di laurearsi campione olimpico. Fino a quel momento la disciplina aveva assegnato 21 titoli, di cui 9 erano finiti in Svezia, 6 in Norvegia e 6 in Finlandia. Il successo di un atleta proveniente dalle Alpi italiane sdoganò lo sci da fondo, tramutandolo da sport geograficamente di nicchia a disciplina potenzialmente per tutti. L’Equipe, realizzando la portata epocale dell’avvenimento, l’8 febbraio 1968 scrisse: “Franco Nones, come Cristoforo Colombo, ha scoperto l’America”.

In più di mezzo secolo questo sport è però cambiato radicalmente, soprattutto dall’inizio del III millennio. Peraltro siamo prossimi a un ulteriore cambiamento, perché dal 2022-23 vi sarà l’equiparazione delle distanze maschili e femminili. Partiamo proprio da questo argomento nella nostra conversazione con Franco, qual è il Nones-pensiero in merito?
“Le gare popolari, quelle che adesso si chiamano Visma Ski Classic, si disputano da sempre con lo stesso chilometraggio. Se guardiamo alla Marcialonga, la prima donna prende 20 minuti rispetto al primo uomo. Vuol dire che se partissero tutti assieme, la migliore ragazza arriverebbe tra i primi duecento. La preparazione atletica femminile è eccellente, se si è presa questa direzione è perché si sa che le atlete possono reggere certi sforzi. Per le big non sarà un problema”.

Però in ambito Fis l’equiparazione è stata raggiunta al contrario. Qualche gara femminile è stata allungata, ma si è principalmente cercato di accorciare quelle maschili. Per gli uomini le prove sopra i 20 km diventeranno una rarità.
“Si cerca sempre di inventare qualcosa per provare a rendere più interessante lo sci di fondo. A me sembra si stiano facendo dei tentativi per vedere come reagisce il pubblico. Pensiamo anche a tutte queste sprint, saranno anche belle da vedere, ma ormai le eliminatorie non le guarda più nessuno. Si da’ un occhio a cominciare dalle semifinali per capire come va a finire, ma non credo attirino chissà quanti spettatori. Una volta in Italia si vendevano 65.000 paia di sci all’anno, adesso saremo sulle 7.000-8.000 paia. Il turismo è il termometro di quanto è popolare una disciplina. Questa contrazione non c’è solo da noi, ma anche in Scandinavia.Va bene fare esperimenti, ma a un certo punto devi guardare ai risultati e capire dove stai andando”.

L’Italia è grande: Franco Nones, l’italiano che spezzò il monopolio nordico nello sci di fondo

Non pensa sia un problema legato alla popolarità tout-court della disciplina, più che alla balcanizzazione dei format di gara?
“No, perché la Visma Ski Classic ormai è molto più seguita della Coppa del Mondo, i grandi sponsor vanno là”

Perché succede questo?
“Perché le gare popolari non sono cambiate rispetto al passato. Bisogna mantenere il romanticismo in questo sport. Se si toglie anche quello, si toglie tutto! Le gran fondo resistono, mentre la gente non va più sulle piste della Coppa del Mondo perché tanto sa già come finiscono le gare. Persino la 50 km di Holmenkollen è diventata un carosello. Fanno dei giri corti, passano sempre in mezzo allo stadio per ‘far vedere gli atleti al pubblico’, ma stringi stringi cosa rimane? Si sa già che va a finire in volata! Se tu sei a casa, sai che una 50 km dura due ore. Dopo un’ora e cinquanta minuti accendi la televisione e guardi chi arriva. Che interesse ci può essere ad andare a seguire sul posto una gara del genere? Vedere un gruppo di atleti che gira in tondo aspettando la volata? A cosa serve passare dentro allo stadio 8 volte se poi non c’è gente? ”

Insomma, bisognerebbe fare qualche passo indietro ed essere più rispettosi della tradizione?
“Io dico solo che a furia di andare in questa direzione si è perso tanto seguito. Non si può tornare indietro, ormai le 50 km durano tanto quanto le 30 km dei miei tempi! Le piste sono diventate autostrade, le scioline non le sbagli più e gli sci sono evoluti tantissimo. Può anche andare bene così, i tempi cambiano e lo sci di fondo non deve essere massacrante, però quantomeno che sia uno sport dove vinca sempre il migliore”.

Abbandoniamo l’ambito globale e concentriamoci sullo sci di fondo italiano. Cosa pensa di quanto sta accadendo nel nostro Paese?
“Sono contento che Pellegrino e De Fabiani siano tornati a lavorare assieme agli altri, perché può fare bene a tutto il movimento. Per migliorare bisogna allenarsi con chi va più forte e ‘rubargli il mestiere’, come si diceva una volta. Per esempio, se guardo alla mia esperienza da atleta, quando noi italiani siamo andati per la prima volta in Svezia abbiamo subito notato come gli svedesi non nascessero con il cervello più fine o i muscoli più grossi. Vincevano perché si allenavano il doppio di noi e abbiamo capito cosa dovevamo fare per salire di livello”.

Insomma, è fondamentale avere dei punti di riferimento.
“Certo, un esempio positivo possono essere i finlandesi. L’anno scorso a Lahti sono tornati sul podio in una staffetta dopo più di un decennio in cui non ci salivano. Perché, avendo Niskanen, anche gli altri sono cresciuti di livello pur non essendo fenomeni come lui. Vedrete che anche gli svedesi, attualmente in difficoltà, si organizzeranno e torneranno ora che hanno trovato Poromaa”.

Però Franco, mi permetta di essere schietto. Pellegrino e De Fabiani sono usciti dalla squadra solo per un anno, prima hanno lavorato con gli altri per quasi un decennio. Evidentemente il fondo azzurro ha altri mali, altrimenti saremmo già tornati in auge. Cosa manca?  
“Il nostro errore è stato quello di tramutare i grandi atleti in allenatori. Una volta i tecnici erano professori di educazione fisica, avevano cultura sportiva e atletica a tutto tondo. Bengt Herman Nilson, l’uomo che negli anni ’60 ha portato lo sci di fondo italiano nel professionismo, non era un bravo fondista. Era un militare ed era un professore di educazione fisica! Se penso anche agli anni ’80 e ’90, c’era Sandro Vanoi a tirare le fila, lui nasce come pugile! Lo staff tecnico era composto da professori di educazione fisica, non da ex grandi fondisti. L’atleta, per emergere, ha bisogno di qualcuno che gli spieghi cosa fare per poter arrivare al vertice. Però non è detto che chi ci è arrivato possa essere in grado di portare gli altri a quel livello. Capisce cosa voglio dire?”.

Che un grande atleta non è necessariamente un grande allenatore e viceversa?
“Perché uno come Alberto Tomba non è mai diventato allenatore? Lo stesso vale per Stenmark. Cosa possono insegnare Tomba e Stenmark? Loro sono nati per sciare! Il grande atleta è tale perché ha qualcosa di diverso dagli altri. Il fuoriclasse ti può dire ‘io facevo così perché’. Però magari valeva solo per lui, perché gli permetteva di sfruttare certe qualità che altri non hanno. I fuoriclasse sono abituati a vivere nel loro mondo, non nel mondo degli altri quaranta”.

Allora che qualità deve avere un grande allenatore?
“Innanzitutto deve saper preparare un fisico sul piano atletico. La parte tecnica viene dopo. Si può insegnare tutta la tecnica che si vuole, ma se manca il fisico, allora è inutile. In secondo luogo il grande allenatore è una persona che sa gestire una squadra. Bisogna avere delle qualità umane per poterlo fare. Una torta è buona perché gli ingredienti vengono mischiati e amalgamati nel modo giusto da un cuoco sapiente. Non basta mettere gli ingredienti tutti assieme in un tegame senza criterio. Il grande allenatore sa vivere con gli atleti, sa parlare con loro e sa farsi ascoltare”.

Può farci un esempio concreto di queste qualità?
“Un giorno Nilson mi prese da parte e mi disse: ‘Franco, dovresti farmi un piacere. Quando siamo in riunione, non parlare mai. Perché se parli tu che vinci, i ragazzi ascoltano te e non me. Se hai un problema, vieni da me e ne parliamo tra di noi, così lo risolviamo. Quando siamo in gruppo, però, non aprire bocca’. Lì ho capito che l’atleta leader, anche se non vuole, può offuscare e prevaricare l’allenatore. Perché tutti gli altri atleti guardano a lui e cercano di capire qual è il suo ‘segreto’, che però magari non c’è e allora i compagni di squadra si fanno delle idee sbagliate sul giusto modo di lavorare. Posso raccontare un episodio che mi è rimasto impresso proprio per la sua stupidaggine?”.

Prego.
“Io avevo l’abitudine di portarmi il formaggio in caserma e di farne scorta. Solo che con il passare dei giorni si induriva. Allora, per intenerirlo, lo mettevo nel caffèlatte, così il calore lo ammorbidiva. Chi faceva colazione con me mi vide e pensò che il mio segreto fosse di mettere il formaggio nel caffè! Allora ci furono persone che cominciarono a mettere di nascosto il formaggio nel caffè, solo perché io facevo così. Ma io volevo solo mangiare il formaggio induritosi, non certo per vincere le gare! Non era il formaggio nel caffèlatte il mio segreto!”

Allora qual è il segreto per essere un grande atleta? Oltre al fisico e alla tecnica, sia chiaro.
“L’ambizione. C’è chi si accontenta di arrivare terzo, e allora a un certo punto si siede; c’è invece chi vuole arrivare primo e allora non si siede mai, anche se arriva sempre terzo. È così a tutti i livelli. Purtroppo oggi in tanti vedono l’arruolamento come un punto d’arrivo, perché c’è lo stipendio garantito. Una volta si arruolavano molte più persone, però se non ottenevi risultati uscivi dal gruppo sportivo e andavi a fare servizio ordinario, pur restando nel corpo. Per essere grandi atleti serve innanzitutto la volontà di diventarlo”.

Foto: OLYCOM

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